Vitorchiano, a spasso nel mistero

Nel borgo della Tuscia viterbese sospeso tra forre e dirupi aleggiano le suggestioni di un passato a lungo nascosto: oggi è fruibile a tutti

Indice dell'itinerario

Un giovane Vittorio Gassman giunge a cavallo sotto alla rupe di peperino su cui poggiano case, torri e campanili del borgo sospeso sulla forra. La scena è tra le prime del film L’armata Brancaleone di Mario Monicelli girato nel 1966 in vari luoghi della Tuscia viterbese. Il profilo di Vitorchiano è ben riconoscibile nella pellicola; il cavaliere arriva da Norcia con i suoi uomini, si aggira nella città deserta tenendo l’animale per la briglia e incita i suoi uomini: «Pigliate ciò che trovate!». Quando una donna lo informa che la peste ha sterminato quasi tutti gli abitanti, il condottiero raduna i soldati e scappa a gambe levate. Impossibile non notare le scale a profferto che corrono lungo la facciate delle case: chissà se il regista scelse i borghi viterbesi come set del film per tale caratteristica architettonica molto usata da queste parti in età medievale.

Forre e peperino

Stretta fra i Monti Cimini e la valle del Vezza, Vitochiano si affaccia da una rupe con le pareti a strapiombo sui due corsi d’acqua che lo cingono per poi unirsi nel Rio Acqua Fredda. Fondata probabilmente dagli Etruschi l’antica Vicus Orchianus fu una fedelissima alleata di Roma, come dimostrano il simbolo della lupa capitolina sui portali e sulle cornici delle finestre e la scritta SPQR sullo stemma comunale. A ogni passo una pennellata di eleganza: fra le mura merlate si svelano palazzi nobiliari, piazzette e chiese. La più notevole è quella dedicata a Santa Maria Assunta in Cielo, che presenta la facciata a capanna in blocchi di tufo, con rosone romanico a fiore e due finestre in alto.

Il campanile si fa notare per la singolare collocazione delle finestre: in basso presenta aperture monofore, ai livelli più elevati ha un ordine di bifore e uno di trifore. Addossato alla sua base vi è il portale secondario di accesso alla chiesa in stile gotico con il timpano riccamente decorato. Al suo interno conserva il battistero e alcuni affreschi ritenuti di origine trecentesca.

Su Piazza Roma si affaccia il Palazzo Comunale addossato alla Torre dell’Orologio: dal balcone in ferro battuto il podestà parlava alla folla radunata nella piazza sottostante. Cattura l’attenzione la fontana in peperino “a fuso” con una colonna decorata da archetti con i simboli dei quattro evangelisti dalle cui bocche sgorga l’acqua: il leone di San Marco, il vitello di San Luca, l’aquila di San Giovanni e l’angelo di San Matteo.

Il Moai di Rapa Nui

Uscendo dal paese, nei pressi dell’area camper, è d’obbligo una sosta al Moai, l’imponente scultura alta più di sei metri che si erge in un piazzale da cui si gode una suggestiva vista sull’abitato. Il monumento, frutto del gemellaggio tra il Comune e l’Isola cilena di Rapa Nui è l’unico esemplare al mondo fuori dall’Isola di Pasqua costruito da undici Maori della famiglia Atan. Della statua colpiscono il copricapo, composto da due blocchi di peperino, le orecchie lunghe e le dita affusolate con i pollici leggermente rivolti verso l’alto aderenti al ventre.

La storia del monolite inizia trent’anni fa, quando si diffuse la notizia che molte di queste statue si stavano deteriorando. Il giornalista Mino D’Amato, allora conduttore della trasmissione televisiva Alla ricerca dell’arca, prese a cuore la causa: per raccogliere i fondi destinati alla conservazione dei monoliti, fece ospitare a Vitorchiano un gruppo di indigeni dell’isola che realizzarono sul posto un Moai utilizzando una pietra simile a quella impiegata per le sculture di Rapa Nui.

L’opera fu sistemata nel Piazzale Umberto I, suscitando da subito grande curiosità e interesse. Nel 2007 la scultura fu prestata per una mostra in Sardegna e, al suo rientro nel 2008, trovò la sua attuale collocazione lungo la Via della Teverina. E ci piace pensare che sia stata messa lì a vigilare sul borgo e i suoi abitanti e sia di buon auspicio per il futuro.

I dintorni di Vitorchiano: una piramide nella foresta

Da Vitorchiano percorrendo la strada provinciale Bomarzese-SP20 con una decina di chilometri si raggiungono Bomarzo e l’agriturismo Le Querce, dove è possibile parcheggiare il camper. Nelle immediate vicinanze della struttura si imbocca un sentiero abbastanza agevole, immerso nella fitta vegetazione, che consente di arrivare in venticinque minuti alla Tagliata delle Rocchette.

Non si può contenere lo stupore quando, improvvisamente, ci si trova al cospetto di una costruzione megalitica che ricorda, per le sue forme, le piramidi delle civiltà mesoamericane. Scolpita in un blocco di peperino precipitato dalla sovrastante rupe, questa realizzazione è di probabile origine etrusca, benché ancora non sia stata chiarita la sua datazione: il mistero che la avvolge è parte integrante del fascino di un luogo in cui la magia della natura si mescola con le suggestioni di civiltà scomparse. Si ritorna al punto di partenza attraversando il versante ovest dove si ammira una casa ipogea.

Un weekend da paura

Correva il 10 novembre del 1938 quando Salvador Dalí visitò il Sacro Bosco di Bomarzo realizzato da Pier Francesco Orsini, detto Vicino, a partire dalla metà del XVI secolo. Il Parco dei Mostri, chiamato così per le grandi statue scolpite nel peperino che ritraggono creature deformi e spaventose, fu di ispirazione all’artista catalano per la sua opera visionaria La tentazione di Sant’Antonio. Il bosco è una bizzarra galleria di personaggi misteriosi che s’incastrano nella vegetazione rigogliosa seguendo le forme di alberi, fossi, avvallamenti e collinette.

Spuntano il Drago in lotta coi veltri, la Tartaruga, l’enorme faccia con la bocca spalancata (il Mascherone), Nettuno che appoggia il dorso nudo a ridosso di un muro ciclopico e figure femminili come Demetra nell’opera La donna opulenta.

Tuttavia per un periodo di tempo il giardino fu dimenticato e non conservato dignitosamente. Anche il regista Michelangelo Antonioni se ne interessò, colpito dalle sue stravaganti attrazioni, e prima di esordire nel cinema di finzione con Cronaca di un amore realizzò nel 1949 un documentario di dieci minuti dal titolo Bomarzo che denunciava lo stato di abbandono del Sacro Bosco.

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