I Vattienti
Nella settimana antecedente la Pasqua, un insieme di attività liturgiche precede le processioni di Nocera Terinese; fra queste la preparazione, nella chiesa dell’Annunziata, di uno speciale sepolcro con la grande statua della Madonna che sorregge il Figlio sullo sfondo del Golgota; tra fiori, lumini e germogli di cereali venuti su al buio.
La sera del Venerdì Santo la statua esce dalla chiesa portata a spalla da uomini della confraternita vestiti di bianco e con una corona in capo. Una lenta processione, seguita dalla banda musicale e dai canti dei fedeli, si snoda così tra due ali di folla, fin quando nel brusio generale appare da lontano una piccola croce sobbalzante; lo scalpiccio di piedi nudi sull’asfalto annuncia l’arrivo del primo vattiente. Questi procede di corsa, si ferma, si segna, si percuote a sangue cosce e polpacci con il cardo, si segna ancora inginocchiandosi e, seguito dall’acciomu (l’Ecce homo, simbolica figura del Cristo), riparte di corsa. Avviene tutto così rapidamente che non sembra avvenuto. Solo le tracce di sangue, il cui acre odore si mescola a quello del vino, riconducono alla realtà.
Le sporadiche apparizioni del venerdì diventano più frequenti il giorno seguente, quando si producono circa settanta vattienti. Il sabato mattina la solenne processione religiosa percorre l’abitato e si concluderà, dopo molte ore, presso i ruderi del convento dei Cappuccini, nella parte alta del paese. Di tanto in tanto la statua della Madonna è fatta fermare di fronte alle edicole sacre, alle chiese e, in segno di protezione e conforto, dinanzi alle abitazioni di ammalati e anziani.
Ma chi sono i vattienti? Sono uomini di ogni età e di diversa estrazione sociale che decidono di “battersi” per un voto fatto alla Madonna per una grazia ricevuta o richiesta, per continuare un’antica tradizione di famiglia, per spirito di emulazione’ Per ognuno di loro il rito ha inizio in un locale della propria abitazione, ove possono accedere solo pochi intimi di sesso maschile.
Nel silenzio degli astanti il vattiente indossa una maglietta di colore nero, neri pantaloncini tagliati molto corti, al fine di lasciare quanto più scoperte le gambe, e un panno nero che avvolge intorno al capo. Nel frattempo si prepara l’altra figura, che nella ritualizzazione lo segue costantemente: l’acciomu, il già ricordato Ecce homo.
Solitamente è un ragazzo, figlio o fratello del penitente stesso, che indossa una lunga tunica rossa, lascia scoperto il petto, cinge il capo con una corona di spine (la “spina santa”) e porta una croce adorna di nastri rossi.
Intanto il vattiente entra nella parte. Prima si segna, poi immerge le mani in una tinozza contenente un caldo infuso di rosmarino, quindi inizia a percuotere le cosce al fine di far affluire il sangue in superficie, aiutandosi con la rosa: un disco di sughero, di circa dieci centimetri di diametro che battuto sulla carne favorisce una migliore circolazione. Successivamente si batte con il cardo, un disco simile al precedente per forma e dimensioni, in cui sono infisse tredici schegge di vetro, le lenze, che procurano le prime fuoriuscite di sangue.
Ora può uscire di casa: cinge il capo con una corona di spine, si lega con una cordicella all’acciomu e inizia, di corsa, la ricerca della processione. Al seguito vi è solitamente una terza persona, un amico del penitente, che segue da presso la coppia con un recipiente ricolmo di vino: servirà per pulire le ferite, disinfettarle e, contemporaneamente, tenerle aperte onde evitarne il coagulo.
Come primo atto della drammatizzazione del rito, il vattiente impone l’impronta della rosa insanguinata, sulla sua abitazione e sul petto scoperto dell’acciomu. Ma tutto il suo tragitto è costellato da impronte lasciate sui muri di parenti e amici, mentre tracce più evidenti restano sui sagrati delle chiese e lungo le strade. Il peregrinare terminerà quando si sarà “battuto”, per l’ultima volta, davanti alla statua della Madonna.L’Affruntata
Il percorso iniziato a Nocera Terinese tra i vattienti potrebbe trovare degna conclusione la Domenica di Pasqua a Vibo Valentia, dove i tradizionali riti iniziati il Giovedì Santo, culminano con l’Affruntata, l’incontro tra Gesù risorto e la Madonna.
Per la sosta in camper è disponibile un ampio parcheggio nei pressi del mercato coperto e a cento metri dal Corso Vittorio Emanuele dove ha luogo la manifestazione.
A mezzogiorno, dopo la celebrazione della Messa, dalla chiesa del SS. Rosario escono tre statue. Le prime due, Gesù risorto e S. Giovanni, procedono di corsa a poca distanza una dall’altra per posizionarsi in fondo al percorso. Subito dopo fa la sua comparsa la statua della Madonna che veste un lungo mantello nero. Portata anch’essa a spalla dai confratelli ma in lenta processione, si dirige verso il corso centrale e ad ogni incrocio viene rivolta nelle quattro direzioni alla costante ricerca del Figlio.
Giunta in prossimità del corso, è tenuta nascosta, quasi in trepida attesa; i portatori, nel frattempo, serrano intorno ai fianchi i bianchi lembi del camice che indossano per non essere ostacolati durante la corsa che di lì a poco li attende.
Intanto S. Giovanni, tra due ali di folla, fa la spola due volte per annunciare alla Madonna che il Figlio è vivo; alla terza, Ella perde ogni indugio e si lancia verso il Figlio risorto. Nell’impeto perde il manto nero e svela un abito riccamente decorato.
Gli applausi e un’evidente commozione sui volti della gente sciolgono allora l’ansia vissuta per il buon esito della corsa, con la statua in delicato equilibrio, e per il completo distacco del mantello. Cattivi presagi trarrebbe infatti la comunità da ogni possibile incidente di percorso. Mentre, alla felice conclusione dell’Affruntata, seguono abbracci e scambi di auguri tra i confratelli che, alla fine, riescono a coinvolgere anche il pubblico.
Le Vallje
Le comunità albanesi si insediarono sul territorio italiano in varie ondate ad iniziare dal 1200. Ripresero nel 1468 quando, dopo la morte dell’eroe Giorgio Castriota Skanderbeg, che per oltre vent’anni era riuscito ad ostacolare la minaccia dell’Islam, l’Albania divenne provincia turca. L’esodo vide quasi trecentomila albanesi in cerca di una patria nella quale vivere in libertà conservando la propria religione e le proprie abitudini sociali. Varcarono l’Adriatico e la maggior parte di loro trovò possibilità di un rifugio in Calabria dove contribuì, col proprio lavoro, a risollevare la disastrata economia agricola della regione.
Ed è per ricordare una vittoria del condottiero Skanderbeg che, ogni anno, il martedì di Pasqua, i centri albanesi s’infiammano di balli e canti in costume, le Vallje.
Piccoli gruppi di donne e uomini, tenendosi per mano, formano un semicerchio, dando inizio alle danze accompagnate dai loro canti. Ad un tratto, con movimento fulmineo, il semicerchio si chiude intorno ad un ignaro spettatore. Per ottenere la libertà il “prigioniero” dovrà pagare un simbolico riscatto costituito da consumazioni al bar. La danza mima gli stratagemmi usati da Skanderbeg contro i turchi, improntati evidentemente a fulminei attacchi e veloci ritirate. Originariamente i festeggiamenti interessavano tutto il periodo di Pasqua, ma in seguito ad una visita pastorale del vescovo di Venosa furono proibiti perché giudicati irriverenti. La Vallje continua però a rappresentare un’occasione d’incontro fra le comunità arbresh che si danno convegno a Civita e nella vicinissima Frascineto.
I costumi tradizionali delle donne rappresentano un importante elemento nella scenografia generale: data la loro preziosità, spesso sono tramandati di madre in figlia come una parte del patrimonio familiare. Una bianca camicia, la linja, con ampia scollatura arricchita da sbuffi di tulle; una gonna in raso, nelle varie sfumature del rosso, la kamizolla, scende fino alle caviglie in lunghe e fitte pieghe ed è adornata di ricchi ricami in oro; la sopravveste, coha, di colore blu fermata ai fianchi; ed ancora giubbetti ricamati anch’essi in oro, fazzoletti e, soprattutto, collane e gioielli.
Come in tutte le civiltà, dalla ricchezza di questi abiti si desume l’agiatezza della famiglia, così come un diadema sul capo, in filigrana d’oro e d’argento, il kèza, è per gli albanesi segno distintivo delle donne sposate. In confronto, l’abito tradizionale dell’uomo appare molto semplice; solo un gonnellino pieghettato, a volte, diventa caratterizzante.
Ma per approfondire la conoscenza delle usanze locali Civita offre anche la possibilità di visitare il Museo Etnico, presso il circolo culturale “G. Placco”. Grazie alla passione e all’impegno di alcuni civitesi (fra i quali il sempre disponibile Emanuele Pisarra), in due ampie sale sono state raccolte importanti testimonianze della cultura arbresh: icone, mobili, attrezzi da lavoro, foto d’epoca e abiti tradizionali. A questa esposizione permanente fanno da cornice, nei giorni di Pasqua, alcune sale esterne al museo dove sono ricostruiti ambienti tipici della vita quotidiana come, ad esempio, camere da letto con i ricchi e preziosi corredi di stoffe in lino finemente ricamate.
PleinAir 308 – marzo 1998