Voci dal sottosuolo

La cultura di un mestiere antico e le vicende di un'industria oggi praticamente scomparsa sono il filo conduttore di un viaggio nelle profondità della terra, alla scoperta di tre complessi minerari d'eccezione in Alto Adige, Liguria e Sardegna.

Indice dell'itinerario

La storia delle miniere italiane, non molto differente da quella dell’intera industria estrattiva europea, si articola in una serie di fasi che, secolo dopo secolo, hanno segnato l’ascesa e il declino di questo mondo e dei suoi valori. Furono gli Etruschi i primi infaticabili cavatori di metalli su vasta scala, mentre i potenti Romani lasciarono il duro lavoro nel sottosuolo soprattutto ai vicini e ai paesi più o meno sottomessi. Il Medioevo, con la sua richiesta crescente di metalli – soprattutto argento – fu l’epoca degli scavi angusti e delle fosse a cielo aperto, dove i pisani nel centro Italia e i tirolesi al nord cercavano le loro ricchezze; fino all’Ottocento, tuttavia, l’organizzazione delle miniere rimase di fatto artigianale.
La rivoluzione industriale, le ferrovie, i vapori che solcavano i mari furono il segnale d’avvio della rivoluzione mineraria italiana, con la nascita di vere e proprie cittadelle costruite a fianco dei pozzi; in parallelo si formò uno dei segmenti più combattivi della classe operaia che portò sviluppo in zone – basti pensare alla Sardegna del 1860 – rimaste completamente al di fuori del trionfo dell’industria.
A cavallo tra Otto e Novecento le sempre più redditizie miniere di casa nostra furono spesso gestite da società miste, in cui capitali e know-how provenivano sia dall’Italia che da altre nazioni europee a forte vocazione mineraria. Belgi, inglesi, francesi furono così molti dei tecnici, dei direttori e degli ingegneri che, tra i colli liguri o nelle paludi malariche del Sulcis, costruirono impianti all’avanguardia ancora oggi capaci di stupire per la loro audacia.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’industria estrattiva, ormai divenuta quasi completamente italiana, passò allo Stato che, tra alti e bassi, l’avrebbe portata avanti sino ai fatidici anni Ottanta. I motivi del suo crollo vertiginoso sono molti: aumento dei costi di produzione, ingresso sul mercato mondiale di produttori a basso costo, fine della necessità strategica di possedere risorse nazionali. Poco importa, comunque. Una dopo l’altra, le miniere italiane hanno chiuso, lasciando sul terreno strutture imponenti, discariche da bonificare ma anche un patrimonio storico di grandissimo valore.
Dal 1990 in poi, il sogno un po’ visionario di aprire le gallerie al pubblico sulla falsariga delle show mines straniere, che richiamano un gran numero di visitatori, ha iniziato a muovere i primi passi. E oggi presenta un panorama dell’Italia mineraria variegato e in costante divenire.

Alto Adige
San Martino di Monteneve In Val Ridanna, poco lontano dal confine austriaco, Vipiteno fu uno dei siti minerari più interessanti dell’intera regione alpina. Popolo di mercanti, ma anche di minatori, i tirolesi ebbero infatti il monopolio dell’argento per larga parte del Medioevo. La lontananza dei filoni dal fondovalle portò alla costruzione di un villaggio sulla montagna, San Martino di Monteneve (2.355 m), dove i cavatori vivevano tutto l’anno; il prezioso metallo fino di Monteneve è citato per la prima volta già nel 1237. In breve però l’attività mineraria divenne importante per un altro minerale: il piombo, necessario per separare rame e argento estratti dalla ricca miniera di Schwaz.
A causa del crollo del prezzo dell’argento e della diminuita redditività, i giacimenti vennero chiusi nel 1798 ma rinacquero meno di un secolo più tardi come impresa statale dell’impero austroungarico, con lo scopo di estrarre zinco. A questo periodo risale una via di trasporto su rotaia della neonata ferrovia del Brennero, lunga 27 chilometri e diretta alla stazione di Vipiteno e agli impianti di Masseria. Frutto di lavori imponenti, la miniera presentava soluzioni di tale modernità che nel 1898 l’imperatrice Sissi espresse il desiderio di visitare quei luoghi (dove, tra l’altro, le era stato dedicato un rifugio).Divenuta italiana dopo il 1918, l’attività fu presa in gestione dalla Società Anonima Imprese Minerarie Trentine che costruì una teleferica per il trasporto del materiale a valle. Il minerale più ricercato era ora il cadmio, richiesto dall’industria che lo utilizzava soprattutto per la costruzione di pile e batterie.
Nel 1967 il dormitorio dei minatori di San Martino di Monteneve venne distrutto da un incendio. Per l’accesso al sottosuolo venne realizzata una cabinovia che conduceva a quota 2.112 all’imbocco della galleria Poschhaus, scavata cinque anni prima, mentre nuove case e dormitori vennero costruiti nella zona di Masseria, 700 metri più in basso, migliorando decisamente le condizioni di vita dei lavoratori (pare del resto che l’incendio sia stato appiccato dai minatori stessi, stanchi di vivere tutto l’anno in alta montagna). Ma il declino non si arrestò: nel 1979 la coltivazione fu interrotta, e sei anni più tardi il complesso minerario cessò la sua attività secolare.
Oggi l’accesso all’intero comprensorio è regolato da tre visite differenziate. La prima, più semplice e veloce, comprende gli impianti di Masseria e l’esposizione museale, dedicata alla geologia e alla vita dei minatori nel corso dei secoli; il percorso sotterraneo della galleria didattica, lungo 200 metri, permette di conoscere tecniche, materiali e condizioni di scavo dal XVI al XX secolo e di ascoltare dal vivo il rumore delle perforatrici ad aria compressa. Una seconda possibilità prevede la visita a Masseria di mattina e la salita in pullman alla galleria Poschhaus nel pomeriggio, con un tragitto di circa 3 chilometri e mezzo su un treno da miniera degli anni Sessanta e l’ingresso in diverse gallerie. La terza e più impegnativa escursione include il percorso in pullman fino a Poschhaus, la salita a piedi alla Forcella di Monteneve (2.700 m) e la discesa sull’altro versante al borgo minerario. Da qui si entra sottoterra lungo la galleria Karl, che risale alla metà del XVII secolo ed è attraversata da un discreto corso d’acqua, per poi raggiungere quella più ampia di Poschhaus: scavata più in basso di tutte le precedenti e mantenuta in ottime condizioni da continui lavori di manutenzione, è il cuore delle visite nella miniera vera e propria, dalla quale un trenino riporta all’esterno.

Liguria Gambatesa
All’interno del parco regionale dell’Aveto, una delle aree più interessanti della Liguria dal punto di vista naturalistico, il museo minerario di Gambatesa ha valorizzato la più recente e completa delle tante miniere sfruttate in zona nel corso dei secoli. I minerali estratti erano principalmente solfuri di rame e ferro nel periodo iniziale e ossidi e silicati di manganese in epoca più recente. Nel momento di massimo sviluppo la valle era divenuta la maggior produttrice italiana di manganese: le 1.000 tonnellate annue dei primi del Novecento crebbero senza interruzioni nei decenni successivi (anche a motivo della fame di acciaio generata dalla produzione bellica) e settant’anni dopo si arrivò addirittura a 50.000. Poi venne la chiusura – brusca e in buona parte ingiustificata – dovuta alla scoperta di grandi giacimenti in Africa, che però fu arginata dalla costituzione di una nuova società, la SIL.MA, la quale prese in carico la concessione e iniziò a lavorare anche per l’apertura al pubblico.Attualmente il complesso minerario è visitabile sia all’interno, percorrendo le gallerie a piedi o in trenino, che all’esterno, passeggiando su sentieri di interesse naturalistico, botanico o storico in direzione del vecchio villaggio minerario abbandonato a quota 570. L’escursione agli impianti sotterranei è preceduta da una proiezione nel centro visite, a cui segue la visita vera e propria per la quale ogni turista viene fornito di casco, stivali e mantella impermeabile. Vicino al centro si trova la stazione del treno, composto da una decina di vagoncini, che s’inoltra nel cuore della montagna lungo oltre un chilometro di binari. Con una serie di soste a piedi nella miniera si illustrano gli aspetti salienti del lavoro sotterraneo e, dopo un tratto abbastanza lungo del percorso seguendo le antiche discenderie, di colpo si apre in un’enorme caverna, in leggera salita e con il pavimento coperto da blocchi di frana, da cui sono state estratte più di 600.000 tonnellate di manganese che hanno lasciato il posto a una sala artificiale veramente imponente. Non è difficile, quasi al termine del tracciato, incontrare alcuni minatori che caricano i carrelli e li avviano verso l’argano che li porterà alla luce. Taciturni e sorridenti, gli ultimi custodi della miniera di Gambatesa sono l’esempio degno di un mestiere durissimo ma rimpianto dai suoi lavoratori, pronti a tutto per evitare che questi luoghi e la loro storia si possano trasformare in uno svilente parco giochi sotterraneo.

Sardegna Iglesiente
“Il pozzo vorace aveva inghiottito la sua quotidiana razione di uomini – poco meno di settecento operai – che a quest’ora nell’immenso formicaio attendevano al loro lavoro, scavando da ogni parte la terra, crivellandola di buchi, tarlandola come un vecchio legno. E dai più profondi strati della miniera, a incollar l’orecchio alla roccia si sarebbe potuto udire, nel pesante silenzio, il brusio di tutti quegli insetti umani in moto, dal veloce scorrere del cavo che alzava e abbassava la gabbia d’estrazione, sino al morso degli utensili che in fondo ai cantieri d’abbattimento intaccavano il carbone”.
Le parole sono quelle del tragico e grandioso Germinale di Zola, e sembrano una perfetta colonna sonora per i minuti trascorsi a osservare un affresco: si tratta di La Miniera dipinto da Aligi Sassu a Monteponi, dove si trova ancora adesso, custodito dal Comune di Iglesias.
Lo sviluppo di questa zona della Sardegna risale alla scoperta dei minerali che portò qui mercanti e minatori da tutto il Mediterraneo, finché i pisani diedero il via allo sfruttamento su larga scala dell’argento del Sulcis. Sparse per colli e montagne, le fosse pisane sono grandi fori a cielo aperto sul cui fondo venivano scavate piccole gallerie necessarie a inseguire i filoni: fruttavano ricchezza ai mercanti, alla Zecca e ai proprietari delle concessioni minerarie, oltre che ai conti della Gherardesca di Donoratico, feudatari di Villa di Chiesa. La produzione continuò finché gli spagnoli invasero il mercato con immense quantità di argento sudamericano, e sarebbe trascorso molto tempo prima che le miniere del Sulcis tornassero a essere il motore della storia in questa zona.
Decenni di piccolo cabotaggio minerario si sbloccarono solo nel 1848, quando vennero estesi alla Sardegna gli effetti di un regio decreto che nel 1840 aveva separato la proprietà del terreno, pubblica o privata, da quella del sottosuolo, interamente statale. Questo significava che il Regno avrebbe potuto dare in concessione a qualunque società il sottosuolo delle montagne sarde: il che avvenne con l’arrivo di imprese fondate da imprenditori sabaudi e liguri, ma anche francesi, inglesi, belgi. I minatori sardi vennero sfruttati per secoli come lavoranti, mentre i compiti più importanti e redditizi erano affidati ai minatori delle Alpi, tedeschi o liguri. Anche per questo motivo, nel 1871 venne inaugurata a Iglesias la Scuola Mineraria, ancora oggi in piena attività; al piano terra, da non perdere l’eccezionale museo dove si trovano macchine e fioretti, laboratori nei quali gli studenti si addestravano a lavare o a raffinare il grezzo. Inoltre, una galleria in discesa conduce alla miniera vera e propria dove, dal 1934 in poi, i ragazzi dell’istituto hanno potuto scavare, armare gallerie, piazzare detonatori e azionare pompe.Ristrutturato e aperto al pubblico grazie allo sforzo dell’Associazione Periti Minerari di Iglesias, il museo è un degno inizio alla visita di quel paese di gallerie che, da qui a Masua, segna l’area di Iglesias. Poco lontano dalla città, lungo la strada per la costa, di colpo fa la sua comparsa sulla destra un agglomerato di edifici chiari che si arrampica sulle pendici della montagna, con le fondamenta in enormi discariche rossastre. E’ appunto la miniera di Monteponi, che ruota attorno all’elegante costruzione della palazzina Bellavista (oggi una delle sedi dell’Università di Cagliari), direzione del comprensorio dal 1866 in poi. Tra le strutture più imponenti ci sono le torri sovrastanti i pozzi Sella e Vittorio, che scendevano fino a raggiungere una quota di 100 metri sotto il livello del mare. La visita della galleria Villamarina, realizzata a partire dal 1852, permette di osservare dal di sotto le lisce canne di questi pozzi ormai allagati; in sale imponenti rombavano gli argani che spedivano uomini verso il basso e minerali verso l’alto alla velocità di 4 o 5 metri al secondo.
Spiega il professor Ilio Salvadori, presidente dell’Igea: «Le ultime miniere in attività hanno cessato il lavoro intorno al 1998. Scopo della nostra società è di mettere in sicurezza gli impianti, bonificare le discariche antiche e moderne e recuperare il patrimonio edilizio abbandonato. In più al nostro personale, quasi tutto proveniente dalle società concessionarie e quindi dalle miniere della zona, è stato affidato il compito di organizzare e gestire le visite nei siti di Porto Flavia, Monteponi, Montevecchio, Lula, Funtana Raminosa e San Giovanni».
E’ da quest’ultima miniera che iniziamo la nostra visita. Il treno giallo sferraglia verso il buio, poi si arresta davanti alle porte di un ascensore. Una volta scesi, nella voce della guida appare un’ombra di rispetto e di ammirazione quasi inattesa: sopra le nostre teste, una scala a chiocciola conduce nel cuore della grotta di Santa Barbara. «Era l’aprile del 1952 e si stava scavando un fornello verso l’alto – dice il perito minerario che ci accompagna – quando tra le rocce è apparsa la calcite bianca e i minatori sono sbucati di colpo in una grotta eccezionale, isolata dal resto del mondo». Tra colonne e concrezioni, questa splendida cavità si distingue per la presenza di un’enorme quantità di cristalli di barite marrone, che ha coperto le pareti come le scaglie di un mostro preistorico. Poi la calcite e l’aragonite hanno iniziato a depositarsi nuovamente su queste, rendendo l’ambiente un vero gioiello (tanto che, per ovvi motivi di salvaguardia, la grotta è costantemente monitorata dalla Società Speleologica Italiana e l’accesso è possibile solo per 4 giorni alla settimana con un massimo di 100 visitatori al giorno). Dopo le curve che conducono al mare, la strada serpeggia a metà della falesia in direzione di Buggerru, Masua e Nebida che divennero i terminali del trasporto del minerale verso Genova. Ai piedi della costa si trovano i resti della laveria Lamarmora, con le sue mura e gli archi rosati a contrasto con il blu profondo del mare, che si può ammirare seguendo la strada pedonale che parte dalla piazza di Masua. A Nebida, invece, un vecchio capannone industriale ospita una ricca collezione di macchine da miniera di tutte le epoche, dai primi vagoncini che venivano trainati dai cavalli agli enormi Jumbo diesel in grado di spostare decine di tonnellate di roccia; dalla vicina spiaggia di Buggerru partivano le bilancelle, piccole imbarcazioni a vela latina che avrebbero scaricato il minerale a Carloforte, dove potevano attraccare i mercantili diretti a Genova. Tutto questo fino al 1924 quando nacque Porto Flavia, un progetto che ha davvero dell’incredibile.Sulla costa esisteva un unico punto in grado di garantire il transito di navi con un pescaggio importante, e si trovava al largo della vertiginosa falesia rocciosa posta davanti all’isolotto di Pan di Zucchero: da Nebida fu perciò scavata una galleria che s’inoltra nella montagna per 700 metri, fino a raggiungere uno slargo da cui i vecchi trenini partivano verso il mare. Al di sotto della galleria stessa, una serie di enormi silos raccoglievano il minerale scaricato dalle decauville e, a un livello ancora inferiore di circa 20 metri, il più lungo nastro trasportatore dell’epoca trascinava 300 tonnellate di minerale all’ora fino a una sorta di trampolino sospeso a 17 metri sul pelo dell’acqua, dove sostavano le navi da carico. Il risultato di quest’opera ciclopica fu impressionante: il prezzo del trasporto dalle miniere a Genova scese da 80 a 20 lire per tonnellata. Dopo il tragitto sotterraneo, l’emozione di affacciarsi sul mare a metà della parete rocciosa è veramente eccezionale anche per la limpidezza dell’acqua che, nella bella stagione, permette di vedere chiaramente il passaggio dei tonni ai piedi della scarpata sottomarina.
Da Nebida, la strada che conduce verso Arbus corre tra valli selvagge dove si notano resti di ferrovie, saggi di scavo, piccole discariche. Si giunge così a Montevecchio, un’altra delle cattedrali dell’industria mineraria sarda, nata in epoca pisana. Anche in questo caso il 1848 è una data cruciale: con un editto firmato da Carlo Alberto di Savoia venne fondata la Società Miniere di Montevecchio, che avrebbe lavorato ininterrottamente fino al 1991. Per rendere i lavori più rapidi, la concessionaria usava appaltare i lavori a ditte specializzate: nel 1852 fu il caso della compagnia Reale Anglosarda che seguì sottoterra il filone Sant’Antonio, raggiunto oggi dai turisti tramite il pozzo omonimo. “Abbiamo sceso anche un pozzo, abbiamo girato con quei lucignoli portati a braccio teso, nell’acre notte dei sotterranei. Sottili travi nelle coltivazioni sostengono le volte. Un misterioso carrello, sospinto dall’aldilà, rotola sul binario. E a tratti s’ode un calpestio furibondo, come d’un cavallo sepolto vivo…” scrisse Elio Vittorini dopo un breve viaggio in Sardegna che aveva toccato il Sulcis. Lungo il percorso ipogeo, di particolare interesse sono le mineralizzazioni e le concrezioni colorate che stanno lentamente ricoprendo le pareti ormai abbandonate dai minatori.
Lontano dal Sulcis, in piena terra di Barbagia, la miniera di Funtana Raminosa si trova a poca distanza dal paese di Gadoni, nella valle del rio Saraxinus (il cui nome fa pensare che i minerali di questa zona facessero gola a molti anche in passato). Sulle sponde del torrente, che si immette nel Flumendosa, questo è un giacimento complesso e completo che offre al visitatore un percorso molto vario. Dopo aver incontrato una teleferica e un impressionante piano inclinato su cui viaggiavano i carrelli carichi di minerale, si compie un giro sotterraneo che permette di osservare le diverse tecniche di scavo e di armatura delle gallerie. Poi si prosegue fino a una moderna discenderia dalle dimensioni imponenti, scavata nell’epoca dei grandi mezzi diesel, che dopo un centinaio di metri è oggi allagata dalle acque di falda risalite dopo lo spegnimento delle pompe della miniera. Eccezionale è anche la sala dei compressori e dei generatori, restaurati di recente, mentre nell’impianto di raffinazione e frantumazione fervono ancora i lavori dei tecnici dell’Igea per ridare alla miniera l’immagine e la dignità del suo passato.

PleinAir 389 – dicembre 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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