A casa delle fate

L' errore più grande che si possa fare arrivando in Cappadocia è pensare che in questa magica terra tutto sia stato scoperto e non esiste luogo che non sia stato indagato fin nei più reconditi ambiti. Non è così. Certo, ci si può limitare ad ammirare le evidenze più note e fotografate, insieme a centinaia di altri turisti pronti a ripartire con i loro pullman per le classiche mete balneari. Oppure si può destinare a uno dei territori più straordinariamente scenografici che la natura abbia plasmato sul nostro pianeta una visita meno frettolosa. Servono tempo e robuste scarpe da trekking, ma alla fine ne sarà valsa la pena

Indice dell'itinerario

Labirinti di roccia

È da Çiavusin che bisogna partire, piccolo villaggio nel cuore del triangolo turistico ai cui vertici stanno le più note Nevsehir, Avanos e Ürgüp. Basta sedersi ai tavoli di uno dei bar che si affacciano sulla strada polverosa con l’aria del turista curioso e aspettare: prima o poi si materializzerà dal nulla un giovane a offrirsi come guida. «Difficile», ripete a più riprese, descrivendo in un italiano stentato ma comprensibile la sua proposta d’itinerario. La valle della gola rossa e quella delle rose si estendono poco distanti, là dove indica la sua mano ossuta, e vista la sua richiesta di compenso tutto sommato irrisoria decidiamo di partire. Il sentiero lo si segue per poco, poi si svolta in mezzo a vigneti piantati ai piedi di formazioni rocciose di ogni forma e colore, su molte delle quali ci si inerpica per ammirare l’indescrivibile panorama che si gode da lassù.

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Simile a un enorme termitaio, la vallata tufacea nei pressi di Uçhisar è una cittadella perforata da buchi e gallerie utilizzati a scopo difensivo

La guida è sicura di sé, anche quando sembra che i camini di fata, come chiamano poeticamente le tipiche conformazioni rocciose, impediscano il passaggio. Il percorso si snoda lungo una delle due valli per un paio d’ore, in un’atmosfera d’incredibile emotività. Poi una sorpresa: un piccolo bar messo in piedi alla bell’e meglio all’interno di una delle decine di cavità che punteggiano questo panorama lunare. Si concretizza il miraggio di una bibita fresca e di un po’ d’ombra, il premio di tanta fatica a cui non ci si sottrae. E via di nuovo, procedendo tra vere e proprie sculture di roccia plasmate da acqua e vento nel magma bollente che una decina di milioni di anni fa aveva ricoperto l’intera regione, dopo lustri di attività esplosiva dei numerosi vulcani oggi spenti che circondano la Cappadocia.

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Un’abitazione scavata nella roccia a Zelve

Qua una sorta di condominio tufaceo, dove gli antichi abitanti avevano scavato le loro abitazioni modellandole secondo le esigenze del momento; là una chiesetta con i resti di pitture a testimoniare la vocazione sacra nel corso dei secoli; più in là ancora una stalla, dove gli animali potevano riposare dopo aver brucato quel poco che la natura ha sempre offerto da queste parti. Alla fine si rientra alla base con la consapevolezza di avere camminato per ore in un paesaggio da sogno che senza quella guida sarebbe rimasto solo un’irrealizzabile utopia. A Çiavusin, poi, restano da ammirare i ruderi di alcune chiesette rupestri tra le più antiche dell’area, da San Giovanni Battista del V secolo a quella di Niceforo Foca, sulla strada per Avanos, fino alle cinque dislocate a Güllüdere, villaggio poco distante.

Poco oltre, a Zelve, un vero e proprio museo all’aria aperta (portate con voi una torcia per garantirvi perlustrazioni sicure): tre vallate ricche di chiese affrescate scavate nel tufo in posizione davvero scenografica, tra le quali spiccano la Balıklı Kilise, chiesa dei pesci, e la Üzümlü Kilise, chiesa dell’uva, chiamate così per i soggetti dominanti dei loro dipinti murali. Ovunque si posi lo sguardo si scorgono aperture e pertugi, dietro i quali si nascondono le me- morie di una comunità che sotto quei ghirigori rocciosi aveva costruito un mondo insospettabile.

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La rotta verso il museo all’aperto di Zelve

Un paio di chilometri più in là, verso Ürgüp, ecco il villaggio di Aktepe, dal quale si parte per la Peribacalar Vadisi, la valle dei camini di fata, coni vulcanici dalle tonalità rosacee, molti dei quali coperti da una roccia più scura che nei secoli li ha difesi dall’erosione e ha permesso la loro formazione. Il colpo d’occhio, qui meglio che altrove, è eccezionale, purché si abbia l’accortezza di abbandonare le quattro ruote e vagare su e giù per le alture per farsi rapire dalla bellezza di conformazioni rocciose che a seconda del punto di vista assumono forme familiari. Suggestioni, ovviamente, a cui questo paesaggio invita come nessun altro.

Forse è per questo che li chiamano camini di fata, e la loro magia porta col pensiero ad atmosfere davvero fiabesche. E’ una sensazione che trova conferma nelle arzigogolate formazioni rocciose della vicina Pasabag, la valle dei monaci, dove spicca fra tutte la cappella di San Simeone, e in quelle della valle di Devrent, una delle più lunari, priva di chiese o abitazioni ma ricca di sculture naturali.

A pochi chilometri di distanza sorge Göreme, villaggio dalla spiccata vocazione turistica scavato in mezzo a vere e proprie torri coniche di tufo: la più famosa è quella denominata Roma Kalesi, sulla cui sommità rimangono ben visibili i resti di un antico tempio romano. Qui si viene soprattutto per il Göreme Açik Hava Müzesi, il museo all’aperto creato intorno alla collina che s’innalza nella zona periferica della cittadina, impreziosita dalla presenza di numerosissime chiese rupestri affrescate. Da non perdere, anche a costo di attendere a lungo che le numerose comitive lascino libero il passaggio, la Karanlık Kilise, la più ricca (tanto che per la visita è richiesto un biglietto supplementare), l’Elmalı Kilise, chiesa della mela, con otto cupole affrescate, e la Aziz Basil Sapeli.

Tornando verso l’abitato merita una piccola deviazione la Nazar Kilise o chiesa dell’occhio maligno, scavata al- l’interno di un cono geometricamente quasi perfetto. Per chi non ne avesse ancora abbastanza, poche decine di metri oltre la chiesetta parte una strada sterrata che conduce nella valle di Zemi, lunga poco più di cinque chilometri e interamente cosparsa di vere e proprie rughe rocciose incise nell’arenaria.

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Una veduta del borgo di Ürgüp, lungo la strada che porta a Ortahisar.

Scendendo poi verso il capoluogo Nevsehir, già a qualche chilometro di distanza l’attenzione è attirata da una specie di enorme termitaio che si erge sopra la frastagliata linea dell’orizzonte. Si tratta della Kale di Uçhisar, la cittadella perforata da buchi e gallerie in cui un tempo la comunità locale trovava difesa da eventuali attacchi nemici. Salire fino alla sua sommità oggi non è possibile, ma si sta lavorando perché questo possa avvenire in breve tempo. A Uçhi- sar si arriva anche per percorrere fino a Göreme la Güvercinlik Vadisi, la valle della piccionaia, così chiamata perché gli antichi abitatori di queste terre l’avevano crivellata di fori sulla sommità delle rocce per attirare i piccioni il cui guano era ricercatissimo come fertilizzante per i campi circostanti. È da lì che si godono alcuni dei migliori scorci sulla Kale di Uçhisar e sul paesino arroccato intorno, particolarmente scenografico soprattutto alle prime ombre della sera.

Simile, ma di dimensioni decisamente più imponenti, la Kale di Ortahisar, sulla strada che porta ad Ürgüp, alta una ventina di metri e diventata in epoca bizantina una fortezza impenetrabile. Pagato un modesto biglietto d’ingresso, si può salire fino in cima attraversando i corridoi scavati nel tufo centinaia di anni fa: da lassù si gode uno splendido panorama sulla cittadina sottostante e sulle vallate vicine, la più suggestiva dellequali è la Pancarlık Vadesi, percorribile per ampio tratto su strada sterrata con le quattro ruote. Anche qui numerose le chiese rupestri, fra le quali spiccano la Pancarlık Kilisesi e l’annesso convento ricavati all’interno di un piccolo cono vulcanico secondario e per questo affascinanti.

Meraviglie senza fine

Chi ancora non fosse pago delle bellezze naturali della regione e avesse voglia di saziarsi con altri paesaggi da sogno, può fare rotta verso sud, con meta la valle di Soganli, simile a quelle di Zelve e Göreme ma meno affollata. Anche qui l’attrazione principale è costituita dalle chiese rupestri, disseminate a decine lungo le pareti rocciose, molte delle quali conservano preziosi affreschi e decorazioni plastiche ancora intatte. Per arrivarvi si passa attraverso Mustafapasa, uno dei villaggi più affascinanti della zona anche se piuttosto decadente e, per certi versi, deludente. Un tempo insediamento greco (il nome era Sinasos), offre al visitatore numerose perle architettoniche purché si abbia la pazienza di cercarle vagando per il centro storico, oggetto in questi ultimi anni d’intensi lavori di restauro. Particolarmente belli la madrasa del XIX secolo, il monastero di San Nicola e la chiesa di Santo Stefano.

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Una via del centro di Mustafapasa, uno dei villaggi più affascinanti dell’itinerario

Ulteriore attrattiva tipica della Cappadocia sono le città sotterranee: veri e propri villaggi scavati nel sottosuolo grazie alla straordinaria malleabilità del tufo, progettati dagli abitanti per sfuggire alle devastazioni e alle scorrerie dei tanti eserciti che passarono da queste parti nel corso dei secoli. Molte di esse, pur essendo da tempo note agli studiosi, non sono state ancora esplorate; altre invece non serbano più alcun segreto e sono visitabili fin nelle più profonde viscere. Inutile precisare che chi soffre di claustrofobia è bene che se ne tenga a distanza, visto che in alcuni passaggi è necessario procedere carponi per qualche metro.

La città ipogea più nota e visitata è Derinkuyu, a sud di Nevsehir lungo la strada per Nigde, distribuita su otto livelli nei quali si succedono ambienti di ogni tipo e natura. Simile è Kaymaklı, una decina di chilometri più a nord: qui i livelli nel sottosuolo sono quattro, ma il dedalo di stanze e corridoi è sufficientemente intricato da rendere la visita davvero avvincente, purché si abbia l’accortezza di seguire i cartelli che obbligano a un itinerario prestabilito. Gli appassionati del genere non avranno che l’imbarazzo della scelta: non c’è villaggio in Cappadocia in cui ogni singola abitazione non sia collegata tramite un tunnel sotter- raneo alla fitta rete di cunicoli che attraversano questo incredibile territorio qualche metro sotto la superficie.

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La città sotterranea di Derinkuyu, distribuita su otto livelli, e quella di Kaymaklı dove una ruota di pietra fungeva da porta

Oltre a Derinkuyu e Kaymaklı sono visitabili anche le città sotterranee di Özkonak, 14 chilometri a nord di Avanos, e Tatların, nei pressi di Acigöl.

Ma le sorprese non sono finite. Una ventina di chilometri a ovest di Derinkuyu, sulla strada per Aksaray, una profonda fenditura incide la roccia: è la gola di Ihlara, chiamata un tempo Peristrema, risultato di millenni di ero- sione nel tufo del fiume Melendiz Suyu, oggi ridotto a poco più di un torrente. Lì i monaci bizantini trovarono l’am- biente ideale per insediarsi, al riparo dalle tentazioni del mondo e dall’ingordigia dei tanti briganti che all’epoca in- festavano la regione. Numerose e caratteristiche le tracce di quell’antica comunità: percorrendo a piedi (dopo aver sceso i 360 gradini che separano il fondovalle dal cancello d’ingresso, 150 metri più in alto) i 16 chilometri della go- la, è possibile imbattersi in decine di chiese rupestri, alcune decisamente diroccate, altre invece ricche di decorazioni e tracce del loro passato.

A nobilitare l’escursione è ancora una volta il paesaggio circostante, dominato dall’esuberanza di una natura che qui si fa per lunghi tratti addirittura lussureggiante. Quattro i punti di accesso, ma il più comodo parte a un paio di chilometri da Ihlara, presso l’Ihlara Vadisi Turistik Tesisleri (il locale centro turistico), dotato di ampio parcheggio. La maggior parte delle attrazioni è infatti dislocata nel giro di quattro o cinque chilometri, quelli necessari a raggiungere Belisırma. Da non perdere sarebbe anche Selime all’estremità settentrionale della gola, dove si trova un monastero rupestre di grande impatto scenografo, forse l’attrazione principale dell’intero sito. Per raggiungerlo servono altre due ore e mezzo di cammino, a cui bisogna aggiungere quelle necessarie al ritorno.

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La gola di Ihlara è il risultato di millenni di erosione del fiume Melendiz Suyu, oggi ridotto a poco più di un torrente

La prossima tappa è Kayseri, che costituisce il punto di riferimento amministrativo e organizzativo dell’intera Cappadocia. Il suo centro storico non è bello come quello di altre città della Turchia, anche se emana un certo fascino. Aromi e profumi orientali si possono annusare nel vivacissimo bazar, a ovest della cittadella fatta realizzare in nera pietra vulcanica nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano. Il peso della storia lo si può percepire nelle tombe selgiuchidi, nel vicino sito protostorico di Kanesh, diventato nel secondo millennio la capitale del più potente regno dell’Anatolia, e nel museo archeologico ricco di quelle tavolette d’argilla incise in caratteri cuneiformi che hanno permesso di ricostruire lo sviluppo della civiltà ittita. Si conclude con questa meta il nostro viaggio tra le magiche atmosfere di un paesaggio che mai come in questa occasione definire unico non è esagerato, visto che la forza delle parole di fronte a certi spettacoli si esaurisce in un muto stupore.

Vedute a colori

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Ammirare creste e pinnacoli da una mongolfiera è diventata un’opportunità alla portata anche di chi arriva in Cappadocia con un viaggio organizzato. Lo spettacolo dei palloni multicolori che si alzano a sfidare le prime luci del giorno, sopra i pinnacoli appena arrossati dall’aurora, è di quelli che rimangono dentro per sempre. Il biglietto per una traversata di un paio d’ore non è a buon mercato, ma un centinaio di euro a persona, colazione e brindisi conclusivo compresi, lo rende abbastanza accessibile.

Una volta presi gli accordi direttamente in loco (ci sono agenzie praticamente ovunque), un furgoncino passa prima dell’alba del giorno prescelto a caricare i trasvolatori e a trasferirli in un ristorante convenzionato per una frugale prima colazione. Poi via verso il campo di decollo, dove dopo qualche colpo ben assestato con i bruciatori le mongolfiere si alzano con il cestello carico di una ventina di passeggeri.

Sono due ore di pura magia, durante le quali i conduttori fanno a gara per mettere in mostra la loro bravura, sfiorandosi l’uno con l’altro o scendendo in strettissime gole a toccare gli alberi per poi schizzare a centinaia di metri d’altezza a far ammirare un panorama straordinario. Gli unici brividi sono quelli dell’atterraggio: al momento opportuno il conduttore comunica agli uomini a terra la possibile area del touchdown. A quel punto i furgoni e i fuoristrada si lanciano a tutta velocità lungo le sterrate in mezzo alle campagne in modo da anticipare l’arrivo e preparare le manovre. L’impatto è brusco, anche se il rischio di rovesciamento del cesto è minimo, ma fa parte del rito così come il brindisi conclusivo. 

Brindisi sui camini

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Novemila anni non sarebbero certo pochi per la vite da vino più antica del mondo. Una lontanissima origine che è stata teorizzata da studiosi statunitensi, secondo i quali laVitis silvestris sarebbe stata addomesticata molto probabilmente in Anatolia centrale ben settemila anni avanti Cristo. E’ la conclusione a cui è arrivato Patrick McGovern, dell’università della Pennsylvania, tra i massimi scienziati di archeologia delle piante e biologia molecolare.

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Vero o falso che sia, un viaggio enogastronomico in Cappadocia è sicuramente una prospettiva diversa per esplorare la terra dei camini delle fate, quelle incredibili formazioni rocciose che soltanto il genio della na- tura poteva creare. Attorno agli spettacolari funghi di tufo, formatisi nei millenni per l’erosione degli strati superiori di origine vulcanica, guardando ai dettagli noteremo ai loro piedi numerose vigne ad alberello, una forma di coltivazione della vite tipica dei luoghi molto caldi. Le piante sono basse affinché le foglie proteggano i grappoli quando il sole comincia a scottare. Per il passaggio dall’uva al vino – se l’ipotesi di McGovern è giusta – sarebbero comunque passati molti secoli.

In Anatolia bisognerà aspettare almeno fino al 1290 a.C., periodo a cui risale la prima recensione enologica, una tavoletta ittita in cui è scritto che “gli dèi sono tristi perché non arriva il vino di Naita e Vinasa”. E proprio dove allora sorgeva Vinasa, lungo il fiume Kizilirmak, oggi c’è Avanos, uno dei villaggi simbolo della Cappadocia.

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La millenaria cultura enologica di questo territorio è testimoniata da antichi insediamenti e dalle più recenti chiese bizantine. Nella città sotterranea di Özkonak, ad esempio, troviamo vasche di vinificazione in pietra, i cosiddetti palmenti, che furono scavati a mano come appendice di una vita comunitaria in clandestinità. Si pigiava l’uva con i piedi e il mosto colava attraverso un foro in una cisterna scavata ancora più sotto. Non erano certo pazzi a fare il vino nascosti sottoterra, ma per secoli l’area fu più volte teatro di guerra e invasioni e la popolazione locale sfruttava la friabilità della roccia per nascondersi, creando vere e proprie città decine di metri sotto il suolo grazie a una complessa ragnatela di cunicoli e grotte.

Anche i greci, che popolarono l’area fino al 1923, anno dell’avvento della Repubblica Turca di Kemal Atatürk, lasciarono interessanti eredità sulla cultura enologica della regione. Sono almeno un migliaio le chiesette rurali greco-ortodosse situate nei posti più impensabili, in piccole grotte e in rifugi scavati nelle montagne, spesso decorate e affrescate con riferimenti alla vite e al vino, bevanda sacra anche per i cristiani. E’ il caso della Üzmülü Kilise o chiesetta dell’uva, del X secolo, situata lungo un sentiero della valle rossa in un paesaggio lunare e metafisico.

Un altro esempio è nel centro del villaggio di Mustafapasa sul portale della chiesa dei santi Costantino ed Elena, interamente rivestito di grappoli colorati in bassorilievo. A pochi passi da qui, nel- l’abitato, troviamo una testimonianza dell’antico sistema di produzione del vino. Bussate alle porte della cantina Senol Sarpçilik, le cui bottiglie sono di modesta qualità, ma il complesso di vasche e cisterne di fermentazione è esemplare: sono scavate a mano nel ventre di una collinetta e riempite di mosto per caduta.

Per assaggiare un vino di qualità dobbiamo invece spingerci tra Uçhisar e la fiabesca valle di Göreme, dove la cantina Kocabag, della famiglia Erdogan, ha aperto un punto degustazione con vigneto dimostrativo. Propongono i classici della zona, dal bianco Emir ai rossi ottenuti da blend di uve Öküzgözü e Bogazkere.

In Turchia sono oltre ottocento le varietà di vino, ma le più utilizzate appena una quarantina.
Si producono 75 milioni di litri l’anno e alcuni dei vitigni più diffusi, come l’Emir (bianco) e il Dimrit (rosso), arrivano proprio da questa regione. Oggi, però, con la vitivinicoltura moderna e il successo del vino nel mondo, anche in Cappadocia sono giunti enologi francesi e vitigni internazionali, come Chardonnay, Merlot, Syrah. Potete assaggiarne qualche calice da Turasan, azienda fondata nel 1943 da un ex insegnante di matematica, Hassan Turasan, che da qualche anno con l’aiuto del suo esperto d’oltralpe produce uno Chardonnay in purezza da uve coltivate a 1.000 metri di altitudine. Lo degustiamo, fresco e profumato, nella bella sala della cantina nel villaggio di Ürgüp, insieme ad altre etichette della casa, dal rosso Kalecic Karasi al bianco Narince, ottenuti con gli omonimi vitigni turchi.

La riscoperta enologica della Cappadocia da pochi anni ha spinto molti ristoranti a rimpolpare le loro carte dei vini, prima scarne ed essenziali, se non inesistenti. Alla Vecchia Casa Greca, a Mustafapasha, al ristorante dell’albergo Alfina di Urgup, al Bizim Ev di Avanos e in tanti altri, vi serviranno piatti tipici accompagnati dalle migliori etichette turche e del territorio. Tra veri kebab di agnello o vitello, pasta fatta in casa condita con yogurt, salsa di pomodoro e tante verdure, scoprirete sapori che nascono solo all’ombra dei camini delle fate.

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