Un itinerario nella Tuscia viterbese a Sant'Angelo di Roccalvecce tra murales, necropoli e borghi fantasma
Indice dell'itinerario

Sai che nel Lazio c’è un borgo che racconta favole? Si chiama Sant’Angelo di Roccalvecce, è una frazione di Viterbo ed è un borgo coloratissimo grazie a un progetto lanciato per salvarlo dall’abbandono. Andiamo a scoprirlo in camper.

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Sant’Angelo di Roccalvecce

Tutto ha avuto inizio nel 2016 quando tre giovani di Sant’Angelo di Roccalvecce, frazione di Viterbo posta a ventina di chilometri dalla città, hanno lanciato un progetto per salvare il il ripristino della sentieristica e la riqualificazione urbana attraverso un ciclo di murales dedicati alle fiabe europee.

Ed è un’opera tutta al femminile quella voluta dall’associazione Acas: i dipinti che abbelliscono i muri della località della Tuscia (a lavori ultimati saranno in tutto sessanta) sono realizzati interamente da donne, anche grazie al contributo di altre realtà attive sul territorio.

La storia dei dipinti

La prima opera a Sant’Angelo di Roccalvecce, firmata da Tina Loiodice, narra il fantastico mondo di Alice nel paese delle meraviglie popolato dalle carte da gioco e dal Bianconiglio, con il suo immancabile orologio da tasca che segna le 11 e 27 a ricordare che il murales – il primo della galleria en plein air – è stato inaugurato il 27 novembre del 2017. Girato l’angolo un bambino e una bambina (i loro volti sono il ritratto di due fanciulli locali, e così avviene anche in altri dipinti presenti nel paese) tirano con una fune un enorme tendone, invitando il visitatore a varcare un’immaginaria soglia e addentrarsi nel mondo della fantasia.

Quando arriviamo nel villaggio Giovanna Alfeo sta ultimando in Via Graffignano L’albero delle matite ispirato all’omonima filastrocca di Gianni Rodari: viene da Pomezia e il suo lavoro è un omaggio allo scrittore piemontese di cui nello scorso ottobre ricorreva il centenario dalla nascita. Alessandra Carloni racconta Il pifferaio magico dei fratelli Grimm.

Isabella Modanese regala un tocco orientale all’allestimento rappresentando Alì Babà in compagnia del suo fedele cammello all’ingresso della caverna ricolma d’oro e gioielli. Giusy Guerriero fa rivivere Il soldatino di stagno innamorato della ballerina di carta, Cecilia Tacconi illustra in 3D Rosmarina, la fiaba nata dalla penna di Italo Calvino, e colora le tre pareti del portico di un nuovo bed&breakfast.

Dal borgo si dipanano numerosi tracciati escursionistici segnalati dal CAI: il 166, chiamato Sentiero dei Castelli e delle Fiabe, conduce in un’ora e mezza conduce al borgo fantasma di Celleno. Lungo quattro chilometri e mezzo, è adatto anche ai bambini e tocca il suggestivo borgo medievale di Sant’Angelo di Roccalvecce, altra frazione di Viterbo.

Qui vale la pena visitare il castello della famiglia Afan de Rivera Costaguti, inserito nella rete delle Dimore Storiche del Lazio, che offre una raffinata ospitalità in quindici camere con soffitti a cassettoni e letti a baldacchino. La sala attigua alla suite ospita un antico fortepiano utilizzato nel film Totò diabolicus del 1962. E ancora, il ristorante allestito nelle sale dell’armeria propone una cucina tipica, mentre il parco che si sviluppa intorno al maniero è ingentilito da un giardino all’italiana.

Il borgo scomparso di Celleno

Quante volte vi siete detti: “voglio fare un viaggio da nord a sud tra i luoghi dimenticati d’Italia”? Oggi sono circa seimila i borghi disabitati dove il tempo si è fermato. Andiamo a scoprire Celleno.

Il primo edificio che s’incontra lungo la strada verso il paese è il convento di San Giovanni che conserva una cappella e un chiostro settecentesco affrescato. Giunti nella piazzetta ecco la graziosa chiesetta dedicata a San Rocco: si narra che il portale in peperino su cui campeggia lo stemma della famiglia Orsini sia un bottino di guerra che gli abitanti trafugarono dall’antica città romana di Ferento.

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All’interno custodisce un altare dorato che racchiude un crocifisso in legno di pero del XVI secolo, attribuito alla scuola del Donatello. Superato l’arco d’ingresso, posto in cima a una scenografica salita, si sbuca sulla piazza principale con la chiesa seicentesca di San Carlo, oggi adibita a museo, che raccoglie vari esemplari di strumenti musicali del XIX e XX secolo, il castello Orsini e i resti della chiesa di San Donato del XII secolo affiancati dal campanile.

L’abitato si sviluppò nel XIII secolo, dopo che fu completato il castello voluto dai conti Monaldeschi di Bagnoregio, con le alte mura protettive ancora parzialmente visibili. Nel 1938, a causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie, una parte della popolazione fu trasferita nel nuovo quartiere popolare. Nel 1954 un decreto dichiarò inagibile il paese e lo stesso convento fu abbandonato. Il paese nuovo nel frattempo era stato completato, e agli inizi degli anni Sessanta la vecchia Celleno fu definitivamente abbandonata. Ma non è stato possibile cancellare il fascino che ancor oggi queste mura trasmettono.

Ferento

Riprendendo la strada provinciale Teverina si arriva all’area archeologica di Ferento, l’antica Ferentium. Un primo insediamento etrusco sul colle tufaceo di Pianicara, ai piedi dei Monti Cimini, risale al IV secolo avanti Cristo; la città si sviluppò invece in età augustea e fu abitata fino alla sua distruzione, nel 1172, per mano dell’eterna rivale Viterbo. Una volta parcheggiato il veicolo nel grande piazzale antistante, esploriamo l’area archeologica in compagnia di Simonetta Pacini, appassionata volontaria e segretaria dell’associazione Archeotuscia, che cura l’apertura e la manutenzione del sito.

I resti della Civitas Splendidissima

Lo sguardo del visitatore è attratto innanzitutto dal teatro, ancora oggi utilizzato per rappresentazioni teatrali: conserva la cavea, la scena e le ventisette arcate (di cui alcune in parte o del tutto ricostruite) che abbracciano la parte posteriore. Alle spalle del teatro si passeggia sulla via lastricata del Decumanus maximus, l’asse principale dell’abitato, e si osservano i resti di un impianto termale in opus latericium, di cui sono ben visibili gli ambienti tipici e i pavimenti a mosaico con disegni geometrici in bianco e nero.

Oltre ai resti dell’anfiteatro romano, non ancora riportati alla luce e situati verso l’estremità orientale di Piancara, lungo le pendici del pianoro sono state rinvenute alcune necropoli riconducibili all’antico abitato fra cui si segnala in particolare la Tomba dei Salvi, appartenuta alla famiglia dell’imperatore Marco Salvio Otone e costituita principalmente da tombe a camera. Il nobile, in carica per soli tre mesi, non fu il solo illustre cittadino di Ferento: qui nacque Flavia Domitilla, moglie di Vespasiano e madre degli imperatori Tito e Domiziano. Durante gli scavi sono stati recuperati frammenti di sarcofagi oggi conservati nel Museo Nazionale Etrusco della Rocca Albornoz a Viterbo, e insieme a numerosi corredi funerari.

Grotte Santo Stefano

Con la distruzione definitiva di Ferento gli abitanti cercarono riparo in alcune grotte etrusche situate nel territorio di Montecalvello. Ebbe così origine l’abitato di Grotte Santo Stefano, anch’essa nel territorio comunale viterbese, che raggiungiamo percorrendo la Strada Provinciale Teverina. La località non ha un vero e proprio nucleo storico ma un saliscendi di stradine su cui si affacciano le case con i portali costruiti con i resti provenienti dalla città romana distrutta, molte delle quali edificate sulle cavità trasformate in cantine, depositi e ricoveri per animali. Prestando attenzione si noterà anche un cippo antico all’angolo di un muro di una casa situata lungo la strada che conduce a Roccalvecce.

Vitorchiano, forte e peperino

Gli appassionati di cinema ricorderanno il profilo del borgo fare da sfondo al film L’armata Brancaleone di Mario Monicelli. Raggiungibile in pochi minuti da Ferento seguendo la Strada Provinciale 23 ecco Vitorchiano, servita da una comoda e panoramica area di sosta a pochi passi dal nucleo storico. L’antica Vicus Orchianus fu una fedelissima alleata di Roma, come dimostrano il simbolo della lupa capitolina sui portali e la scritta S.P.Q.R. che campeggia nello stemma comunale. Stretto tra i Monti Cimini e il torrente Vezza, il borgo medievale racchiuso fra le mura merlate è abbarbicato a un costone di tufo con le case che sembrano innalzare ancora di più le pareti naturali a strapiombo sui due corsi d’acqua che la incorniciano.

In Piazza Roma, dove si affaccia il Palazzo Comunale, cattura l’attenzione una fontana in peperino (definita “a fuso” per la forma del fusto centrale) con una colonna recante i simboli dei quattro evangelisti. Uscendo dal paese, nei pressi dell’area camper, è d’obbligo una sosta al Moai, imponente scultura alta più di sei metri posta in fondo al piazzale da cui si apre una suggestiva veduta sulla vallata sottostante. Il monumento, frutto del gemellaggio tra il Comune e Rapa Nui in Cile, è l’unico esemplare al mondo fuori dalla stessa isola di Pasqua costruito dalla tribù indigena dei Maori. E ci piace pensare che vigili sul borgo e i suoi abitanti e che sia di buon auspicio per il futuro. 

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