Vivere fra le nuvole

A zonzo fra gli strabilianti panorami andini del Perù, dove un popolo antico e fiero difende la propria identità nella lingua, nei costumi, nelle usanze che affondano le loro radici nella storia delle civiltà precolombiane

Indice dell'itinerario

Immaginate il piatto orizzonte della Valpadana, trasportatelo sulla cima del Monte Bianco e potrete farvi almeno una vaga idea di quella distesa pietrosa e stepposa che è il paesaggio delle Ande peruviane. L’impressione, mentre si viaggia da queste parti, è che non molto sia cambiato da quando, fra il 1531 e il 1535, si insediarono i conquistatori spagnoli guidati da Francisco Pizarro. Fino ad allora gran parte delle terre che oggi costituiscono il Perù avevano visto nascere civiltà prevalentemente agricole e montane in un succedersi di regni grandi e piccoli, sino all’affermazione dell’impero degli Inca fra il XII e il XIII secolo.
Quel che segue all’arrivo degli europei è una lunga teoria di conquiste, saccheggi, stragi, sottomissioni fisiche e spirituali. Le malattie portate dal Vecchio Continente, contro cui gli indigeni non avevano difese, avrebbero fatto il resto. Così, pian piano la gran parte della popolazione iniziò a spostarsi sugli altipiani, dove ci sono meno ricchezze ma non si vedono navi nemiche apparire all’orizzonte. Verso gli sconvolgimenti politici, militari, economici che travagliavano il paese nutrivano un sostanziale disinteresse, considerandole “faccende di spagnoli”, e solo nel 1825 sarebbero stati direttamente coinvolti per la prima volta, quando la Bolivia si dichiarò indipendente e l’altopiano, dove non erano mai esistiti confini, venne diviso in due. Ma c’era tanto spazio, e la vita poteva proseguire come prima.
Il paese è oggi diviso fra la costa, dominio dei discendenti dei Conquistadores, e l’entroterra montano, perlopiù indio: gente dal temperamento accogliente e aperto che appare proprio come pensiamo che sia, di piccola statura, dai capelli scurissimi che non imbiancano mai e che veste di mille incredibili colori. La lingua di queste popolazioni è il quechua, risalente al periodo inca, ma i più sostengono di appartenere a gruppi ancora più antichi. Basta un giorno trascorso a parlare con loro (rifiutano lo spagnolo per principio, ma lo parlano tutti benissimo) e il particolare che salta agli occhi è proprio la frammentarietà della cultura locale: ogni piccolo centro abitato si comporta come se fosse una nazione a sé, con la sua storia e la sua identità. Anche gli abiti tradizionali portati con orgoglio caratterizzano il gruppo etnico, con i colori che fanno la gioia dei fotografi e che cambiano spesso nel raggio di pochi chilometri. Su questa dispersione domina la minoranza di origine spagnola, che di fatto detiene il potere.
La visita dell’altopiano è quindi un viaggio sotto molti aspetti fuori dal mondo, con una pianura dove da noi si trovano le cime delle montagne, un lago immenso dove da noi ci sono i ghiacciai, e abitanti di un’unica razza che si credono tutti diversi fra loro. Il turismo itinerante praticamente non esiste, e non se ne comprende il motivo: le strade sono complessivamente buone, sterrate in più punti ma percorribili senza troppi problemi (del resto i bus di linea ci transitano ogni giorno), e spazio per dormire ce n’è fin troppo, così come la disponibilità di acqua. I rischi sociali sono concentrati a Lima, mentre a Cusco si può camminare da soli in piena notte rischiando al massimo una richiesta di elemosina. Sull’altopiano alcuni turisti, soprattutto tedeschi o americani, piantano le tende accanto a piccoli specchi d’acqua congelati e ci fanno capire che questo è un viaggio da costruirsi a propria misura. La sensazione è che il Perù sia un paese dove l’abitar viaggiando sarebbe di casa, inserendosi in una cordialità fatta di sorrisi e di voglia di comunicare, di bambini che vengono a farsi fotografare per il solo gusto di farlo, di commercianti che insistono per farti assaggiare quello che hanno in mostra.
Le località da non mancare sono note a tutti, a cominciare dalla sponda peruviana del Titicaca con le isole galleggianti fatte di totora, la canna lacustre, dove gli Uros vivono ancora o fingono di vivere per beneficiare del turismo (sospetto inevitabile, visti i pannelli solari con cui riforniscono di energia le loro arcaiche case di paglia). A Cusco si trova la formidabile fortezza inca di Sacsayhuaman, con le famose pietre sagomate in mille forme e perfettamente combacianti, mentre Aguas Calientes è la porta per accedere alle rovine della cittadella di Machu Picchu. Le pochissime strade che percorrono l’altopiano collegano fra loro proprio le località nominate, anche se ci renderemo conto ben presto che questo è soprattutto un viaggio nella geografia umana.

Attraverso gli altipiani
Provenendo da Lima il primo impatto con l’altitudine solitamente è a circa 2.300 metri di quota ad Arequipa, la città bianca. C’è un sottile doppio senso in questa definizione: tutti gli edifici sono costruiti con un tufo di colore molto chiaro, il sillar, prelevato dalle pendici del vicino vulcano Misti, ma gli abitanti amano far notare come la loro carnagione sia piuttosto diversa da quella degli indios. In effetti discendono quasi tutti dagli spagnoli, e si vede. In Perù circolano aneddoti sulla popolazione di Arequipa e sul suo sentirsi diversa, migliore, e c’è stato un tempo in cui la voglia di differenziarsi da Lima ha portato la città a inventarsi una bandiera e un passaporto propri; oggi si dice che quando la Luna si è staccata dalla Terra si è dimenticata di portarsi dietro Arequipa. A parte alcune piazze e il coloratissimo monastero di Santa Catalina, la città è soprattutto la porta d’accesso per i grandi canyon. Il più famoso è quello del Colca, da molti considerato per anni il più profondo del continente americano con i suoi 3.191 metri: misurazioni più precise lo hanno però relegato in seconda posizione dietro il Cotahuasi, nella stessa zona, che arriva ai 3.535 metri. Si parla di cifre, pensateci bene, paragonabili all’altezza sul livello del mare della nostra Marmolada, e solo nel massiccio himalayano si superano questi numeri. Per visitare il canyon è d’obbligo una sosta a Chivay, un paesino di poche migliaia di abitanti a quota 3.700 che si raggiunge attraverso l’altopiano più caratteristico, con il passo (se così si può chiamare) di Patapampa che supera i 5.000 metri di quota. E’ qui che l’altitudine comincia davvero a farsi sentire, qualcuno soffre di mal di testa e tutti abbiamo problemi di digestione perché l’organismo ha poco sangue da elargire allo stomaco. Proviamo per gioco a muovere qualche passo di corsa e rimaniamo senza fiato dopo appena pochi metri: ci si ferma subito e, al contrario del vero affanno da sforzo, questo passa immediatamente per riprendere al prossimo passo veloce. Non è un caso se i bambini del posto ridono, scherzano, giocano dappertutto ma non se ne vede correre nemmeno uno, e perfino i cani se la prendono comoda. Gli andini, ovviamente abituati all’aria rarefatta, si aiutano con le foglie di coca, usanza su cui è stato detto di tutto e non sempre con competenza. Il mate de coca si trova in ogni bar o taverna ed effettivamente allevia i sintomi dovuti all’altitudine, ma chi si facesse prendere da altre fantasie commetterebbe un errore, poiché si tratta solo di un infuso. Questa pianta, che contiene sostanze ricostituenti, è presente da sempre nella farmacopea locale e il fatto che, con un particolare procedimento, se ne estragga la cocaina non significa che un semplice tè abbia gli stessi effetti. Gli americani, nel grossolano tentativo di frenare l’importazione dello stupefacente negli Stati Uniti, chiedono con insistenza al governo peruviano di eliminare le piantagioni in cambio di qualche sovvenzione, suscitando le reazioni negative delle popolazioni di queste parti, tanto che qua e là si vedono sui muri scritte come “la hoja de coca no es droga”. Non dimentichiamo però che la tradizione di masticare foglie di coca risale ai popoli preincaici, mentre il potere è in mano ai discendenti degli spagnoli: così ogni tanto viene bruciata una piantagione, tanto per fare scena, mentre continuano la coltivazione, la vendita al dettaglio (perfino nei supermercati) e l’uso quotidiano da parte degli indios.Percorriamo l’altopiano osservando brulle distese che sembrano senza fine ma all’improvviso vengono interrotte da ripidi vulcani, formazioni geologiche sorprendenti, cactus alti come alberi, dove lama e alpaca dalla morbida lana sono impegnati a strappare con i denti l’erba stenta che costituisce la formazione vegetale dominante. Il sole a questa altitudine solca la pelle, tanto che anche i bambini sono spesso pieni di piccole rughe. Non c’è donna che non fili a mano, con una perizia che tradisce una lunga consuetudine: una di queste, curvata dagli anni, ci indica dei lama con dei buffi pennacchi rossi alle orecchie spiegandoci che servono per distinguere il suo gregge da lontano, poi sorride mettendo in mostra i soli tre denti rimasti. Le pozzanghere dove si abbeverano gli animali sono in parte ghiacciate, perché di notte la temperatura scende parecchio; ma questa vecchia contadina, che continua a filare la lana senza interruzione mentre ci parla, ha i piedi scalzi, con la pelle della pianta che sembra di cuoio.
La strada fra Arequipa e Chivay attraversa la Reserva Nacional Salinas y Aguada Blanca, una mera denominazione amministrativa dal momento che l’ambiente circostante è ancora caratterizzato da un’infinita distesa di festuca dove non è difficile veder correre le vigogne in libertà. Questo animale dal vello pregiatissimo stava per estinguersi a causa della caccia spietata, ma la storia ha un lieto fine poiché un gruppo di ecologisti è riuscito a salvarne un centinaio di esemplari, iniziando un ripopolamento che oggi ha riportato a decine di migliaia di animali allo stato brado, con prelievi controllati.
Per arrivare al canyon del Colca il tracciato è buono e in alcuni punti non sterrato, comunque non servono le quattro ruote motrici. Manca solo la possibilità di fermarsi a scattare una foto, mentre il panorama dilata il cuore per la sua grandiosità: non capita certo tutti i giorni di vedere una gola di questa ampiezza (il Grand Canyon statunitense, per quanto famosissimo, è profondo meno della metà). Nel cielo veleggiano i condor, uccelli troppo grossi per alzarsi in volo sbattendo le ali, così attendono che il sole riscaldi le scure pendici montane e poi si lasciano planare cercando una corrente calda che li porti in alto.
Ripresa la strada principale che prosegue verso Puno, raggiungiamo la città sul lago Titicaca e decidiamo di ricorrere a una guida per un’escursione alla scoperta del bacino. Fortuna vuole che all’ufficio turistico troviamo un italiano che organizza gite in loco per i connazionali: adora questo paese, si sente che ne ama la gente e proprio per questo si scaglia contro quella che chiama “la pietà per il povero peruviano”. Le guide locali, dice, seguono gli italiani da anni ma non si sforzano di impararne la lingua, assumendo invece un atteggiamento che intende muovere i turisti a compassione e suscitare una tollerante comprensione per la loro miseria. Il nostro interlocutore si mostra infastidito da questa mancanza di orgoglio: «Non si solleveranno mai da questa condizione – ripete – se non la smettono di comportarsi come accattoni». Il primo impulso sarebbe di dargli ragione ma poi, vedendo la calma che regna nelle strade o la muta cortesia con cui la gente si fa da parte nei negozi, ci viene il sospetto che anche la dignità sia un modo tutto nostro di vedere il mondo. Nei gesti di questo popolo, che sembrano il distillato di una storia antica di secoli, ci sono una tranquillità e una compostezza a noi sconosciute: e guardando con altri occhi quel pacato atteggiamento, così distante dalla frenesia occidentale, capiamo che non è solo questione di altitudine.

PleinAir 437 – dicembre 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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