Sahara, dune di scoperta

A meno di un secolo dalle spedizioni di Kamal El Din e László Almásy prendiamo parte al viaggio di una carovana dalle dimensioni straordinarie per condurvi nel deserto occidentale egiziano, al confine con Libia e Sudan, sulle tracce dei primi grandi esploratori di queste terre dalle condizioni estreme

Indice dell'itinerario

Fu il principe Kamal El Din, figlio del sultano Hussain, ad esplorare per primo il Gilf Kebir, la Grande Barriera. Correva l’anno 1923 quando i mezzi semicingolati Kegresse P19B, che commissionò alla Citroën, esplorarono il deserto occidentale egiziano sulla scia della straordinaria spedizione scientifica transahariana che la casa automobilistica francese aveva organizzato un anno prima in occasione della scoperta della tomba di Tutankhamon da parte dell’archeologo ed egittologo britannico Howard Carter. L’impulso verso l’avventura superò in Kamal persino l’ambizione di salire al trono, al quale rinunciò senza rimpianti per fare l’esploratore. Si mise in viaggio con una carovana di cinquecento cammelli che trasportavano vettovaglie e soprattutto carburante: i cingolati ne consumavano ben un litro a chilometro.

Fuoristrada in sosta alla fine di una giornata di viaggio

Poi fu la volta del conte ungherese László Almásy, la cui esperienza ispirò il romanzo e il film Il paziente inglese: nel 1929, sulle tracce del principe Kamal, organizzò una spedizione su automobili Steyr, e dal 1932 viaggiò più volte nel deserto alla ricerca dell’oasi di Zerzura, la cui esistenza è rimasta nella leggenda.

Grazie alle spedizioni effettuate con alcuni esploratori inglesi, fra cui Robert e Patrick Clayton, scienziati, fotografi e cartografi, fu possibile la realizzazione della prima mappatura dettagliata dei siti di arte rupestre preistorica di Uweinat e Gilf Kebir e la scoperta della più alta montagna del Sahara orientale, Jebel Uweinat. Fu inoltre lo stesso Almásy a deporre nel 1933 sulla punta meridionale dell’altopiano del Gilf Kebir una lapide commemorativa della morte del principe Kamal, avvenuta un anno prima.

L’opera di recupero di un veicolo insabbiato
L’opera di recupero di un veicolo insabbiato

Nel 1934 il celebre esploratore ungherese effettuò l’ultima spedizione in quel deserto: gli sponsor furono il Royal Automobile Club d’Egypte e il quotidiano Al-Ahram; dal 16 al 24 marzo 2014, a 82 anni dalla morte del principe, l’Egyptian Automobile & Touring Club del Cairo ha messo a punto la Kamal Expedition, unica nel suo genere in quanto una missione così impegnativa non era mai stata realizzata prima. Patrocinato dal governo egiziano e concepito come l’esperimento di un programma continuativo per promuovere l’ecoturismo e la conservazione di questa regione desertica, l’evento è stato considerato una delle sfide più significative affrontate ultimamente in Egitto. Ci sono voluti più di tre anni per la pianificazione, l’organizzazione, le richieste di autorizzazioni e permessi.

Le colline tra Gilf Kebir e Jebel Uweinat
Le colline tra Gilf Kebir e Jebel Uweinat

Partenza dal Cairo e volo per l’oasi di Kharga, punto strategico per il passaggio delle carovane di cammelli: inizia qui un’avventura di tredici giorni, lontani da centri abitati e strade asfaltate. Il programma consiste nell’attraversamento diagonale del deserto sino al confine con il Sudan e la Libia, un percorso di circa 2.800 chilometri in fuoristrada. Una carovana formata da trentacinque Toyota 4×4, per il trasporto dei partecipanti e la logistica; quattro fuoristrada costituiscono la scorta armata, con rappresentanti della cosiddetta polizia del deserto e un militare.

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Centoquattro persone, il gruppo più numeroso sinora condotto in queste zone dell’Egitto, comprendenti nove scienziati tra archeologi, egittologi, geologi e botanici, ventidue giornalisti (provenienti da dodici paesi tra cui addirittura il Giappone), il personale della logistica, della cucina, quattro meccanici e un medico. E naturalmente il capo della spedizione Tarek el-Mahdy, fondatore della Dabuka Expeditions, con più di trent’anni di esperienza nelle spedizioni.

Tarek el Mahdy, capospedizione e fondatore della Dabuka Expeditions
Tarek el Mahdy, capospedizione e fondatore della Dabuka Expeditions

L’eccezionale carovana trasporta un carico di oltre 7.000 litri d’acqua, calcolando un consumo medio a persona di sette litri al giorno, di cui tre per dissetarsi e il resto per la cucina, oltre a una riserva per emergenza. In aggiunta, 18.000 litri di carburante e una copiosa scorta di alimenti in scatola e freschi tra cui 120 chilogrammi di riso, 150 di farina e 175 di pomodori, 360 barattoli di fagioli e due agnelli vivi; colazione abbondante, pasto freddo a pranzo e caldo a cena. Ovviamente è prevista una tenda per ciascuno, da montare ogni sera in un posto diverso. La spedizione si avvia lungo i percorsi utilizzati dalle forze speciali britanniche durante la Seconda Guerra Mondiale. La zona G-Eight Bells Hills, con il campo d’aviazione 8Bells, è un’immensa distesa di sabbia dove sono rimaste le piste tracciate dai militari per l’orientamento degli aerei: frecce contrassegnate da taniche di carburante piene di sabbia che a distanza di settant’anni sono ancora intatte nello stesso luogo in cui furono collocate, come reliquie nel deserto.

Il relitto di un’auto utilizzata durante la seconda Guerra Mondiale sulle G-Eight Hills
Il relitto di un’auto utilizzata durante la seconda Guerra Mondiale sulle G-Eight Hills

Da qui comincia a cambiare il panorama: grandi colline e le prime dune dicono che ci si sta avvicinando all’altopiano di Gilf Kebir, un massiccio montuoso di arenaria lungo 100 chilometri sulla cui sommità, a 1.000 metri d’altitudine, si erge un deserto nel deserto. Lungo il fianco una falesia precipita per 300 metri; qui, la grotta Mogharet el Kantara, con pitture rupestri di scene agricole, testimoniano la presenza umana di oltre 7.000 anni fa, quando – incredibile a dirsi – il Sahara era una savana rigogliosa con corsi d’acqua, coltivazioni, uomini e animali.

Raffigurazioni nella Grotta Magharet el Kantara e nel Wadi Sura presso la Grotta dei Nuotatori e quella delle Giraffe
Raffigurazioni nella Grotta Magharet el Kantara e nel Wadi Sura presso la Grotta dei Nuotatori e quella delle Giraffe

È la zona della Caverna dei Nuotatori, del Wadi Sura, scoperta da Almásy e resa celebre dal romanzo e dal film Il paziente inglese, con figure umane nell’atto di nuotare che suggeriscono l’esistenza di antichi fiumi e laghi. Ma per godere di una vera rarità nell’arte preistorica del Sahara bisogna raggiungere Wadi Sura II e la grotta Mestikawi-Foggini, conosciuta come la Grotta delle Bestie. Questa cavità rocciosa, raggiungibile inerpicandosi su una duna, lascia attoniti per la bellezza dei cinquemila dipinti che hanno portato a chiamarla la Cappella Sistina del Sahara e a confrontarla per importanza alla Cueva de Altamira in Spagna. Induce a molte interpretazioni la simbologia dei numerosi animali senza testa – bovidi, giraffe, struzzi e gazzelle – e delle infinite impronte in negativo delle mani. Questi dipinti, risalenti a 8.000 anni fa, si sono conservati in ottimo stato perché la caverna è rimasta coperta dalla sabbia fino al 2002, quando è stata rinvenuta per caso. Alcune spelonche del deserto, preservate per millenni dalla sabbia, sono state scoperte solo nel 2007 e nel 2008, e ciò ha reso ancora più singolare la Kamal Expedition.

Raffigurazioni nella Grotta Magharet el Kantara e nel Wadi Sura presso la Grotta dei Nuotatori e quella delle Giraffe
Raffigurazioni nella Grotta Magharet el Kantara e nel Wadi Sura presso la Grotta dei Nuotatori e quella delle Giraffe

Altro punto cardine della spedizione è Jebel Uweinat, un altopiano condiviso con Libia e Sudan, molto interessante dal punto di vista geomorfologico; un ottimo esempio degli insediamenti che popolavano questa zona, rivelati dalle magnifiche incisioni rupestri raffiguranti giraffe, struzzi, bovidi e antilopi, a conferma che 10.000 anni fa queste zone erano abitate grazie alla presenza di con risorse vitali come acqua, vegetazione e prede da cacciare. Oggi sono rimasti alcuni esemplari di Acacia Tortilis, che si è adattata alle dure condizioni climatiche del deserto con radici che possono raggiungere i 70 metri di profondità, cercando le più piccole tracce di acqua.

Verso Il Gilf Kebir. L’impressionante effetto della corrosione della roccia da parte del vento e delle tempeste di sabbia
Verso Il Gilf Kebir. L’impressionante effetto della corrosione della roccia da parte del vento e delle tempeste di sabbia

Tutto diverso quando ci s’inoltra nel Ghurd Abu Muharrik, il deserto primordiale da immaginario collettivo, chiamato non a caso il Grande Mare di Sabbia: 72.000 chilometri quadrati di dune su cui la natura si esibisce tra profili perfetti, linee essenziali e ghirigori, uno spettacolo che è quasi sacrilego interrompere con i fuoristrada, anche se basterà una folata di vento a restituirlo alla purezza. Persino quando – e capita più spesso di quanto non si pensi – un veicolo s’insabbia creando solchi profondi.

Parliamo di dune che possono raggiungere una lunghezza di decine di chilometri e un’altezza di 100 metri. Vivere il deserto dà un piacere interiore che va al di là di ogni aspettativa: nel suo pienissimo nulla, costringe a misurare la modestia dell’uomo con la maestosità della natura. È questa la sua magia. Ma è anche una sfida continua contro l’incognito, un sussulto di paura quando saliamo in accelerata sul fianco della duna per non arenarci e arrivati in cima, in bilico con le ruote sospese, non c’è tempo per capire cosa ci sia al di là. Un salto e di nuovo l’impatto con la sabbia per la discesa, a volte quasi perpendicolare.

Vertiginose discese in fuoristrada nel Sahara egiziano
Vertiginose discese in fuoristrada nel Sahara egiziano

Dura meno di un respiro, quel momento. Il deserto può essere anche un nemico, una trappola, un labirinto senza uscita; non lo si può affrontare in un viaggio solitario ed è indispensabile affidarsi ai tuareg che hanno le doti – intuito, esperienza, sicurezza, orientamento – che nessun navigatore satellitare può garantire. A dispetto della volubilità del deserto: basta infatti una tempesta di sabbia a ridisegnare tutto. Le dune si scompongono e si ricostruiscono altrove con nuove impeccabili volute.

Ma la sorpresa più strabiliante arriva ai margini della depressione dell’oasi di Farafra, quando ci si addentra nell’Agabat, il mitico Deserto Bianco. Nel corso dei millenni il vento e la sabbia hanno dato le forme più stravaganti a innumerevoli concrezioni calcaree, conficcate nella sabbia del Sahara in un magnifico contrasto di colori che offre agli occhi uno spettacolo sempre nuovo, virando dal giallo e dal rosa dell’alba al candore abbacinante del giorno, per poi chiudersi nell’effetto emozionante del tramonto, quando tutto si accende di un rosso intenso finché il sole cede il posto alla luna. Dormire sotto la tenda nel Deserto Bianco è un privilegio unico che abbiamo goduto sino in fondo, assaporandone tutto l’incanto. 

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