Dott.sa Debora Rasio

Medico, specialista in oncologia medica, ricercatrice presso la Sapienza Università di Roma, nutrizionista Rai, Mediaset e La7, autrice dei bestsellers “Death by Medicine” -Axios Press; “La dieta non dieta” -Mondadori- e il recente “La dieta per la vita” -Longanesi, vanta una notevole attività di ricerca anche all’estero – fra le collaborazioni quella con il Kimmel Cancer Center della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Proprio l’attività come oncologa e i suoi studi nel campo della biologia molecolare l’hanno portata a interessarsi di alimentazione come strumento per tutelare la salute

Proteggersi dalle infezioni: il terreno conta più dei germi

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In questo momento di preoccupazione dilagante per l’esplosione dell’epidemia causata dal nuovo Coronavirus, per chi volesse aumentare le proprie difese immunitarie e divenire più resistente a qualunque infezione – COVID-19 inclusa – sarà utile ripercorrere alcuni concetti chiave della fisiologia e della microbiologia.

Ognuno di noi viene in contatto ogni giorno con un numero enorme di virus e batteri dei quali solo una minoranza risulterà patogena, cioè in grado di penetrare all’interno del corpo e replicarsi. Non è un mistero che esistono persone che non si ammalano mai a fianco di altre che al primo freddo, invece, sviluppano i sintomi di un’infezione. Altrettanto noto è che l’inverno è il periodo dell’anno in cui le infezioni virali tendono a diffondersi di più perché con il freddo la “capsula” di cui il virus è rivestito – e che lo protegge – risulta più resistente, consentendogli di sopravvivere più a lungo. Nel clima freddo, inoltre, la mucosa nasale, tra le prime barriere difensive del nostro organismo nei confronti dei virus respiratori, risulta più disidratata e indebolita favorendo così la proliferazione degli agenti patogeni all’interno delle vie aeree superiori. Numerose ricerche hanno poi messo in relazione il calo dei livelli di vitamina D tipici dell’inverno – quando l’esposizione al sole è ridotta – con un “infiacchimento” del sistema immunitario, più indifeso contro virus e batteri. Vero è che se ormai siamo abituati al virus dell’influenza e al suo arrivo, puntuale, con l’inverno, questo Coronavirus spaventa di più perché: 1) è nuovo e non abbiamo ancora sviluppato anticorpi contro di lui; 2) ha un’elevata capacità di diffusione da un soggetto ad un altro; 3) può dar luogo in chi è debilitato o vulnerabile a polmoniti severe.

INDIVIDUO VS VIRUS
Chiariamo che i Coronavirus sono una vasta famiglia di virus RNA – con un aspetto simile a una corona al microscopio elettronico – identificati per la prima volta verso la metà degli anni ’60 e capaci d’infettare alcuni animali e l’uomo attaccandosi alle cellule del tratto respiratorio e gastrointestinale. Se ancora non si comprende l’origine della recente diffusione dell’infezione all’uomo, è invece chiaro che non tutti quelli che lo contraggono si ammalano: si può essere infettati e non avere alcun sintomo oppure sviluppare un raffreddore, una sindrome influenzale o più raramente una polmonite con grave insufficienza respiratoria. Il fatto che uno stesso virus (o altro microrganismo) a contatto con qualcuno possa risultare completamente innocuo mentre in qualcun altro possa dare esiti mortali ci deve far riflettere sulla rilevanza del “terreno”, rispetto al “germe”. Nel braccio di ferro tra un individuo e un microrganismo, infatti, si battono da una parte la virulenza del microrganismo (cioè la sua intrinseca capacità di attaccarsi alle nostre cellule, sopravvivere, moltiplicarsi ed eludere le difese immunitarie) e dall’altra la capacità del nostro sistema immunitario di riconoscere e distruggere l’invasore. Dei due fattori, il più importante – e anche quello più trascurato – è il secondo.

Lavorare sul terreno individuale potrebbe apparire complicato e, nel caso delle infezioni batteriche, relativamente superfluo perché abbiamo a disposizione terapie antibiotiche in grado di uccidere rapidamente i responsabili dell’infezione (senza dimenticare, però, che in Italia ogni anno circa 11.000 persone muoiono di polmonite originate per lo più da batteri).

Contro le infezioni virali, invece, non esiste al momento alcuna terapia efficace e se vogliamo contrastare il rischio di un’infezione non abbiamo altra soluzione che occuparci del nostro terreno per dare modo al sistema immunitario – l’esercito di cellule che pattuglia costantemente il sangue per proteggerci dall’aggressione di microrganismi esterni – di svolgere il suo ruolo protettivo al meglio.

UN’ANTICA DISPUTA
La disputa sull’importanza dei germi rispetto al terreno risale a quasi due secoli fa ed è il frutto dell’antagonismo tra due brillanti scienziati francesi: Louis Pasteur e Antoine Bechamp. Il primo attribuiva ai germi le cause delle malattie, il secondo sosteneva che i germi fossero presenti ovunque, anche dentro noi, e che la capacità di sviluppare una malattia non dipendesse da loro ma dall’ambiente interno, dal “terreno” dell’individuo. Un terreno buono impedirà la crescita inappropriata dei microrganismi; un terreno indebolito, invece, aprirà le porte a infezioni. Bechamp sosteneva che, per prevenire le malattie, non occorreva uccidere i microrganismi ma “rafforzare” il nostro terreno attraverso la dieta, il movimento, l’aria aperta e corrette pratiche d’igiene. Alla fine fu la visione di Pasteur che prese il sopravvento in ambito scientifico fornendo le basi per la scoperta dei vaccini e degli antibiotici. Furono invece pressoché dimenticati Bechamp e la sua teoria del terreno per quanto oggi si sa che “riscoprirli” non solo aiuterebbe a controllare le infezioni virali, ma è anche l’unica via che abbiamo per fronteggiare la pandemia silente di malattie croniche – cardiovascolari, respiratorie, neurodegenerative, diabete e tumori – che miete ogni anno milioni di vittime in tutto il mondo, occidentale e non. E che, per diretta ammissione degli esperti, possono essere controllate solo attraverso un cambiamento di stile di vita.

I PASSI DA COMPIERE PER COSTRUIRE IL MIGLIOR TERRENO CONTRO I VIRUS
Una miriade di osservazioni, alcune piuttosto antiche e altre recenti, dimostra chiaramente che il sistema immunitario non può funzionare in situazioni di malnutrizione, sia per eccesso che per difetto. In effetti, i grassi, che consumiamo con la dieta (ad es. gli acidi grassi, il colesterolo o le vitamine liposolubili come la D, la A e la E), il glucosio, gli amminoacidi, le vitamine idrosolubili (la C e quelle del gruppo B), gli antiossidanti, gli oligoelementi come ad es. lo zinco, il rame e il ferro influenzano profondamente l’immunità e le carenze nutrizionali sono attualmente considerate la causa più comune di immunodeficienze nell’uomo.

Ridurre il consumo di zuccheri. Per rafforzare le difese immunitarie la prima cosa da fare è ridurre al minimo il consumo di zucchero, onnipresente negli alimenti trasformati industrialmente. Lo zucchero da una parte crea stress ossidativo-infiammatorio che “distrae” il sistema immunitario obbligandolo a inviare “truppe scelte” per occuparsene e indebolendo così la sorveglianza antimicrobica; dall’altra indebolisce l’azione delle cellule immunitarie che non sono più in grado di funzionare al meglio. Se i picchi di glicemia vanno evitati, diverso è il caso di fonti di zucchero più stabili come quelle provenienti dai cereali in chicchi e dai legumi i quali, oltre al glucosio, riforniscono il corpo di vitamine, minerali e oligoelementi – tutti importanti cofattori degli enzimi coinvolti nella risposta immunitaria. Per non parlare della fibra, il nutriente preferito dei buoni batteri del nostro intestino. Mantenere un adeguato apporto di glucosio in alcuni casi può fare la differenza tra la vita e la morte come ha recentemente dimostrato un recente studio dell’università di Yale, pubblicato sulla prestigiosa rivista Cell.

Nutrirsi adeguatamente. I ricercatori hanno dimostrato che il digiuno riduce la mortalità nelle infezioni causate da batteri mentre aumenta la mortalità nelle infezioni causate da virus. Digiunare in corso di febbre è un evento piuttosto frequente. È il cervello che invia l’input di non mangiare per attivare la chetosi, il processo di produzione di energia a partire dai grassi, un tipo di metabolismo che diventa operativo solo quando si esauriscono le scorte di glucosio nel fegato e nei muscoli. Ebbene, i ricercatori hanno dimostrato che la chetosi indotta dal digiuno riduce lo stress ossidativo, quell’insieme di danni collaterali causati dalle nostre stesse cellule immunitarie alle altre cellule del corpo nel tentativo di combattere i batteri invasori. Il contenimento della risposta infiammatoria aumenta significativamente la probabilità di sopravvivere a un’infezione grave.

In corso d’infezione da virus, invece, la questione sembra essere diametralmente opposta poiché la disponibilità di glucosio in circolo aiuterebbe le nostre cellule a sopravvivere allo stress indotto dalla risposta infiammatoria antivirale. Un adeguato quantitativo di glucosio in circolo, infatti, preverrebbe l’apoptosi, un tipo di morte cellulare programmata scatenata dall’infezione virale.

I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni con un elegante studio sui topini. Infettati con un batterio (L. monocytogenes), i topini smettono spontaneamente di mangiare e, così facendo, sopravvivono all’infezione. Quando, invece, i ricercatori somministrano forzatamente un piccolo quantitativo di glucosio (corrispondente a un quinto del loro normale apporto calorico), gli animali muoiono perché le cellule del cervello, non essendo più protette dalla chetosi, non riescono a sopportare il danno innescato dalla risposta infiammatoria.

Anche i topini infettati con il virus dell’influenza sviluppano anoressia, ma in forma minore rispetto a quelli infettati con il batterio. E se viene loro somministrato del glucosio, i topini, inaspettatamente, sono protetti dalla mortalità tipica del virus dell’influenza perché le loro cellule diventano più resistenti allo stress ossidativo.

Questo studio suggerisce che il nostro sistema immunitario reagisce in modo diverso a seconda dell’incontro con un virus o un batterio e che, in corso di un’infezione virale come quella influenzale o da Coronavirus, garantire uno stato nutrizionale adeguato potrebbe fare la differenza fra la vita e la morte.

Minimizzare l’assunzione di oli vegetali. Gli oli vegetali raffinati – fonte di omega-6 e ineluttabilmente alterati dalle estrazioni ad alte temperature – s’inseriscono nelle pareti delle membrane cellulari dove alterano la comunicazione tra le cellule, interferendo con il normale funzionamento del sistema immunitario e aumentando la risposta pro-infiammatoria a scapito di quella anti-infiammatoria.

Anche un eccesso di grassi saturi deprime l’attività delle cellule immunitarie, aumentando il rischio d’infezioni. Limitare al minimo i cibi confezionati (biscotti, pani, cracker, dolciumi, creme ecc.), quelli della ristorazione collettiva, le fritture industriali e i fast food, tutte fonti di abbondanti oli vegetali raffinati, è un passo fondamentale per modificare la composizione delle membrane plasmatiche e ottimizzare il funzionamento delle cellule immunitarie.

Ottimizzare i livelli di omega-3. Gli omega-3 si oppongono agli omega-6 all’interno delle membrane cellulari dove svolgono azione anti-infiammatoria. Inoltre, quando il nostro corpo metabolizza gli omega-3 produce naturalmente delle molecole chiamate endocannabinoidi o cannabinoidi endogeni perché si legano agli stessi recettori del cervello attivati dai cannabinoidi della cannabis sativa. Gli endocannabinoidi sono molecole che, insieme ai loro recettori, si trovano in tutto il corpo: nel cervello, negli organi, nei tessuti e anche nelle nostre cellule immunitarie. Il sistema endocannabinoide interagisce con il sistema nervoso e con il sistema immunitario per ridurre l’infiammazione, il dolore e lo stress in modo simile alla cannabis, ma senza riprodurre gli effetti psicotropici della pianta.

Garantire un adeguato apporto di zinco. Lo zinco è un nutriente essenziale per l’uomo: partecipa al funzionamento di circa 300 enzimi e ha una serie di effetti sul sistema immunitario. La sua carenza è associata ad una maggiore suscettibilità alle infezioni. Il deficit di zinco è abbastanza comune nei paesi a basso reddito, ma una carenza lieve è stata osservata anche nei paesi a medio e alto reddito. Una metanalisi di sei studi condotti in Bangladesh, India, Perù e Sudafrica ha concluso che l’integrazione di zinco previene la polmonite e che bassi livelli di assunzione di zinco con la dieta possono avere un ruolo importante nella ridotta resistenza alle infezioni.

Lo zinco a basse concentrazioni inibisce la replicazione nel rinofaringe di moltissimi virus respiratori, inclusi il virus respiratorio sinciziale, il poliovirus, il virus dell’influenza e il coronavirus della Sars (SARS-CoV). Non sono ancora stati pubblicati dati circa gli effetti dello zinco sul COVID-19 (la malattia causata dal nuovo coronavirus), ma è plausibile che inibisca anche la loro replicazione.

L’assunzione giornaliera di zinco generalmente raccomandata è di 11 mg/die per gli uomini e 8 mg/die per le donne, tuttavia l’assunzione di dosi da 100 mg a 150 mg al giorno per diversi mesi è risultata scevra da effetti collaterali significativi. In ogni caso va ricordato che la supplementazione a lungo termine di zinco potrebbe indurre carenza di rame.

Evitare i più comuni trigger del sistema immunitario. Il 70% del sistema immunitario se ne sta schierato sotto la superficie delle pareti dell’intestino, pronto ad attaccare frammenti proteici derivati dalla incompleta digestione degli alimenti. Tra tutte, le proteine più comunemente “irritanti” sul nostro sistema immunitario sono il glutine e la caseina: è stato dimostrato che entrambe, durante la digestione, danno luogo a piccoli frammenti proteici o peptidi chiamati gluteomorfine e caseomorfine che riducono la tolleranza immunitaria alle proteine alimentari potendo innescare reazioni autoimmuni. Va da sé che se il nostro sistema immunitario deve schierarsi ogni giorno contro altri invasori (ad esempio frammenti di proteine alimentari) sarà più sguarnito nel difendersi da un eventuale attacco da parte di microrganismi esterni. Ecco, allora,

una serie di azioni che riforniscono il nostro organismo di un’ampia varietà di nutrienti e mettono a riposo il sistema immunitario localizzato nelle mucose dell’intestino – che comunica con le cellule immunitarie di tutte le altre mucose, incluse quelle delle vie respiratorie – rendendolo più competente nel fronteggiare eventuali attacchi da parte di virus o batteri. In particolare si tratta di: 1) ridurre il consumo di glutine a favore dei cereali che ne sono privi (riso, quinoa, miglio, grano saraceno, l’avena, l’amaranto e il teff); 2) inserire altre fonti di amido come le castagne e la batata; 3) sostituire il latte vaccino con quello proveniente da capre, pecore o bufale (le cui caseine non generano caseomorfine).

Rifornirsi di vitamina D. La vitamina D è un ormone che regola l’espressione del 3 percento dei nostri geni partecipando in modo inequivocabile al corretto funzionamento del sistema immunitario poiché lo attiva contro germi patogeni e, al contempo, contrasta l’eccessiva risposta infiammatoria. Capiamo, dunque, quanto sia importante assicurarsene buoni livelli circolanti. Molti ricorderanno come, prima della scoperta degli antibiotici, si potesse guarire da un’infezione grave e complessa come la tubercolosi – oggi curabile grazie all’utilizzo in contemporanea di tre diversi antibiotici – semplicemente esponendosi alla luce del sole. La scoperta del potere curativo del sole diede impulso alla costruzione di diversi sanatori in alta montagna, per garantire ai malati la possibilità di curarsi 12 mesi l’anno attraverso l’esposizione ai raggi UVB. Questi, infatti, sono la principale fonte di vitamina D e, alle nostre latitudini, raggiungono la crosta terrestre soltanto in estate, nelle ore in cui il sole è prossimo allo zenit, tra le 11.00 e le 15.00.

Le prove sperimentali raccolte fino ad oggi supportano un ruolo della vitamina D nella terapia della tubercolosi, dell’influenza e delle malattie virali del tratto respiratorio superiore.

La vitamina D in sostanza: stimola il sistema immunitario a produrre fattori chiamati defensine e catelicidine che possono uccidere virus e batteri; aumenta la capacità dei macrofagi di uccidere i microrganismi; previene l’eccessiva espressione di citochine proinfiammatorie contenendo lo stress ossidativo responsabile delle complicanze gravi delle infezioni; è necessaria per l’espansione dei cloni di cellule T in grado di riconoscere e attaccare i microrganismi invasori.

Il deficit di vitamina D si associa a compromissione di alcuni recettori (TLR7) che regolano la risposta immunitaria contro i virus. L’azione protettiva sul sistema immunitario è dose-dipendente e i suoi livelli sierici non devono essere inferiori a 30 ng/mL.

CONTRO LO STRESS OSSIDATIVO.
Le complicanze gravi delle infezioni sono il risultato dell’intensa lotta – con produzione di grande stress ossidativo – fra i microrganismi e il sistema immunitario. Consumare più frutta e verdure fresche, spezie ed erbe aromatiche, ricche in vitamine, oligoelementi e antiossidanti, fornisce al nostro sistema immunitario i cofattori indispensabili per funzionare al meglio. Fra i molti antiossidanti, quelli emersi come i più efficaci nel difenderci dall’aggressione di virus e batteri sono la vitamina C e il Nac (N-acetilcisteina).

Vitamina C . La vitamina C è un nutriente essenziale per l’uomo, con funzioni pleiotropiche legate alla sua capacità di donare elettroni e spegnere lo stress ossidativo. Nel corso di un’infezione i livelli sierici di vitamina C diminuiscono rapidamente, probabilmente per il consumo della vitamina C nella reazione di disattivazione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) e i suoi fabbisogni, di conseguenza, aumentano.

La vitamina C, comunque, non funziona solo come antiossidante ma è anche coinvolta nel potenziamento di diverse funzioni del sistema immunitario innato e adattativo. Nei monociti – di solito fra le prime cellule mobilitate nella risposta immunitaria all’infiammazione – la vitamina C si concentra 80 volte di più rispetto ai suoi livelli nel plasma (Evans et al., 1982). Questo consente loro di portare un surplus di vitamina C nel sito di infezione migliorando la fagocitosi e l’uccisione di virus e batteri. La vitamina C stimola, inoltre, la produzione di anticorpi, citochine e interferone, che contrastano la diffusione del virus e interferisce direttamente con l’assemblaggio di costituenti del virus (RNA e DNA).

Verso la metà del XX secolo sono state usate con successo infusioni di dosi elevate di vitamina C nel trattamento delle infezioni da poliomielite, difterite, herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio), herpes simplex, varicella, influenza, morbillo, parotite e polmonite virale. È tutto descritto nel libro “Injectable Vitamin C: Effective Treatment for Viral and Other Diseases”, una raccolta del pensiero e del lavoro del Dr. Fred R. Klenner e di altri medici e ricercatori che hanno lavorato dagli anni ’30 agli anni ’70 utilizzando la vitamina C per via endovenosa nel trattamento delle infezioni virali.

Più recentemente alte dosi di vitamina C per via endovenosa hanno dimostrato di essere efficaci contro le infezioni virali come il comune rinovirus (Hemila ed Herman, 1995); il virus aviario H1N1 (Ely, 2007;) il Chikungunya (Gonzalez et al.2014; Marcial-Vega et al, 2015); lo Zika (Gonzalez et al 2016) e il virus dell’influenza (Zarubaeva et al.2017).

Assumere vitamina C per bocca a dosi superiori a 3 g/die sembra poter apportare benefici specialmente nelle fasi iniziali di un’infezione virale respiratoria e sistemica (Carr e Maggini, 2017).

N-acetilcisteina (NAC). La N-Acetilcisteina, detta più semplicemente NAC, è un principio attivo comunemente utilizzato per sciogliere il muco che ostruisce le vie aeree in corso di infezione. Ha spiccate proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e di contrasto all’invecchiamento cellulare ed è un alleato prezioso contro i virus influenzali e le malattie polmonari croniche. Anzi, più il ceppo del virus è patogeno, più il Nac si è dimostrato in grado di inibirlo. Ciò è stato dimostrato per l’influenza di tipo A, la H5N1 e la H1N1, tutte sigle di virus influenzali che abbiamo tristemente imparato a conoscere negli ultimi anni a causa della loro aggressività sull’uomo.

Proprio uno studio italiano ha dimostrato l’efficacia del Nac contro l’H1N1 su 2/3 dei pazienti trattati. Più nel dettaglio, sono state selezionate 262 persone, in gran parte over 65 e sofferenti di malattie croniche e degenerative, ma non di tipo respiratorio proprio per non confondere gli effetti del principio attivo su questo tipo di patologie pre-esistenti rispetto a quelli che si volevano studiare sull’H1N1. I partecipanti allo studio sono poi stati divisi casualmente in due gruppi: al primo è stata somministrata una dose di 600 mg al giorno di Nac per sei mesi, al secondo un placebo. Nell’arco di tempo considerato, solo il 25% del primo gruppo trattato con il Nac ha contratto il virus H1N1, contro il 79% di quelli che hanno assunto il placebo. I malati del primo gruppo, inoltre, rispetto agli altri hanno presentato sintomi molto più attenuati e sostenibili. Ciò suggerisce che assumere supplementi di Nac durante l’inverno possa attenuare il rischio di contrarre il virus influenzale. La spiegazione sta nel fatto che l’obiettivo tipico dei virus potenti è l’endotelio, il tessuto che riveste i vasi sanguigni e il cui danneggiamento conduce a edema polmonare e emorragie. Le proprietà antivirali della Nac si concentrano proprio su questo fronte rendendola più efficace contro i virus aggressivi e meno contro quelli deboli che non arrivano a colpire l’endotelio.

Di norma i più comuni integratori di Nac sono in capsule da 500mg. E’ la dose giornaliera raccomandata che raddoppia durante i mesi freddi a massimo picco influenzale. Contro il raffreddore o la febbre il tempismo è tutto e il dosaggio deve aumentare al comparire dei primissimi sintomi: attendere il secondo giorno significa concedere al virus un enorme vantaggio. Il dosaggio dovrebbe così raddoppiare rispetto a quello abituale già il primo giorno, triplicare il secondo per poi tornare gradualmente a scendere già a partire dal terzo. È bene sapere che gli integratori Nac di alta qualità possono odorare di uova marce a causa del loro alto contenuto in zolfo.

IL PRINCIPIO DELLA RANA BOLLITA
Le istituzioni dei governi (i ministeri, gli istituti di sanità, le università, gli ospedali, i medici…) pongono al centro dei loro obbiettivi la salute dell’individuo e hanno attuato una serie di misure contenitive di contrasto alla diffusione di COVID-19. Nel caso, invece, dei milioni di morti che si verificano ogni anno per eccesso di smog, pesticidi, zuccheri, oli raffinati, alimenti ultra-processati ecc, vige un immobilismo impressionante. Questo paradosso è stato condensato dal linguista e filosofo americano Noam Chomsky nel “principio della rana bollita”. Se mettiamo una rana viva dentro una pentola di acqua bollente essa, percependo il pericolo, balzerà fuori dall’acqua salvandosi la pelle. Se, invece, mettiamo il povero animale dentro una pentola di acqua fredda e accendiamo il fuoco, esso se ne starà beato nel tepore dell’acqua che va lentamente riscaldandosi. Quando, a un certo punto, si renderà conto che l’acqua sta diventando troppo calda e pericolosa e sarà finalmente pronta a saltare fuori, la rana non potrà più farlo perché le sue carni, nel frattempo, si sono intenerite e i muscoli non reagiranno più. Non riuscirà più a salvarsi e morirà bollita.

Questa storia rappresenta, purtroppo, una gran parte dell’uomo moderno. I governi di tutto il mondo hanno adottato misure drastiche, incuranti delle ricadute sull’economia, per salvare quella quota di persone fragili che possono morire per effetto del nuovo Coronavirus. Ma nessuno si cura veramente dei milioni di morti per smog (80.000 l’anno solo in Italia, oltre a 90mila per diabete e 220mila per malattie cardiovascolari) che si potrebbero in gran parte prevenire mettendo in atto politiche economiche diverse. Un esempio? La Danimarca nel 2004 ha bandito l’utilizzo di acidi grassi idrogenati nei biscotti, merendine e dolciumi vari e la mortalità per malattie cardiovascolari è crollata passando da 359,9 per 100.000 persone nel 2003 a 210,9 per 100.000 persone nel 2012.

Continuiamo a inviare ambulanze e utilizzare tecnologie sofisticatissime per salvare tutti quelli che cadono da una rupe, ma nessuno si cura di mettere una rete protettiva per evitare le cadute. Sarebbe semplice, economico e risparmierebbe molte sofferenze.

Dr.ssa Debora Rasio
Laureata in medicina e chirurgia e specialista in oncologia, direttore del master di II livello in Medicina Integrata presso l’Università Telematica San Raffaele di Roma, autrice del bestseller Mondadori “La Dieta Non Dieta”, Debora Rasio vanta una notevole attività di ricerca anche all’estero – fra le collaborazioni quella con il Kimmel Cancer Center della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Proprio l’attività come oncologa e i suoi studi nel campo della biologia molecolare l’hanno portata a interessarsi di alimentazione come strumento per tutelare la salute.


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