Zaino e carretera

Cinque settimane e più di 4500 chilometri percorsi via terra nei paesi del Centroamerica, da Città del Guatemala a Panama. Un viaggio autogestito, inventato giorno per giorno, che ha ancora il sapore di antiche spedizioni: fra oceani e vulcani, tradizione e modernità, archeologia e tecnologia.

Indice dell'itinerario

L’idea classica del Centroamerica suggerisce un’area calda e umida: fa quindi un certo effetto atterrare ai 1.500 metri di quota di Città del Guatemala con una frizzantina aria primaverile. Tornano in mente le parole della guatemalteca Rigoberta Menchú, premio Nobel per la pace nel 1992: “Quando andai la prima volta alla città, la vidi come un mostro, come un altro diverso essere”. Meglio partire subito per Antigua, capitale del regno di Guatemala al tempo della colonia. Terremoto dopo terremoto, eruzione dopo eruzione l’antica città coloniale si è sbriciolata, ma in parte restaurata è ora un gioiello di palazzi e giardini, conventi e chiese tutelato dall’Unesco, con le sue rovine che si innalzano cinte d’assedio dai tre vulcani Agua, Fuego e Acatenango.
Ma un viaggio in Centroamerica, come un disco che si può sentire solo se gira, richiede movimento e allora eccomi in partenza verso le montagne, sede storica della guerriglia guatemalteca e terra natale di Rigoberta Menchú. Man mano che si sale l’aria si fa più cristallina, con foreste di pini ai lati della stretta e tortuosa strada e campi di mais arroccati quasi in verticale su pendenze mozzafiato: non è esattamente questa l’immagine classica dei Tropici. In ogni villaggio si viene investiti da una quantità di colori: quelli del cielo blu cobalto, quelli degli abiti che sembrano tessuti con fili rubati all’arcobaleno, quelli della terra e della lava che hanno il colore della pelle dei suoi abitanti.
Nei giorni di mercato i villaggi più importanti dell’altopiano richiamano gente da tutti i borghi limitrofi, come a Sololá che dall’alto dei suoi 2.110 metri domina il prezioso lago Atitlán, gemma d’acqua gelida incastonata fra tre vulcani. La visita di un mercato indio è un’esperienza fisica intensa: per la marea di colori, odori e suoni; per l’assoluta indifferenza dei nativi, troppo impegnati nelle contrattazioni per occorgersi di un tipo goffamente abbigliato che si aggira fra carni, granaglie, frutta, stoffe, pellami e fiori; per l’attenzione continua dei sensi verso eventuali malintenzionati. Dopo una giornata si va via cotti dal sole delle montagne e con un bagaglio di sensazioni che impiegherà giorni a sedimentare.
Cinquecento metri più in basso, il lago di Atitlán con la sua collana di villaggi: Panajachel, che i locali chiamano Gringotenango per la moltitudine di hippie che dagli anni Settanta l’hanno eletto a dimora permanente; e poi San Pedro la Laguna, Santiago Atitlán, Santa Catalina Palopo: solo alcuni dei coloratissimi borghi dalle strette vie acciottolate invase da cani, polli, capre e bambini, intorno alla bianca chiesa simile a una missione. Con i numerosi e fatiscenti battelli che solcano il lago si possono visitare in una giornata, sotto il caldo sole delle montagne; ma durante la notte si dormirà con la coperta.Il mercato di Chichicastenango del giovedì e della domenica è sicuramente il più famoso, il più colorato, ma anche il più turistico della zona. Qui come negli altri villaggi, gli antichi riti maya si intrecciano con la religione cattolica in un fascinoso sincretismo tollerato dalla chiesa ufficiale. Sin dalla sera prima il mercato inizia a crescere nella grande piazza che circonda la chiesa di Santo Tomás, la cui scalinata è utilizzata dai nativi per le loro cerimonie come le ripide rampe degli antichi templi maya. Al tramonto iniziano i riti, si alzano le preghiere mentre il fumo del copal (una specie di incenso) porta il messaggio agli dei. Per tutta la funzione domenicale gli uomini fanno bruciare sulla scalinata erbe aromatiche, spingendo il fumo all’interno mentre intonano le loro litanie; nella chiesa, sul pavimento, una miriade di candele che tagliano il fumo e gruppi di indios che in ginocchio sussurrano magiche parole in onore dei loro avi. In questo villaggio nel 1700 frate Francisco Ximenez scoprì il Popol-Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché.
Continuando a viaggiare verso nord sugli altipiani, si sale sino a 2.900 metri di quota entrando nel regno della guerriglia guatemalteca: autoblindo e carri armati dell’esercito regolare nonché i frequenti controlli testimoniano di una situazione non del tutto tranquilla. Al passaggio nel Chiapas messicano, nido dei guerriglieri di Marcos, i controlli si fanno ancora più pressanti ma rispetto al Guatemala l’impressione è di essere tornati alla civiltà.
Situata a 2.100 metri di quota, San Cristóbal de las Casas è una vera perla dell’architettura coloniale in una splendida valle circondata da montagne di pini e disseminata dei misteriosi villaggi indiani, fieri e gelosi della loro identità: fotografare può essere pericoloso. L’aria è piacevolmente fresca ma poche ore di autobus mi portano nella torrida Selva Lacandona. Lo stato Maya
Fra il 200 e il 700 d.C. in un’area compresa fra gli attuali Messico, Guatemala, Belize, El Salvador e Honduras, raggiungeva il suo acme e improvvisamente scompariva la civiltà dei Maya; a differenza degli Inca, 4.000 chilometri più a sud, all’arrivo degli spagnoli le antiche città saranno già dominio delle giungla, ricordate sono nelle leggende.
In poco più di tre ore una strada tortuosa scende dai 2.100 metri di San Cristobal nel cuore della Selva Lacandona con una differenza di temperatura e di umidità micidiale. Circondata dalla giungla smeraldina e buia sorge Palenque nell’omonimo parco nazionale. La visita delle rovine maya dalle alte piramidi a gradoni che svettano verso il cielo è fra le esperienze di una vita: costruite da una civiltà che padroneggiava l’astronomia e l’aritmetica ma senza attrezzi metallici, senza animali da soma e senza conoscere l’arco in muratura. Solo 34 dei circa 500 edifici sono stati sottratti alla giungla e bisogna immaginarseli come erano: dipinti di rosso vermiglio.
Con un avventuroso itinerario nella foresta è possibile raggiungere subito Tikal in Guatemala ma è più affascinante transitare qualche giorno in Belize, piccola enclave anglofona in un mondo latino. Della recente dominazione di Sua Maestà britannica sono rimaste poche cassette della posta divelte e un fatiscente cimitero anglicano. Belize City ha un aspetto fragile, come le sue case di legno costruite fra i canali e l’Oceano Atlantico con i giardini colonizzati dai granchi in luogo dei gatti. Numerosi uragani l’hanno ripetutamente rasa al suolo consigliando il trasferimento della capitale a Belmopan, 80 chilometri all’interno. La più grande barriera corallina dell’emisfero boreale si stende proprio davanti alla città e le vicine Caye (isole formate da lunghe lingue di sabbia circondate da mangrovie) sono ottime basi per immergersi in un mare cristallino, caldo ai limiti del fastidio tra una miriade di pesci e coralli multicolori. Pochi chilometri di strada asfaltata ed ecco Tikal, di nuovo in Guatemala.
Se Palenque è bellissima, Tikal è meravigliosa: Palenque si visita in tre ore, a Tikal non ne bastano sette; a Palenque le piramidi svettano le une sulle altre con la foresta tropicale intorno, Tikal è nella foresta con le piramidi che bucano la vegetazione come zattere su un oceano verde. Se arrampicarsi sulla cima di questi altissimi templi a gradoni resi scivolosi dall’umidità è solo faticoso, nella ripidissima discesa si incontra letteralmente la morte su ogni gradino. Ma sulla cima c’è tutto lo spazio per riposare mentre il sole inonda il tetto verde di riflessi metallici, le grida delle scimmie e dei pappagalli riempiono l’aria e ogni tanto il ruggito di un solitario giaguaro ricorda che dopotutto questa è ancora casa sua. E basta un anno senza manutenzione perché l’ipertrofica foresta tropicale si riprenda tutto.
Quattrocentocinquanta chilometri nel cuore del Guatemala su una strada al limite dell’impraticabile, con uno sgangherato bus stipato all’inverosimile, mi portano in Honduras. Ed ecco Copán. A Palenque e a Tikal il genio maya si è espresso nell’architettura; qui, su queste umide e calde rovine nella giungla, è il trionfo delle iscrizioni. Le antiche steli sono una commistione di motivi antropomorfi e astratti, rimasti 1000 anni celati nella foresta sino alla riscoperta da parte di Catherwood e Stephens, due archeologi dilettanti che acquistarono tutta la città per 50 dollari da un campesino.
E’ ora di uscire dal magico mondo dei Maya e di volgere verso sud.

La carretera Panamericana
In teoria è possibile guidare dall’Oceano Artico in Alaska sino a Ushuaia nella Terra del Fuoco attraverso la Panamericana, un sistema di strade che unisce il continente americano. Il progetto prese il via a Buenos Aires nel 1925 con il primo Panamerican Highway Congress e oggi la Panamericana è asfaltata per lunghi tratti, poco più di una pista di fango e polvere in altri e ancora da costruire fra Panamá e la Colombia dove c’è quello che fra i viaggiatori è noto come il Darién Gap. Motivi politici (Panamá è una ex provincia colombiana) e sanitari (malattie del bestiame limitate al Sudamerica) hanno finora rimandato la costruzione di questi ultimi 160 chilometri della carretera nella regione più impenetrabile e pericolosa di tutto il Centroamerica. Buona parte di un viaggio via terra in questa area si svolge necessariamente sulla Panamericana.
Lasciata Copán, la strada prosegue verso sud attraverso montagne coperte di pini polverosi. Il tortuoso percorso è reso ancora più lento e disagevole dal recente passaggio dell’uragano Mitch che non ha risparmiato neanche un ponte sui numerosi corsi d’acqua. Tegucigalpa (il cui nome sta per la collina d’argento) è una capitale piacevole nella sua parte centrale, il solito disastro nelle aree periferiche. Soprattutto in un paese povero le città sono un catalizzatore di bruttezza, povertà e violenza: è nelle piccole località che si respira l’aria del Centroamerica.
Ancora sulla Panamericana verso il Nicaragua e la sua capitale. Managua è una città dalle strade larghe, ordinate e alberate sulle sponde dell’inquinatissimo omonimo lago; di estrema suggestione nel cuore della città il vecchio centro, abbandonato perché epicentro di devastanti terremoti: la cattedrale e gli altri edifici in rovina ne sono la muta testimonianza. Il Nicaragua con la sua gente ospitale, le città coloniali e la natura rigogliosa è sicuramente lo stato più affascinante e piacevole di tutto il Centroamerica e paradossalmente per i recenti trascorsi anti statunitensi appare il più legato a questi: per le automobili, le pubblicità, i vestiti, lo stile di vita; e lo sport nazionale che non è il calcio, come nel resto dell’area, ma il baseball.
Ancora in viaggio verso sud: le coincidenze si susseguono rapide attraverso Granada, splendida città coloniale sul lago di Nicaragua. Il 15 agosto è festa grande, come in tutto il Centroamerica, e la città è una bolgia di gente, maschere, carri allegorici, cavalli e tori. La birra scorre copiosa e bande musicali improvvisate si sfidano rincorrendosi per le vie; le case sono aperte e nei locali si balla sino a tarda notte tra fiumi di rum e musiche latine.Poche ore di battello portano all’isola di Ometepe (fra le due montagne) nel lago di Nicaragua: anticamente una baia nel Pacifico, conserva forme di vita marine adattatesi al nuovo ambiente fra cui l’unico squalo d’acqua dolce del mondo. Attraverso il rio San Juan i pirati giungevano dall’Oceano Atlantico sino a Granada saccheggiandola ripetutamente e la zona ha importanza strategica perché sfruttando questo specchio d’acqua si potrebbe creare un altro canale fra i due oceani. L’isola di Ometepe è un luogo incantevole, fuori del mondo e del tempo, dove trascorrere un paio di giorni esplorando le pendici dei due vulcani che la compongono, riposando sulle sue spiagge e assaporando i gustosi pesci del lago cucinati nelle trattorie locali.
Questa area è l’ultimo lembo realmente centroamericano. Pochi chilometri di Panamericana mi separano dalle…

Colonie dello zio Sam
Il Costa Rica non possiede bellezze naturali migliori dei paesi confinanti; non ha neanche vestigia archeologiche paragonabili a quelle degli stati più a nord, eppure una minore povertà, una maggior sicurezza (escludendo anche qui la capitale) e un’organizzazione turistica accorta e commerciale di stampo statunitense ne hanno fatto la meta di milioni di visitatori che lo considerano il paradiso del Centroamerica. Ciò vuol dire però affollamento, ingresso contingentato nelle aree naturali più famose e la perdita dell’anima centroamericana.
Dopo un paio di giorni di relax nell’incantevole Playa del Coco sul Pacifico (defilata dalle rotte turistiche perché non adatta al surf), mi avvio sulla Cordillera de Guanacaste raggiungibile con sei ore di viaggio su impervie strade di montagna. Ricoperta dalla foresta pluviale tropicale, è stata colonizzata dai quaccheri nordamericani negli anni ’50 e ora è un’area di fattorie che producono latte e formaggio. In questa stagione la pioggia è una costante giornaliera e la foresta pluviale è un vero stordimento dei sensi per i suoi odori, rumori, colori e il caldo umido asfissiante. Lunghe passerelle sospese permettono di non doversi avventurare troppo nella foresta e di ammirare gli alberi dalla cima: con questo clima ogni tronco è un vero e proprio orto botanico per la quantità di altre essenze vegetali che vi si attorciglia intorno o vi cresce direttamente in ogni fessura disponibile.
Di nuovo in viaggio sulla Panamericana e sono a San José a 1.150 metri di quota: sicuramente il luogo meno sicuro di tutto il Costa Rica, anche per i terremoti che si susseguono con frequenza giornaliera. Il vicino vulcano Irazú (montagna del ?tremore e del tuono?) un tempo era meta di una bella e faticosa escursione: ora una comoda strada asfaltata consente di arrivare in un paio d’ore ai 3.432 metri della sua cima lunare con il cratere pieno di acqua smeraldina. Con il sereno dalla vetta si possono ammirare i due oceani, ma il bel tempo qui è un optional e il freddo è pungente: non pochi incauti partiti da San José in maglietta ricorderanno a lungo il vulcano Irazú.
La strada devia ora verso la costa dove è Manuel Antonio, una piccola gemma di foresta tropicale: isole e scogliere sull’Oceano Pacifico abitate da scimmie, iguana, alligatori e granchi. Il tutto in meno di 700 ettari di parco fruibile con poca fatica in scarpe da trekking e costume da bagno: un po’ di cammino e un tuffo nell’oceano.
Parto senza rimpianti per Panamá: il paragone con gli altri stati centroamericani non rende giustizia al Costa Rica.
La moneta nazionale panamense, il balboa, altro non è che il dollaro e reminiscenze universitarie mi suggeriscono che uno stato che non batte moneta non è uno stato sovrano. Dopo un piacevole soggiorno al fresco tra le piantagioni di caffè delle montagne, una lunga tirata sulla Panamericana con un lussuoso pullman gran turismo mi conduce a Panama City: ed ecco finalmente il famoso canale dall’alto del Puente de las Americas, unico collegamento terrestre fra le Americhe. Panama City è la più bella capitale dell’area: una città cosmopolita con le chiassose aree latine, i suggestivi scorci coloniali di Casco Viejo e Panamá Viejo ripetutamente saccheggiati dal pirata Morgan, il nordamericano centro finanziario di grattacieli. E ovviamente il canale di Panamá dove in una tribuna appositamente costruita si trascorrono ore ad ammirare le navi che senza soluzione di continuità vanno e vengono, salgono e scendono nelle chiuse e spariscono all’orizzonte passando in 8 ore da un oceano all’altro. La costruzione degli 80 chilometri del canale nei primi anni del secolo costò 22.000 morti, ma oggi tutte le navi del mondo sono progettate considerando le misure delle sue chiuse: 33,5 per 305 metri. Il pedaggio medio è di ben 50.000 dollari per passaggio ma consente di risparmiare il doppiaggio di Capo Horn e oltre 10.000 miglia di navigazione.
Sono trascorsi 35 giorni, 4.515 chilometri di strada e 132 dollari per i trasporti da Città del Guatemala. In aereo avrei impiegato due ore e non avrei speso di più, ma avrei vissuto 34 giorni e 22 ore di meno.

PleinAir 330 – gennaio 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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