Dott.sa Debora Rasio

Medico, specialista in oncologia medica, ricercatrice presso la Sapienza Università di Roma, nutrizionista Rai, Mediaset e La7, autrice dei bestsellers “Death by Medicine” -Axios Press; “La dieta non dieta” -Mondadori- e il recente “La dieta per la vita” -Longanesi, vanta una notevole attività di ricerca anche all’estero – fra le collaborazioni quella con il Kimmel Cancer Center della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Proprio l’attività come oncologa e i suoi studi nel campo della biologia molecolare l’hanno portata a interessarsi di alimentazione come strumento per tutelare la salute

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C’è confusione sull’olio di palma: fa bene o male alla salute? E’ una minaccia per l’ambiente o dà sostentamento all’economia dei paesi emergenti del Sud-Est asiatico che lo producono? Ne parliamo con la dr.ssa Debora Rasio, dirigente medico presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma che cura per noi la rubrica dedicata all’alimentazione secondo natura.

L’olio di palma è ottenuto dalla spremitura del frutto della palma da olio (principalmente Elaeis guineensis ma anche Elaeis oleifera e Attalea maripa). I frutti sono grandi come una grossa prugna e si sviluppano in caschi che pesano fino a 20 chili. Dopo la raccolta vengono sterilizzati con vapore, spremuti e centrifugati, ottenendo un olio di colore rossastro per l’elevato contenuto in carotenoidi antiossidanti. Questo olio grezzo, chiamato vergine, è utilizzato prevalentemente nei paesi in cui viene prodotto (Africa tropicale, Malesia, Indonesia e Brasile), mentre quello esportato viene sottoposto a raffinazione (decolorazione, deacidificazione e deodorazione) con sostanze chimiche con conseguente perdita della maggior parte degli antiossidanti.

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E’ importante sottolineare che la raffinazione con sostanze chimiche è comune a tutti gli oli di semi impiegati dall’industria (olio di girasole, mais, soia, colza ecc), ed è un procedimento che comporta l’ossidazione degli acidi grassi, ovvero il loro irrancidimento.

L’olio di palma è presente non solo nei prodotti alimentari ma anche in quelli per la cura del corpo e della casa quali saponi, creme, shampoo, dentifrici e detersivi. Si stima che circa il 50% dei prodotti di un qualunque supermercato contenga olio di palma in forma più o meno riconoscibile. Ogni anno si producono 50 milioni di tonnellate di olio di palma, più del 30% della produzione di olio vegetale a livello mondiale.

Questo boom di popolarità e dovuto a diverse caratteristiche chiave dell’olio di palma: una resa molto elevata, circa 5-7 volte maggiore per ettaro di superficie coltivata rispetto ad altri oli vegetali, dunque un basso costo, una naturale resistenza all’ossidazione dovuta all’elevata presenza di grassi saturi, l’assenza di gusto e una consistenza vellutata spesso apprezzata dal palato del consumatore.

Nell’olio di palma gli acidi grassi saturi rappresentano circa il 50% dei grassi totali, seguiti da quelli monoinsaturi (39%) e polinsaturi (10%). L’olio di palma non va confuso con quello di palmisto, ottenuto dal seme del frutto della palma, che ha un contenuto di acidi grassi saturi pari a quasi il 90% del totale.

L’abbondanza di acidi grassi saturi fa assomigliare l’olio di palma più a un grasso animale come il burro o il lardo che a un olio vegetale, e, infatti, a temperatura ambiente non è liquido ma solido o semi-solido, quindi particolarmente adatto a preparazioni come le creme, la maionese e i gelati.

I grassi saturi, inoltre, sono particolarmente resistenti all’ossidazione, pertanto l’olio di palma ha un punto di fumo più elevato rispetto agli oli di semi e quindi è meno danneggiato (ossidato) dalle cotture ad alte temperature.

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Negli ultimi anni l’industria ha sostituito gli oli vegetali parzialmente idrogenati (ricchi in acidi grassi trans) con l’olio di palma, che è praticamente privo di acidi grassi trans, e questo rappresenta un miglioramento della qualità del prodotto finale. I grassi trans, infatti, sono i più pericolosi per la salute: aumentano i livelli di colesterolo cattivo e trigliceridi, riducono il colesterolo buono, favoriscono l’adesività delle piastrine e quindi la tendenza a formare trombi, provocano infiammazione e peggiorano lo stress ossidativo. L’olio di palma, invece, ha sia effetti negativi che positivi sugli indicatori del rischio cardiovascolare, aumentando i livelli non solo del colesterolo cattivo, ma anche di quello buono, e riducendo i trigliceridi nel sangue.

Nell’insieme l’olio di palma, dunque, è meglio degli oli vegetali idrogenati, pur rimanendo un olio ossidato che fa parte di alimenti -biscotti, merendine, creme al cioccolato, cracker e fette biscottate- che di per sé non andrebbero consumati, se non eccezionalmente, non tanto o comunque non solo per la presenza di grassi saturi derivati dall’olio di palma, ma perché ricchi in altre sostanze dannose quali zucchero o sale, farine raffinate, additivi, conservanti e, non ultima per impatto negativo sulla salute, acrilammide, una sostanza cancerogena che si forma dalla cottura delle farine ad alte temperature e che in questi prodotti è presente in concentrazioni fino a 4-5 ordini di grandezza superiori a quelle massime permesse nelle acque potabili.

Ma il vero problema dell’olio di palma non è certo quello dei grassi saturi.

L’Indonesia e la Malesia producono l’85% dell’olio di palma utilizzato nel mondo servendosi di pratiche insostenibili dal punto di vista ambientale.

Le monocolture industriali di palma, infatti, sono sviluppate a scapito delle foreste tropicali che vengono abbattute a un ritmo impressionante, con ripercussioni globali temibili: cambiamenti climatici, inquinamento atmosferico causato dagli incendi utilizzati per la deforestazione, perdita dell’’habitat naturale di numerose specie animali che oggi sono a rischio di estinzione, evacuazione di comunità indigene, violazioni dei diritti dei lavoratori e lavoro minorile.

Secondo il World Wildlife Fund ogni ora un’area di foresta pluviale delle dimensioni equivalenti a 300 campi di calcio scompare per far posto alle piantagioni di palma da olio. Tra il 1967 e il 2000 in Indonesia la superficie coltivata a palma è passata dai 2.000 chilometri quadrati a più di 30.000 chilometri quadrati.  Secondo una recente ricerca pubblicata su Nature, dal 2000 al 2012 l’Indonesia ha perso più di 60 mila chilometri quadrati di foresta soprattutto a causa del disboscamento.

La deforestazione, supportata da una domanda di olio di palma destinata a raddoppiare entro il 2030, non accenna a rallentare, al punto che il Programma Ambientale delle Nazioni Unite stima che entro il 2022 la maggior parte delle foreste pluviali indonesiane potrebbero essere distrutte.

La perdita su ampia scala dell’habitat naturale sta spingendo molte specie all’estinzione: l’orangutan potrebbe estinguersi nei prossimi 5-10 anni (solo negli ultimi due decenni ne sono stati uccisi circa 50.000), le tigri di Sumatra in meno di 3 anni.

Gli incendi con cui vengono distrutte le foreste non solo sottraggono “polmone verde” ma rilasciano nell’aria enormi quantità di biossido di carbonio. In terreni coperti di torba il problema è ancora più grave, poiché quando vengono ripuliti e drenati per la coltivazione di palme, rilasciano un’enorme quantità dei loro depositi di carbonio nell’ambiente. Gli effetti dell’inquinamento si riflettono a livello globale, tanto che oggi l’Indonesia è classificata fra i Paesi del mondo maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra.

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Se da un lato è vero che l’olio di palma ha contribuito alla crescita economica dei paesi che lo producono, è anche vero che a beneficiarne sono stati le grandi aziende produttrici, a scapito delle popolazioni indigene locali che troppo spesso si sono viste illegalmente sottrarre la proprietà della terra e quindi i propri mezzi di sussistenza.

In risposta alla necessità di tutelare l’ambiente e i diritti delle comunità locali nel 2004 si è costituita la Tavola Rotonda per l’Olio di Palma Sostenibile (RSPO o Roundtable on Sustainable Palm Oil) un’associazione formata da sette settori coinvolti nella filiera dell’olio di palma: produttori, trasformatori o esportatori, produttori di beni di consumo, aziende distributrici, banche e investitori, ONG (Organizzazioni Non governative) ambientali quali il WWF e ONG attive nel settore sociale e dello sviluppo.

La RSPO dovrebbe promuovere la crescita e l’uso di olio di palma attenuto con mezzi più sostenibili, ovvero rispettosi dell’ambiente, tuttavia è stata fortemente criticata per non avere preso una posizione decisa contro la deforestazione. La certificazione RSPO oggi indica alcune migliorie: riduzione delle emissioni di gas serra, migliore trattamento dei rifiuti, minor uso di pesticidi, maggior rispetto delle normative in vigore nei paesi di produzione, riduzione degli incidenti sul lavoro e aumento della produttività.

Attualmente l’olio di palma sostenibile certificato RSPO comprende il 18% della produzione globale di olio di palma, ciò significa che la stragrande maggioranza dell’olio di palma prodotto non tiene in alcun conto la salvaguardia dell’ambiente e delle persone che lo abitano.

La questione olio di palma è certamente complessa, perché vede affacciarsi gli interessi di diverse realtà economiche (quelle dell’industria alimentare, chimica ed energetica) che hanno sempre messo il profitto davanti  al benessere della terra, oltre che delle persone e degli animali che la abitano. La spregiudicatezza con cui il commercio dell’olio di palma è iniziato sta cominciando a ridimensionarsi, anche se purtroppo ancora troppo lentamente, grazie al lavoro di ONG, giornalisti, blogger che continuano a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto sta accadendo dall’altra parte del mondo forzando così le grandi industrie a occuparsi del problema. Nel frattempo potremmo scegliere di non mangiare olio di palma. E’ incredibile come sembra non si possa vivere senza consumare prodotti quali biscotti, merendine, cracker, grissini e fette biscottate, che di buono, invero, hanno davvero poco.

Dottoressa Debora Rasio
Nutrizionista presso l’ospedale Sant’Andrea
Università di Roma La Sapienza

Laureata in medicina e chirurgia e specialista in oncologia, Debora Rasio vanta una notevole attività di ricerca anche all’estero – fra le collaborazioni quella con il Kimmel Cancer Center della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Proprio l’attività come oncologa e i suoi studi nel campo della biologia molecolare l’hanno portata a interessarsi di alimentazione come strumento per tutelare la salute. La Dott.ssa Rasio vanta inoltre collaborazioni con le trasmissioni televisive Uno mattina (RaiUno) e Cose dell’altro Geo (RaiTre), oltre a curare la rubrica settimanale Salute & Benessere su Radio Monte Carlo.