Viaggiare è il nostro destino

Dal mal d'Africa non si guarisce, e l'unico modo per contrastarlo è dargli soddisfazione. Ecco allora una coppia di esperti conoscitori del Continente Nero che narrano il loro ritorno sulle strade atlantiche, nel deserto, lungo i fiumi e tra le montagne, dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.

Indice dell'itinerario

Fino a non molto tempo fa chi voleva raggiungere l’Africa subsahariana con il proprio veicolo doveva attraversare il deserto su piste lunghe e impegnative: un’impresa da non sottovalutare. Oggi le direttrici principali sono tre, il percorso dell’Hoggar, la traversata del Tanezrouft e il comodo passaggio asfaltato marocchino. Il primo itinerario attraversa l’Algeria e da Tamanrassett giunge in Niger dopo circa 600 chilometri. La seconda pista taglia il cosiddetto “deserto dei deserti” e in 1.300 chilometri collega Adrar, in Algeria, con Gao, in Mali; è nota come Bidon Cinq per i bidoni posizionati a una distanza di 5 chilometri l’uno dall’altro (anche se da qualche anno sono stati sostituiti da pali metallici con un pannello fotovoltaico che alimenta una luce notturna). Infine, la strada che attraversa il Marocco e il Sahara Occidentale consente l’ingresso senza più difficoltà in Mauritania.
Un comodo traghetto collega Genova a Tangeri con partenza il sabato e arrivo il lunedì pomeriggio. Dal 1981 è la quinta volta che sbarchiamo in Marocco con il nostro camper, e l’itinerario programmato – che non prevede soste nelle città già visitate nei viaggi precedenti – è lungo e ambizioso: si parte dal Mar Mediterraneo e si arriva sul Golfo di Guinea.

Un gelato nel deserto
Imbocchiamo la strada costiera in direzione sud per la prima sosta nella riserva di Merdja Zerga (che significa laguna blu), vicino alla cittadina di Moullay Bussecham. Nel periodo invernale questa vasta zona umida accoglie numerose specie di uccelli migratori, caratterizzandosi come una sosta strategica nelle lunghe trasvolate. Il parco si visita in barca ed è possibile organizzare il giro contattando la guida più conosciuta, che ha un recapito presso il Café Milano sulla strada principale. Dedichiamo un’intera mattinata al birdwatching esplorando anche i bracci più isolati della laguna, purtroppo senza fare avvistamenti importanti.
Riprendiamo la strada e incrociamo numerosi camperisti e caravanisti che vengono a passare i mesi più freddi dell’inverno europeo al tiepido sole africano. A una trentina di chilometri da Agadir si trova il Parc National de Souss-Massa: istituito nel 1991, è il più importante e conosciuto del Marocco perché in questo territorio si possono osservare alcuni esemplari di ibis eremita o ibis calvo, un raro volatile che corre il serio rischio di estinguersi. Ma non è facile trovare l’ingresso del parco né una guida che conosca i luoghi dove l’avvistamento è più probabile, e anche qui non riusciamo a vedere nessun simpatico volatile. Probabilmente, con più tempo a disposizione il nostro desiderio si sarebbe potuto realizzare, ma il programma non ci consente soste supplementari appena all’inizio dell’itinerario.
Ancora in direzione sud, una lunga tappa di trasferimento (un migliaio di chilometri) ci porta a Dakhla, in pieno Sahara Occidentale: già colonia spagnola, fu questo lo scenario della guerriglia che dalla fine degli anni ’70, per oltre un decennio, vide confrontarsi duramente le popolazioni del deserto con gli invasori marocchini, che si erano fatti avanti dopo il ritiro della Spagna. Una delle conseguenze fu la preclusione di ogni possibilità di spostamento lungo l’importante arteria che conduce nell’Africa subsahariana. All’inizio degli anni ’90, con una risoluzione dell’Onu, si giunse all’armistizio: oggi la situazione è tranquilla e non ci sono problemi di sicurezza sulle strade principali.
A Dakhla effettuiamo tutti i rifornimenti; in città si svolgono le formalità in uscita dal Marocco e, presso il locale consolato della Mauritania, ci vengono rilasciano i visti d’entrata che vengono controllati alla frontiera, anche se le formalità saranno completate a Nouadibou. Grazie a una foto riusciamo a ritrovare la guida che ci accompagnò nella traversata del 1994: si mostra ben disposto a unirsi nuovamente a noi, anche perché per lui si tratta di un’iniezione di denaro non indifferente.
Acquistiamo i biglietti d’ingresso all’ufficio del Parc National du Banc d’Arguin , che però si trova ancora a un centinaio di chilometri. Completati i rifornimenti inizia il vero viaggio, questa volta su due vetture e con più tranquillità. Lasciata la cosiddetta baia del levriero, sgonfiamo le gomme per avere un miglior galleggiamento sulla sabbia: non seguiremo piste né tracce, ma soltanto la direzione indicata dalla nostra guida (e in ogni caso c’è sempre l’insostituibile GPS). Dopo circa tre ore di marcia, anche se nessun segnale lo conferma, entriamo nel territorio del parco, fondato nel 1976 ed esteso per centinaia di chilometri quadrati su terra e mare. Il Banc d’Arguin è un’altra importantissima area di svernamento degli uccelli: un terzo dei limicoli delle regioni artiche – vale a dire più di due milioni di esemplari – vi si raduna fra i mesi di dicembre e marzo. L’alternanza delle maree scopre grandi isole sabbiose, mettendo a disposizione degli uccelli un ricco banchetto piccoli pesci, molluschi e crostacei.
Lungo le coste del parco (dov’è possibile avvistare la foca monaca, un tempo assai diffusa ma oggi in procinto di estinguersi) sono sparsi sette villaggi abitati da un migliaio di persone, gli Imraguen. Fatti prigionieri durante le incursioni nell’interno, furono assegnati alla pesca e, nonostante in Mauritania siano state proclamate ben tre abolizioni ufficiali della schiavitù (l’ultima nel 1980), di fatto sono ancora assoggettati ai berberi del deserto. Ci fermiamo in uno di questi villaggi per pernottare, e la prima impressione è quella di un’estrema povertà fatta di capanne in lamiera completate da pareti di cartone. Brandelli di stracci sventolano alla brezza del mare, e scesi dall’auto ci assale un forte odore di pesce in putrefazione: a poche decine di metri dall’abitato marciscono numerose carcasse di squali abbandonate dopo che sono state loro asportate le pinne, richiestissime sui mercati asiatici. Ci spostiamo ai margini del villaggio, vicino a una grande tenda tipica; la nostra fermata li mette in subbuglio, raramente si vedono europei in questi paraggi. Ci accolgono con estrema cortesia e ospitalità, invitandoci per il tè, quindi invitiamo a nostra volta le donne della famiglia a visitare il camper. Restano stupite dal rubinetto e dall’illuminazione elettrica, ma letteralmente sbalordite quando offriamo loro il gelato: dopo averlo gustato con gran golosità, dichiarano di non aver mai mangiato niente di più buono. Per noi, uno dei ricordi dell’Africa che porteremo sempre nel cuore.
Al mattino si prosegue all’interno del parco fino al villaggio di Iwik, da dove una barca di pescatori ci fa trasbordare a Tidra, distante un paio di chilometri dalla costa. L’isola è diventata famosa a causa del naufragio di un vascello francese, la Méduse, che nel 1816 si arenò sui bassi fondali al largo di queste rive: delle 384 persone imbarcate solo 15 si salvarono su una zattera, arrivando a cibarsi di carne umana. La tragedia del naufragio venne immortalata in un famoso quadro del 1819 di Théodore Géricault, oggi conservato al museo del Louvre. Sull’isola non si contano i nidi di pellicani, che sono l’emblema del parco, e si vedono volatili d’ogni tipo; sulla battigia scorrazzano grandi granchi dalle formidabili chele, mentre la parte settentrionale è occupata da piante di mangrovia.
Tornati sulla terraferma ci troviamo a Mamghar, il più grande villaggio imraguen, porta d’ingresso al parco per chi proviene da sud. Qui bisogna attendere che la bassa marea scopra una striscia di sabbia tra il mare e le dune, consentendo il passaggio dei nostri veicoli. Sono circa 160 chilometri da percorrere al massimo in sei ore e quindi con soste brevissime, perché le onde che arrivano sulla spiaggia scavano sotto le gomme e può diventare assai difficile ripartire. Ma il maggior pericolo di questa straordinaria pista sono le pozze d’acqua: finché non ci si entra con le ruote non se ne conosce la profondità, e ciò significa che se vi si passa a una velocità eccessiva si rischia il ribaltamento del veicolo. Un tracciato consigliabile dunque solo a guidatori esperti di fuoristrada, ma senza dubbio un’esperienza unica.

Biblioteche millenarie
Anche questa volta tutto procede senza problemi e in circa tre ore arriviamo a Nouakchott, dove decidiamo di meritarci una confortevole sosta al Monotel Dar El Barka. La capitale della Mauritania, ex paesino dedito alla pesca, è una città sorta una cinquantina d’anni fa che non presenta alcun tipo di attrattiva: al mattino riprendiamo decisi il nostro itinerario, che ora punta verso l’interno.
La strada che passa per Akjoujt è asfaltata, ma in cattive condizioni; tratti percorribili si alternano a buche profonde che ci costringono addirittura a uscire e a percorrere un tracciato a fondo naturale. Da Atar, alla base dell’altopiano dell’Adrar, la sterrata è in condizioni non ottimali, poi la pista sale con rapidi tornanti attraverso l’impressionante paesaggio delle gole dell’Amojar: su questo passo si ammira un panorama che sembra riportare alle origini della Terra.
Finalmente siamo a Chinguetti, che l’Unesco protegge come patrimonio dell’umanità, nata come tante città della fascia del Sahel per offrire una possibilità di sosta alle carovane che trasportavano oro, avorio e schiavi verso l’Europa. Circondata da alte dune, è nata in questo luogo apparentemente inospitale perché qui sgorga un fiume sotterraneo, alimentato dalle abbondanti piogge dei mesi di luglio e agosto. Le prime notizie su questo insediamento risalgono al X secolo; per il prestigio delle sue undici moschee e delle numerose madrase, nel 1262 Chinguetti fu dichiarata la settima città santa dell’Islam. Il centro antico è in buona parte in rovina, ma custodisce una decina di biblioteche che raccolgono innumerevoli manoscritti su pergamena, libri rarissimi di poesia, matematica, astronomia e importanti testi coranici: un tesoro culturale che si è conservato fino a oggi grazie al clima molto secco. Il monumento più importante è la grande moschea in pietra, con l’antico minareto decorato da alveoli triangolari; si tratta purtroppo di uno dei rari casi in cui l’ingresso è consentito ai soli musulmani.
Tornati alla capitale imbocchiamo la Transmauritanienne, l’arteria che da Nouakchott porta a Néma dopo quasi 1.100 chilometri di strada asfaltata: li percorriamo in due giorni, incontrando lungo il percorso numerosi accampamenti di nomadi mauri con i loro armenti. Durante lo spostamento dobbiamo rinunciare a salire sull’altopiano dove si trova Oualata, altro ksar millenario: la pista, in ripida salita e notevolmente insabbiata, è troppo rischiosa per i nostri pesanti veicoli, e decidiamo a malincuore di proseguire verso Néma, dove facciamo tutti i rifornimenti e sbrighiamo le formalità per l’uscita dal paese.
Imbocchiamo un tracciato che muove verso est, nel Mali, accogliendo a bordo un militare che ci chiede un passaggio fino alla frontiera: nel territorio che ci apprestiamo ad attraversare sono avvenuti alcuni casi di banditismo e con lui ci sentiamo più al sicuro. A Léré, dopo aver passato da quasi 100 chilometri il confine con il Mali, si trova un posto di controllo ma le pratiche vere e proprie si fanno a Timbuctu, dove arriviamo dopo due giorni. La pista che ora abbiamo percorso senza difficoltà è impraticabile durante le grandi piogge, tra giugno e agosto, perché costeggia per lunghi tratti il corso del fiume Niger, in quel periodo soggetto a straripamenti.
Le origini di questa mitica città risalgono all’incirca al XII secolo, quando un gruppo di Tuareg si stabilì in quella che era una piccola oasi. Con l’aumentare dei traffici verso l’Europa, Timbuctu divenne un importante luogo di sosta delle carovane. Ne parla diffusamente anche il grande viaggiatore marocchino Ibn Battuta, che vi sostò per ben due volte nei primi anni del ‘300. Della città che per centinaia d’anni fu un miraggio per tanti viaggiatori oggi rimane poco: molti abitanti se ne vanno perché non trovano prospettive per il futuro, e anche il turismo, che ultimamente era diventato una voce importante per una parte della popolazione, si sta ridimensionando a causa delle voci di nuovi attriti fra i Tuareg e il governo centrale. Rimane indiscusso lo straordinario patrimonio di cultura conservato nelle biblioteche di questa mitica città.

Tradizioni orali
Anche la pista che collega Timbuctu e Douentza non presenta grandi difficoltà nella stagione asciutta; poi ritroviamo l’asfalto fino a Mopti, dove ci sistemiamo al campement e contattiamo il nostro amico Ibrahim Konè, che sempre ci ha accompagnato in questi territori. Mopti significa grande assembramento, e merita davvero questo appellativo. La città sorge alla confluenza del Bani con il Niger e, come le acque dei due fiumi, qui si mescolano tutte le varie etnie del paese in un caleidoscopio di colori che variano in continuazione. Anche se qualcuno la chiama la Venezia d’Africa, essendo costruita su tre gruppi di isole, Mopti non rammenta molto la nostra città lagunare; molto bella e caratteristica è la Grande Moschea, costruita in argilla grigia, che domina la parte vecchia della città.
Ed è il momento di entrare nella terra dei Dogon, che vivono a un centinaio di chilometri da Mopti presso la grande falesia di Bandiagara, lunga più di 150 chilometri e alta fino a 300 metri. Abbiamo deciso di tornarci dopo oltre vent’anni dalla nostra prima visita, quando eravamo rimasti incuriositi dalla lettura del libro Dio d’acqua dell’etnologo francese Marcel Griaule. Di buon’ora facciamo rotta su Bankass, nella parte bassa della falesia, tagliando fuori i villaggi stanziati nella parte superiore che essendo facili da raggiungere sono più turistici. La strada, in buone condizioni, si snoda tra coltivazioni di miglio e di cipolle e sembra non presentare problemi di percorribilità anche in caso di pioggia. Viaggiamo fino al pomeriggio inoltrato, poi decidiamo di fare tappa presso il villaggio di Tireli, circa a metà della lunghezza della falesia. Incuriositi dai nostri strani veicoli, gli abitanti sono molto ospitali – anche perché ormai abituati al turismo – e ci chiedono medicinali e collirio. Sul costone sopra il villaggio sono abbarbicate le vecchie costruzioni, ancora in buono stato di conservazione, che ci ripromettiamo di visitare il mattino successivo. Nel buio si intravvedono le sciabolate di luce delle torce elettriche, unica concessione alla modernità del villaggio.
Al mattino presto iniziamo a risalire la falesia. L’aria è ancora fresca, in lontananza si sente il suono prodotto dalle donne che frantumano il miglio nei mortai di legno; gli uomini e i ragazzi più grandi si avviano al lavoro nei campi mentre le ragazze prendono l’acqua dal pozzo, distante qualche centinaio di metri. Il quadro non sembra drammatico, ma non bisogna mai dimenticare che queste casupole di fango ospitano famiglie che sopravvivono con l’equivalente di un dollaro al giorno. E a me viene sempre da pensare: se ci fossi nato io?
Prima dei Dogon in questa zona vivevano i Tellem, un popolo di piccola statura che abitava in grotte scavate a grande altezza nella roccia per sfuggire agli attacchi di belve e di nemici. Le cavità furono poi utilizzate come necropoli dai Dogon, che non conoscevano la scrittura: le loro tradizioni e i complessi rituali vengono tramandati oralmente da secoli. Si usa però un sistema di segni e simboli che vengono tracciati sulle pareti dei granai, sulle porte delle capanne e principalmente nel togu na, la casa dove si riunisce il consiglio degli anziani. Tutto come un tempo, insomma, tranne le tradizioni religiose, che vedono una piccola moschea in ogni villaggio.
Lasciamo questo mondo di favola e iniziamo 140 chilometri di buona strada asfaltata che ci separano dal bivio per Djenné, un’altra meta imperdibile del Mali. La deviazione cavalca un terrapieno che termina in riva al Bani: da qui si può traghettare l’automezzo oppure essere trasportati sull’altra riva in piroga per poi raggiungere a piedi la città (tenendo presente che in questo caso si devono percorrere circa 4 chilometri). Anche Djenné è nata grazie ai commerci transahariani, ma a differenza di Timbuctu continua a prosperare e le cose da vedere sono molte: il primo posto spetta alla Grande Mosquée. Lo splendido edificio è stato ricostruito nel 1907 nello stesso luogo e sullo stesso disegno della costruzione originaria, voluta nel XIII secolo dal re Koy Konboro. Si tratta della più grande opera costruita in banco, un miscuglio di fango e paglia, e anche questa è riservata ai musulmani; la prima volta che siamo venuti, nel 1987, era aperta a tutti. Ma anche vederla da fuori è emozionante, con le belle torri di linea semplice e slanciata, irte di pali necessari per i lavori di manutenzione dopo il periodo delle piogge. Dal tetto, ricoperto di uova di struzzo, si gode una veduta completa sulla piazza che il lunedì ospita il grand marché, uno dei più pittoreschi di questa parte d’Africa. Vale la pena andare un po’ a zonzo nella città vecchia, con i vicoli che si intrecciano come in un labirinto a nascondere diverse costruzioni antiche dalle finestre colorate e intarsiate a motivi geometrici. Infine, a circa 3 chilometri da Djenné si possono visitare le rovine di Jenné-Jeno, il sito dell’originario insediamento cittadino, dove sono stati portati alla luce utensili e monili in metallo risalenti al 250 a.C.
Da qui non ci resta che puntare a sud per attraversare la Costa d’Avorio con destinazione finale Abidjan, sul Golfo di Guinea, percorrendo tutto il paese in senso longitudinale: come sempre facciamo sosta al campeggio Copacabana, in riva all’oceano. Ma questa volta ci aspetta una sorpresa: i turisti sono sempre meno e per far quadrare il bilancio i proprietari affittano i bungalow a ore, attività certamente più remunerativa. Si nota un discreto movimento, ma c’è molta attenzione a non disturbare i rari viaggiatori. Per noi, un ultimo sguardo al golfo e alle coste atlantiche; con il nostro camper, che ha deciso di prolungare un poco la vacanza, l’appuntamento è fra una ventina di giorni, quando andremo a prenderlo al porto di Genova.

Testo e foto di Andrea Pelli

PleinAir 459 – ottobre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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