Viaggiando in camicia rossa

Nel bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, ripercorriamo i luoghi cruciali della sua biografia e delle imprese che lo hanno reso un protagonista della storia d'Italia.

Indice dell'itinerario

Non è facile, nella serena Villa Pamphilj di oggi, immaginare le battaglie di un secolo e mezzo fa. Tra lecci e pini marittimi si affollano amanti del jogging, mamme con passeggini, ciclisti, coppie di fidanzati. Sul lago sostano papere e aironi, negli spazi aperti si riposa o si gioca a pallone. Ma centocinquantotto anni fa qui si è combattuto davvero, e occorre sforzarsi per immaginare i soldati francesi arrivati da Civitavecchia lungo l’Aurelia – i fanti in bianco, gli zuavi con i loro colori vivaci – andare all’assalto con la baionetta inastata verso il Gianicolo e le mura dell’Urbe. Dall’alto cercavano di fermarli a fucilate i volontari di tutta Italia accorsi a difendere la Repubblica Romana. C’erano scoppi, urla di feriti, fumo, e l’odore era quello della polvere da sparo e del sangue. Il primo assalto francese, il 30 aprile 1849, venne respinto. Il secondo, ai primi di giugno, riuscì grazie all’infamia del generale Oudinot, capo del corpo di spedizione francese, che diede l’ordine di attaccare nonostante fosse stata pattuita una tregua. In tre settimane vennero rasi al suolo il Casino dei Quattro Venti e la Villa del Vascello, caddero volontari famosi come Luciano Manara e Colomba Antonietti e centinaia di loro commilitoni sconosciuti. I francesi avanzarono, di pochi metri al giorno, verso Trastevere e il centro: alla fine di giugno Roma era di nuovo del Papa, e Garibaldi e i suoi volontari fuggivano attraverso l’Appennino.

Un uomo d’azione
Più di Quarto o Marsala, di Caprera o Teano, Roma e il Gianicolo permettono di capire molte cose su Giuseppe Garibaldi, nato esattamente due secoli fa e diventato, fra il 1848 e il 1866, l’eroe più famoso del nostro Risorgimento. Ogni città del Bel Paese ha una piazza o una via dedicate a Garibaldi, molte hanno anche una strada o un palazzo che lo hanno visto passare in carne e ossa, nelle sue peregrinazioni su e giù per lo Stivale; nella storia dell’Italia unita si sono ispirati a lui partiti politici, gruppi partigiani, associazioni di ogni tipo.
Quanto a Roma, Garibaldi la sognò, la desiderò, la difese a rischio della vita fra il 1848 e il 1849, quando la Repubblica Romana si affidò a lui. Nel 1860, alla fine della campagna dei Mille, il generale rinunciò al Lazio e alla Città Eterna per non scontrarsi di nuovo con la Francia. Nel 1867 la rivide dalle colline di Mentana, dove fu battuto da un’altra colonna francese. Poi arrivò Porta Pia.
Dopo il 1870 il Regno d’Italia, spostata la capitale nell’Urbe, consacrò al culto di Garibaldi il Gianicolo. Una decisione logica se si bada alla storia, dato che nel 1849 la collina a ovest del Tevere e del centro era servita da baluardo contro l’avanzata francese al generale e ai suoi soldati: ma la scelta ha creato un vicinato non facile. La grande statua equestre di Garibaldi, quella scapigliata e romantica di Anita con cavallo e pistole, il sacrario ai caduti del 1849, i tanti busti dei garibaldini che ornano i viali del Gianicolo (e vengono regolarmente vandalizzati dagli imbecilli) si affacciano sulla cupola di San Pietro, il simbolo di quel potere dei papi contro il quale Garibaldi combatté strenuamente per buona parte dei suoi settantacinque anni di vita. Nel suo testamento campeggia un’invettiva contro il clero cattolico, atroce nemico del genere umano .
Fra i molti pregi dell’Eroe dei Due Mondi – era persona amabile e affascinante, di trasparente onestà, che veniva ubbidita senza esitazioni e per la quale si moriva contenti ha scritto lo storico inglese Denis Mack Smith – era certamente la capacità di parlar chiaro, di mettere a nudo la sua anima. Tutto tranne che un politico, insomma. Uomo d’azione, liberatore di professione”, per dirla ancora con Mack Smith, Garibaldi è stato un idolo per socialisti e libertari dell’Europa del tardo ‘800, ed è ancora uno degli italiani più celebri nel mondo. In Sudamerica è stato poco più di un brigante, poi ha combattuto come un capo guerrigliero, e queste immagini lo hanno fatto apprezzare anche nel ‘900. A noi, sui banchi di scuola, viene presentato come un coraggioso idealista (nelle scuole cattoliche prevale un’immagine peggiore), un avventuriero convertito alla causa dell’Unità d’Italia. Ma è sottinteso, in questa versione dei fatti, che il marinaio ligure diventato soldato non avrebbe potuto fare l’Italia da solo, e che la sua generosità di rivoluzionario s’incontrò perfettamente con il genio politico, e certamente cinico, del conte Camillo Benso di Cavour.
Chi vuole approfondire questi temi ha a disposizione una vasta bibliografia nella quale andare a scoprire anche dettagli tutt’altro che trascurabili sulla vita privata di Garibaldi, ad esempio il suo amore per la natura e la terra. Il piantare e il veder crescere alberi mi sembra una grande felicità scrisse nei suoi primi giorni a Caprera. Altrettanto interessante è la cultura del nostro, che viene spesso presentato come poco più di un selvaggio: aveva invece cognizioni matematiche, astronomiche e geografiche sufficienti a un buon navigatore, e conosceva la letteratura e la storia abbastanza bene da trasformarsi due volte in maestro elementare. E’ stato insomma un personaggio più complesso di quello che normalmente sappiamo, e meriterebbe di essere conosciuto e studiato con maggiore attenzione: noi, in questo bicentenario della sua nascita, siamo andati a cercarne la memoria nei luoghi d’Italia che lo videro protagonista. Dalla Liguria alla Sicilia, da Roma alla Sardegna, dall’Emilia Romagna alla Calabria, non tutte le tessere di questo mosaico storico e geografico hanno da offrire motivi d’interesse turistico in senso stretto: alcune mete si presentano ancora integre e suggestive, altre sono state devastate dai tempi moderni e si fatica a riconoscervi i segni delle vicende di cui furono scenario. C’è poi da dire che anche là dove sono rimasti intatti nella loro forza evocativa, i monumenti dedicati all’Eroe dei Due Mondi ci sono sembrati mal tenuti, spesso in stato di degrado, quasi sempre privi di informazioni e spiegazioni in grado di renderli affascinanti per chi li visita al giorno d’oggi: dove non arriva l’entusiasmo dei volontari (ottimi esempi sono il museo di Mentana e il Capanno Garibaldi di Ravenna), sembrano abbandonati al silenzio e all’oblìo.
Quest’anno l’Italia celebra il bicentenario di Garibaldi, e fa bene. Cerimonie e convegni si affiancano a momenti simbolici come la partenza del Giro d’Italia da Caprera. Ma percorrendo i luoghi garibaldini ci sembra che tutto questo non basti: meno polvere (non solo quella fisica), più attenzione, più memoria sarebbero utili a tutti noi.

Nizza
Il difetto di non essere istruiti nella lingua e nelle cose patrie è generalissimo in Italia, ma in particolare a Nizza ov’io sono nato, ed ove pochi sanno d’esser Italiani, per motivo della vicinanza ed influenza de’ vicini Francesi . Così scriveva nelle sue Memorie lo stesso Garibaldi, nato il 4 luglio 1807 nella città che, mezzo secolo dopo, sarebbe stata ceduta dai Savoia alla Francia in cambio dell’aiuto nella seconda Guerra d’Indipendenza.
Oggi la Nissa provenzale e ligure e la Nice francese si estendono l’una accanto all’altra, e viene spontaneo cercare le atmosfere in cui crebbe il futuro patriota nei vicoli della prima. La statua che ricorda l’eroe si alza però in Place Garibaldi, crocevia della città ottocentesca. I lavori per l’ampliamento del porto, alla fine dello stesso secolo, hanno fatto sparire sia la casa natale di Giuseppe, dove la famiglia visse fino al 1814 (la ricorda una triste lapide), sia la casa Abudaram, dove abitò per altri quarant’anni. Al confine tra città antica e moderna, accanto a una caserma della Legione Straniera, sorge la chiesa di Saint Martin et Saint Augustin, la più antica parrocchia cittadina, dov’è esposta al pubblico una copia dell’atto di battesimo di Giuseppe Garibaldi. Da qui si sale alla collina del castello, ottimo belvedere sui due volti di Nizza.

Da Roma a Ravenna
Nel 1836 il giovane Garibaldi sbarcò per la prima volta in Sudamerica: ci sarebbe rimasto (combattendo specialmente in Brasile e in Uruguay) fino al 1848, quando rientrò in Italia e, nella primavera del 1849, raggiunse Roma con i suoi.
Una passeggiata fra il Gianicolo e Villa Pamphilj permette di scoprire i luoghi di quelle battaglie e molti cimeli garibaldini di Roma, inclusi la grande statua dell’eroe (Garibaldi e il suo cavallo guardano la città e voltano la schiena al Vaticano), quella di Anita e i busti dei garibaldini. Il sacrario ai caduti della Repubblica Romana è più in basso, oltre il cosiddetto Fontanone. Molte strade fra Trastevere e il colle sono dedicate agli episodi e ai caduti di quei giorni. A Villa Pamphilj un arco ha preso il posto del Casino dei Quattro Venti, distrutto negli scontri, mentre nei pressi del piccolo Museo della Villa è il monumento dedicato dal principe Doria Pamphilj ai caduti francesi. Qualche traccia di pallottole e cannonate esiste ancora tra l’ingresso del parco e Porta San Pancrazio, rifatta dopo il ritorno di Pio IX. La breccia aperta dai francesi era nei pressi di Villa Sciarra. Bisogna invece spostarsi a Piazza Venezia, nel Museo del Risorgimento ospitato all’interno del Vittoriano, per osservare dipinti e cimeli della Repubblica Romana e di altri momenti della vita di Garibaldi, inclusa la barella su cui sarebbe stato caricato all’Aspromonte nel 1862 dopo essere stato “ferito ad una gamba”, come ricorda una celebre canzoncina.
L’arrivo in Romagna fu uno dei momenti più difficili della vita di Garibaldi, che vi giunse dopo la caduta della Repubblica Romana, inseguito dagli Austriaci mentre tentava di raggiungere Venezia. Il cippo eretto nel luogo dove Anita morì il 4 agosto 1849 si raggiunge dalla statale Romea, tra il Po di Primaro e la strada per Sant’Alberto. Il Capanno Garibaldi, dove l’Eroe sostò per qualche giorno dopo la morte della moglie, si raggiunge dal capoluogo, da Marina di Ravenna e da Porto Corsini: dal 1879 la Società Conservatrice provvede alla manutenzione dell’edificio, una semplice costruzione a due piani che svolgeva anche la funzione di stalla, e lo ha sollevato di oltre un metro nel 1972 per salvarlo dalle acque.

Da Quarto al Volturno
Anche se il viaggio delle Camicie Rosse è iniziato da qui, Genova e Quarto dei Mille non sembrano amare l’Eroe dei Due Mondi. Nella scorsa primavera la Superba ha ospitato una bella mostra dedicata a Garibaldi nell’immaginario popolare, ma dopo la chiusura della rassegna è tornato il silenzio. Una grande statua di Garibaldi si affaccia verso il Mar Ligure poco a est della spiaggia di Quarto, oggi un sobborgo inglobato dall’estensione urbana a metà strada fra il centro di Genova e Nervi: dalla rotonda accanto al monumento una scalinata scende agli scogli dai quali le barche, il 4 maggio 1860, traghettarono i volontari verso il Piemonte e il Lombardo, ancorati a qualche centinaio di metri dalla riva. Sulle rocce sventolano il tricolore e la bandiera bianco-rossa di Genova, a pochi metri di distanza un baretto spara a tutto volume salsa e altre musiche latine, e non è un omaggio al rapporto di Garibaldi con il Sudamerica. Tutt’intorno, in una zona non facile da raggiungere e tantomeno comoda per sostare, l’edilizia moderna ha reso irriconoscibili le ville che ospitarono il generale e i suoi ufficiali prima dell’imbarco. Due giorni dopo la partenza da Quarto, Garibaldi e i Mille sbarcarono in Toscana, a Telamone, ex roccaforte del minuscolo Stato dei Presìdi da poco passata al Regno d’Italia. Scopo della sosta era procurarsi viveri e armi e far partire una colonna, comandata da Zambianchi, che avrebbe dovuto provocare un’insurrezione nello Stato Pontificio: il primo obiettivo venne raggiunto con uno stratagemma, il secondo no. Un vistoso monumento ricorda Garibaldi nel piccolo borgo affacciato sul porto.
La città più occidentale della Sicilia ha avuto un ruolo fondamentale nella vicenda dei Mille e dell’Eroe. Lo scalo marittimo di Marsala, dove attraccarono l’11 maggio 1860 il Piemonte e il Lombardo protetti dalle cannoniere britanniche Argus e Intrepid, è stato ampliato e trasformato. Si entra nel centro storico per la Porta Garibaldi, di architettura tardocinquecentesca, sulla quale troneggia ancora, per un’ironia della storia, lo stemma borbonico. Il centro e in particolare il Municipio, noto in città come La Loggia, hanno conservato l’aspetto di un secolo e mezzo fa. Tra le molte lapidi che ricordano Garibaldi e lo sbarco spicca quella che ricorda la cavalla bianca che qui gli venne donata, e che venne battezzata per l’appunto Marsala.
Un bel castello normanno, oggetto di un recente restauro, sorveglia Salemi, la prima città dove i Mille fecero tappa nella loro marcia verso Palermo: una lapide ai piedi delle sue mura ricorda che qui Garibaldi assunse il titolo di dittatore di Sicilia, e che Salemi fu quindi (esagerando un po’) la prima capitale d’Italia . Proprio a Salemi si unirono a Garibaldi e ai suoi i Cacciatori dell’Etna, circa duemila volontari siciliani spesso sbrigativamente indicati come “i picciotti”. La Salemi rinascimentale e barocca rivive al pianterreno dell’ex convento di Sant’Agostino, dove è stato inaugurato da poco un sorprendente museo d’arte sacra: all’ultimo piano dell’edificio, che include alcuni uffici comunali e una scuola, è il piccolo Museo del Risorgimento con quadri, documenti, giornali d’epoca e altri cimeli.
La maggioranza dei viaggiatori passa da Calatafimi solo per visitare la vicina Segesta, e invece si tratta del luogo più importante della campagna dei Mille. In questa cittadina, nel pomeriggio del 15 maggio 1860, Garibaldi pronunciò parlando con Nino Bixio il celeberrimo «Qui si fa l’Italia o si muore!». La battaglia non si combatté in paese ma sul colle detto Pianto di Romano, a nord-ovest del centro. Di fronte a un solenne panorama che abbraccia Erice, Segesta e i rilievi del Belice, si alza un imponente monumento-ossario eretto nel 1892 su progetto del palermitano Ernesto Basile: due rilievi di bronzo raffigurano lo sbarco a Marsala e la battaglia di Calatafimi, un viale bordato da cipressi conduce alla targa che ricorda la storica frase, mentre bisogna tornare in centro per vedere un busto e alcune lapidi che ricordano Garibaldi. I ruderi del castello, che si raggiungono con una breve passeggiata, offrono un altro bel panorama sul circondario.
«Nino, domani a Palermo!». Così sembra abbia detto Garibaldi a Bixio il 25 maggio a Gibilrossa, prima di iniziare la discesa verso la città. Anche se arrivava da ovest, cioè da Marsala e Salemi, Garibaldi entrò a Palermo dall’altra parte, al termine di un aggiramento per spiazzare le difese borboniche. Sul valico di Gibilrossa, raggiungibile per la strada che collega Ciaculli a Misilmeri, sorge un grande obelisco in pietra eretto nel 1882. Un viottolo porta alle panoramiche rovine del convento addossato alla diruta chiesa di Santa Maria di Gibilrossa, in cui Garibaldi pose il suo quartier generale.
All’alba del 26 maggio i garibaldini conquistarono di slancio Palermo: si combatté alla Porta di Termini, intorno a Palazzo Pretorio, ai Quattro Canti, in Via Porta Maqueda e in Piazza della Cattedrale. La Porta di Termini è stata demolita da decenni, e nel cuore della città nulla ricorda gli scontri fra i soldati borbonici e i Mille. Nella parte orientale del capoluogo siculo merita una visita il Ponte dell’Ammiraglio, oggi circondato da un giardino, che venne preso dai Carabinieri genovesi, da una compagnia guidata da Bixio (che fu ferito) e dai volontari guidati dal maggiore ungherese Túkóry. Non lontano, presso la chiesa delle Anime dei Corpi Decollati, una lapide ricorda i protagonisti dei moti del 1831 e del 1850 e i garibaldini giustiziati dai Borboni nell’aprile 1860. Numerosi cimeli, fra i quali la bandiera tricolore del Lombardo, sono nel Museo del Risorgimento in Via Gagini.
Dopo altre azioni in tutta la Sicilia e il rapido passaggio dalla Calabria alla Campania attraverso Reggio, Cosenza, Salerno e Napoli, ormai abbandonata dal re Francesco II, il 2 e 3 ottobre 1860 la battaglia sulle rive del Volturno segnò la fine dell’epopea dei Mille. I garibaldini, forti di 21.000 uomini, faticarono a battere 40.000 soldati borbonici accanto al fiume, sulle alture di Castel Morrone e di fronte a Capua. Garibaldi rischiò di cadere prigioniero, vide uccidere il suo cocchiere e uno dei cavalli della sua carrozza, diede gli ordini decisivi osservando il campo di battaglia dall’abbazia di Sant’Angelo in Formis. Ai piedi della collina, un piccolo e romantico cimitero sopravvissuto all’edilizia abusiva che ha sfigurato la zona ospita i resti dei circa cinquecento garibaldini caduti; commoventi lapidi ricordano alcuni dei soldati e degli ufficiali, spesso giovanissimi, che sacrificarono la vita per l’Italia. A Castel Morrone un altro monumento è dedicato al sacrificio di Pilade Bronzetti e dei suoi duecento uomini, assaliti da 5.000 borbonici: Garibaldi paragonò la resistenza di Bronzetti a quella di Leonida e definì Castel Morrone le Termopili d’Italia . In Campania l’epopea dei Mille vide il suo ultimo atto. A Taverna Catena S.M. il Re che marcia colle truppe del IV Corpo è incontrato dal Generale Garibaldi recita il Diario Storico del Comando in Capo del Regio Esercito Italiano. E l’Eroe che mai fu vinto faceva dono al grande Re del più bello dei reami, salutandolo sovrano di tutta la Penisola riunita commenta una lapide piazzata un secolo dopo. Secondo la tradizione il celebre incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II avvenne il 26 ottobre 1860 davanti alla Taverna Catena, nella borgata moderna di Vairano Scalo. Altre fonti lo spostano accanto al Ponte San Nicola, sulla strada che sale a Teano, dove il re trascorse la notte nel Palazzo Caracciolo. Da tempo le amministrazioni di Vairano Patenora e Teano discutono su quale dei due territori abbia ospitato la storica stretta di mano. Nel borgo dell’antica Teanum Sidicinum sono la severa cattedrale di San Clemente e un bel museo archeologico nel loggione gotico della Cavallerizza, nel Municipio è invece ospitato un piccolo Museo Garibaldino.

L’Aspromonte
Due anni dopo l’impresa dei Mille, Garibaldi tentò nuovamente di raggiungere Roma, questa volta però senza poter contare sull’approvazione del Regno d’Italia. Arrivò in Sicilia da Caprera, attraversò lo Stretto di Messina e salì nei boschi dell’Aspromonte, insieme ai suoi volontari, per aggirare l’esercito piemontese che lo attendeva a Reggio Calabria. Il 29 agosto 1862 fu attaccato dai bersaglieri e dai fanti agli ordini del generale Emilio Pallavicini: Garibaldi ordinò ai suoi uomini di non rispondere al fuoco, e fu ferito alla coscia sinistra e al piede destro. Venne adagiato sotto un faggio che tuttora si può vedere a 8 chilometri da Gambarie, centro turistico del massiccio; nei pressi dell’albero è stato eretto un mausoleo commemorativo. Un luogo dimenticato e lontano, che merita una visita per le forti emozioni che sa trasmettere.

Mentana
Accanto alle mura di questa cittadina alle porte dell’Urbe, ai piedi dell’Ara Ossario dove sono sepolti i caduti del 1867, una modesta costruzione ospita la più bella raccolta dedicata a Garibaldi in Italia. Inaugurato nel 1905 e decorato da qualche anno da una lapide di scuse per il tradimento del Gianicolo apposta da un deputato francese, il Museo Nazionale della Campagna Garibaldina dell’Agro Romano per la Liberazione di Roma vive grazie all’opera di un gruppo di appassionati coordinati da Francesco Guidotti. Statue, cimeli, quadri, fotografie, armi raccontano la spedizione del 1867 (terzo tentativo di Garibaldi per liberare Roma dal dominio pontificio) e altri periodi chiave della storia garibaldina, dal Sudamerica alla Repubblica Romana, dai Mille alla Terza Guerra d’Indipendenza. Molti visitatori si concentrano sui Remington, sugli Chassepot e sui fucili ad avancarica usati dalle varie truppe, ma ciò che più fa impressione sono le divise, con al centro le proverbiali camicie rosse donate dai reduci e dalle loro famiglie. Nelle occasioni solenni presidia il Museo la Guardia d’Onore Garibaldina, abbigliata con uniformi d’epoca.

Caprera
Nell’isola sarda, che era stata più volte suo domestico rifugio, Garibaldi si ritirò dopo il 1871. Nonostante un pizzico di retorica, il Compendio Garibaldino di Caprera è un luogo di grande suggestione, da esplorare senza il caldo e la confusione dell’estate. A poche decine di metri dal mare, pini, ginepri e cipressi in parte piantati dallo stesso Garibaldi fanno ombra a un gruppo di costruzioni imbiancate a calce, simili a una fattoria sudamericana. Un mulino ad acqua, il forno per il pane, i viottoli e i terrazzi raccontano di una vita attiva e a contatto con la natura, e lo stesso fanno gli spazi dedicati agli animali (la cavalla Marsala, compagna nelle battaglie dei Mille, fu sepolta sotto a una tamerice) e la barca utilizzata per spostarsi verso La Maddalena. Nella Casa Bianca sono quadri, armi, documenti, arredi e oggetti di vita quotidiana: oltre alla cucina, che evoca il semplice stile di vita della famiglia, prevalgono i ricordi degli ultimi anni di vita dell’Eroe nei quali furono accanto a lui la terza moglie Francesca Armosino e i loro figli Clelia e Manlio. Non mancano immagini dolorose, come la carrozzella e il letto ortopedico utilizzati da Garibaldi negli ultimi anni, quando non riusciva più a muoversi.
La tomba del generale, in granito di Caprera, è in un angolo tranquillo del giardino all’ombra di tamerici e cipressi, accanto a quella di Manlio e delle donne (prima fra tutte la figlia Rosa, morta a due anni nel 1871) che gli furono accanto negli ultimi anni. In casa, al centro di una grande stanza silenziosa, il letto su cui Garibaldi si spense in un pomeriggio della primavera inoltrata: era il 2 giugno 1882.

Pleinar 422 – settembre 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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