Vetusta, venusta, Venosta

Risalire il corso dell'Adige a ovest di Merano, fino alle sorgenti del fiume e al confine con l'Austria, è anzitutto una tonificante immersione nella serena natura della Valle Venosta. Ma è anche un importante viaggio nella civiltà, nel costume, nei segreti delle Alpi.

Indice dell'itinerario

Siamo appena entrati nella valle, fiancheggiata da alte montagne ma larga e soleggiata, che un grazioso paese decentrato dalla nazionale ci dà un saggio delle elevatissime qualità paesistiche e storico-culturali che guideranno il nostro itinerario. Parcines ha da offrire non solo la più alta cascata della Val Venosta (100 metri) – raggiungibile come escursione o per rotabile – ma anche la più vasta collezione esistente di macchine da scrivere. Il museo, ospitato in una nuova sede, luminosa e razionale, presenta su quattro piani una raccolta di trecento macchine dalle origini ai giorni nostri, di ogni marca e paese (altre 250 restano in magazzino!). Vi si possono ammirare l’elegante Sholes Glidden americana del 1874 con lo chassis dipinto e la singolare Salter 5 inglese del 1892. Recuperata da un U-Boote tedesco affondato c’è anche Enigma, macchina per i messaggi in codice (che gli Alleati riuscirono infine a decrittare con conseguenze decisive per la guerra sul mare). La collezione rende omaggio all’incompreso pioniere della macchina da scrivere, quel Peter Mitterhofer nato appunto a Parcines che recatosi verso il 1865 a Vienna a proporre la prima macchina (in legno) si scontrò con la miopia dei funzionari che se lo tolsero dai piedi con un premiuccio di 350 fiorini.Per riprendere la nazionale scendiamo in direzione di Rablà (si sfiora un ampio parcheggio). Al bivio occorre fermarsi presso la chiesa, a un passo dalla storica Gasthof Hanswirt, che fu locanda posseduta fin dal Cinquecento dalla stessa famiglia (fatevi mostrare l’angusto sgabuzzino del quale dovevano accontentarsi i vetturali). Avanti al ristorante si trova un segno di particolare interesse storico, la ben leggibile copia scolpita del cippo miliare di Rablà (l’originale è conservato nel museo civico di Bolzano) situata proprio nel luogo dove nel XVI secolo avvenne il ritrovamento. Non è un cippo viario come tanti: la data dell’iscrizione è il 46 d.C. Vi si legge l’orgoglio dell’imperatore Claudio di aver portato a compimento la strada che per la prima volta univa il Po al Danubio, la Via Claudia Augusta. Tra le odierne Ostiglia in Emilia e Augsburg in Baviera erano in tutto 350 miglia romane.
A Naturno, chi ha interesse alle cose del romanico, dovrebbe parcheggiare brevemente alle soglie del paese e concedersi il piacere di una visita alla piccola chiesa di San Procolo: una parte dei suoi affreschi risalirebbe circa all’ottavo secolo. Poco oltre, subito dopo il bivio per la Val Senales (vedi PleinAir n. 320), si trova sulla destra il parcheggio al servizio del castello di Juval, rinascimentale nelle forme attuali, buen retiro di Reinhold Messner che vi conserva un’ampia raccolta d’arte buddista e induista, maschere di tutto il mondo, attrezzature usate nelle sue imprese. Le visite sono possibili da Pasqua a fine giugno e da settembre a metà novembre, riservando lo scalatore gli altri periodi ai propri soggiorni. Poiché tra il parcheggio e il castello esiste un dislivello di ben 400 metri sono rari i visitatori che non si servono del servizio di pulmini (L. 5000 per la salita, 3000 la discesa, 12.000 l’ingresso al castello). Un altro scenografico maniero, non aperto al pubblico, si trova poco oltre, a Castelbello.
Il fondovalle presenta una fitta coltivazione di meli che costituisce la grande ricchezza della Venosta. Il maggior centro di questa coltura è Laces, verso il quale deviamo nell’uscire da Castelbello. In questo modo ci si immette su varianti molto meno frequentate della nazionale.
Ai margini di Laces si trova qualche spazioso parcheggio libero che semplifica la sosta in camper, mentre chi ha bisogno di fermarsi in campeggio ne trova uno in riva all’Adige. Il paese dispone di una piscina coperta. Tra le cose più importanti da vedere c’è, nella chiesa di Santo Spirito, un famoso altare di inizio Cinquecento di Jörg Lederer (chiedere le chiavi nella vicina casa di riposo), mentre un curioso edificio barocco è il cosiddetto Castello Rosso, del ‘600. Ma dagli inizi di maggio alla fine di ottobre la locale associazione turistica è prodiga di iniziative, dalla passeggiata storico-culturale alla visita ai frutteti con guida specializzata, alla festa campestre con i vigili del fuoco volontari, fino a robuste dosi di marce in montagna.Osservando le pendici dei monti che fiancheggiano la valle, è facile notare come i paesi si dispongano quasi sempre alle falde delle Alpi Venoste sul versante nord, il più soleggiato per l’esposizione a mezzogiorno e il più adatto alle colture, mentre sul più fresco versante opposto della valle si estende folta e continua la foresta di larici e abeti, preferita per camminate estive su sentieri ovunque ben segnalati. Inutile suggerire questo o quel percorso, ve ne sono per tutti i gusti e le capacità. A Laces stradine per le bici corrono in territorio pianeggiante sia verso est che verso ovest. Alla periferia del paese siamo saliti sulla funivia che superando 1100 metri di dislivello approda ai 1740 metri del villaggio di San Martino al Monte, un centinaio di abitanti. Qui si trovano alcuni dei più incredibili masi dell’Alto Adige, aggrappati a pendenze tali da consentire il pascolo solo a giovani animali capaci di mantenere l’equilibrio, giacché le mucche finirebbero col rotolare a valle. Ci siamo chiesti come fosse possibile che qualcuno accettasse condizioni di vita difficili come quelle del maso Egg o del Forra (otto e sette abitanti), che abbiamo raggiunto in tre quarti d’ora di cammino dalla stazione superiore della funivia. Ma a tutto c’è un limite: se la gente non li ha abbandonati è stato perché sono finalmente in corso i lavori della stradina che permetterà di raggiungere anche l’ultimo, il maso Egg. Intanto il completamento è ostacolato da un difficile tratto franoso dove un segnale avverte che si passa a proprio rischio e pericolo.

Su per la Val Martello
Seguendo sempre l’alternativa alla nazionale continuiamo fino al bel castello rinascimentale di Coldrano, poi volgiamo verso la laterale Val Martello. Nei paraggi del suo accesso si trova (non segnalata!) la deviazione per una visita da non tralasciare. Oltre Morter, passata una segheria, si trova un ponte sul corso del Plima. Trecento metri dopo, la deviazione a sinistra conduce per una stradina di un chilometro, appena a misura di camper, a un maso dove i custodi della chiesetta di Santo Stefano, che ci faranno da guida, permettono di parcheggiare. Si passa accanto al merlato castello di Montani, poi la chiave gira nella toppa dell’umilissima chiesetta e si dispiega il miracolo di un capolavoro, un ciclo pittorico della fine del Quattrocento. Non fate caso se, nel loro senso di giustizia, inorriditi fedeli dei secoli passati cavarono gli occhi a un torturatore di Cristo o raschiarono via – perché non potesse più andare in giro a far danno – le zampe di qualche demonio. Per la visita a Santo Stefano i custodi sono disponibili due volte al giorno, alle 13 e alle 15.
Tranne che per le auto degli escursionisti, che in certi periodi salgono numerosi fino al termine della strada, la Val Martello è un luogo quieto ancora molto dipendente dalle risorse rurali. Tra campi di fieno, qualche gruppetto di case, delle Gasthaus per turisti, ci si avvicina alle alte quote, dove il paesaggio si fa aspro, tra rocce e abeti e le acque spumeggianti del Plima che varie volte nei secoli travolsero abitati e abitanti. A quota 1850 esse sono disciplinate dalle acque turchesi di un lago destinato all’uso idroelettrico, ma la strada continua fino a superare i duemila, spegnendosi in un paio di parcheggi tra gli ultimi abeti dove trovano posto anche i camper e dove non resta che tirar fuori dalla cassapanca pedule e scarponi perché rocce e ghiacciai del Cevedale e dell’ Ortles sono a portata di gambe.
Siamo nel Parco Nazionale dello Stelvio. Un piccolo giro nell’abetaia permette di scoprire a breve distanza un pezzetto di storia del turismo, un vasto edificio color rosso cantoniero che a distanza si direbbe in ordine. Ma l’Hotel Paradiso, costruito negli anni Trenta, è da tempo abbandonato. Era un albergo di gran lusso, con camerieri in guanti gialli e una clientela che arrivava anche dal Giappone. D’inverno si saliva e si scendeva a valle, alla stazioncina ferroviaria, con slitte a cavalli. Durò solo fino al ’39, con l’arrivo della guerra. Tra il 1943 e il ’45 i tedeschi si servirono del fabbricato per controllare la selvaggia zona montana, battuta dai disertori. Così il Paradiso finì per sempre, la decadenza fu definitiva e gli ingressi vennero infine murati.
Tra le escursioni, anche impegnative e a largo raggio, alcune di portata limitata permettono di godere ampie vedute verso i ghiacciai. Per il rifugio Nino Corbi, a 2250 metri, tra andata e ritorno sono meno di due ore. Di qui, sempre per il sentiero n. 150, si può continuare in direzione dei ghiacciai del Cevedale dopo aver toccato una dismessa diga dell’Ottocento che all’epoca fece disastri; oppure puntare sul rifugio Martello, dal quale rientrare per il sentiero 37.
Ritornati alla nazionale 38, poco dopo aver lasciato sulla sinistra un supermercato con zona di sosta, appare la deviazione per il centro di Silandro, dove per trovare un parcheggio libero (fondo sterrato) basta seguire per un certo tratto i segnali dell’ufficio turistico. La cittadina è il maggior centro della Venosta e pur avendo ormai un taglio decisamente moderno si presenta a misura d’uomo e invitante con le sue vivaci strade commerciali. Segue il paese di Lasa, che ha la sua importante risorsa in montagna, nella cava di bel marmo bianco che servì anche a nobilitare la facciata della Chiesa Madre. Più avanti, ci allontaneremo ancora una volta dalla statale 38 prendendo il bivio per il Passo dello Stelvio ma seguendolo solo fino a Prato, dove si dirama una strada per Glorenza. Lungo quest’ultimo tratto, alti sulla frazioncina di Montechiaro, gli ampi resti di uno scenografico maniero.Dove la valle fa gomito
Fin qui la Val Venosta ci ha mostrato una ricchezza di castelli (ne abbiamo ricordato solo alcuni) che non ha nulla da invidiare ai paesaggi scozzesi. Ma è a Sluderno che troveremo il meglio conservato dell’Alto Adige, notevole anche per i suoi legami con la storia della valle. Basti pensare che appartiene tuttora al casato dei conti Trapp, feudatari per secoli su buona parte di questi territori. Dopo che nel 1297 i vescovi di Coira che l’avevano costruito ne furono defenestrati, il castello non cadde mai in mani ostili. Le forme attuali risalgono alla ristrutturazione che nel Cinquecento aggiunse altri corpi trasformando il castello in un’accogliente dimora rinascimentale con belle sale e logge dipinte. L’interessante visita (1° marzo – 20 novembre, L. 10.000) include una sala contenente una collezione di armature, maggiore raccolta privata d’Europa. La più antica di queste, del 1380, si distingue per un curioso naso a becco di passero.
Di qui in poi, dai circa 900 metri di Sluderno, saliremo per una ventina di chilometri fino ai 1500 metri del valico. L’enorme piano inclinato a prati di foraggio, chiamato la Muta, che dolcemente scende da Resia fin quaggiù costituisce una particolarità geologica, trattandosi del più vasto cono morenico dell’arco alpino.
A Tarces, accanto alla chiesa, si può chiedere al numero civico 16 la chiave della chiesa di San Vito (solo dieci minuti di una passeggiata da non tralasciare), che si leva dai prati con la sua sagoma di soave romanica semplicità. Fra Tarces e Malles si riconosce facilmente, più in su della strada, una massiccia casamatta in cemento, ma forse avrete già notato nei pressi di Glorenza quella in riva all’Adige e altre ne noterete più avanti. Fanno parte di una linea difensiva voluta da Mussolini, non del tutto sicuro delle intenzioni dell’amico Hitler, tantoché la singolare fortificazione venne chiamata popolarmente, come risposta alla Linea Sigfrido dei tedeschi, “Linea Nonmifido”. In pratica però non servì a nulla.
Ancora il romanico è presente con le corte cuspidi dei campanili fra le torri e le chiese del vivace abitato di Malles, costruito in declivio, dove in mancanza di adatti parcheggi un camper dovrebbe cercare di fermarsi in qualche modo all’esterno del paese.
Sul lato opposto della valle troneggia maestosa fra boschi di larici l’abbazia benedettina di Monte Maria, sorta nel Duecento ma le cui forme attuali appartengono al barocco. E’ da visitare (parcheggio in zona) anche per gli affreschi della cripta, ancora influenzati dal gusto bizantino. Curiosamente, fu proprio l’azione della potente abbazia a determinare nel Cinquecento la scomparsa dalla Val Venosta del latino, che evolutosi in lingua ladina aveva resistito fin allora. Ciò avvenne come reazione alla Riforma protestante, particolarmente ben accolta nell’adiacente Engadina svizzera, dove allora come oggi si parlava la lingua ladina. Per tagliare meglio i ponti con l’eresia, gli abati disposero che negli atti ufficiali venisse usato non più il ladino ma il tedesco, vietando contemporaneamente i matrimoni misti.
Sopra Monte Maria continua la bella strada di montagna che mentre sulla destra sale verso una stazione di impianti sciistici, dall’altro termina nella solitaria quanto incantevole valle di Slingia. Il villaggio, a quota 1700, è buon punto di partenza per escursioni di varia difficoltà.
Burgusio l’avete solo sfiorato nel salire all’abbazia, ma se trovate dove arrestare il mezzo fuori dall’abitato è il caso di far sosta per scoprire le belle case decorate da dipinti, la piazzetta con la fontana sorvegliata da un rustico San Michele, il vicino castello Fürstenberg. Poco oltre, a San Valentino alla Muta, un ospizio accoglieva in passato i viandanti che seguivano l’importante itinerario transalpino. Oggi il lago della Muta premia d’estate gli amanti della tavola a vela, mentre per chi punta sulla montagna una cabinovia sale nei mesi estivi e d’inverno agli oltre duemila metri della malga di San Valentino.
Il lago di Resia subì interventi totalmente contraddittori perché mentre quelli del secolo scorso furono indirizzati ad abbassare il livello delle acque dei due laghetti allora esistenti (per guadagnare terreno alle colture), quelli avviati nel 1939 e ripresi dopo la guerra servirono a far salire il livello di una ventina di metri (per ottenere energia elettrica).
I lavori eseguiti nell’Ottocento ebbero disastrose conseguenze nel 1855, quando precipitazioni particolarmente abbondanti fecero tracimare le acque causando ingenti danni nei paesi fino a Glorenza (lì, fuori porta Malles, è riportato sulle mura il livello di due metri e mezzo toccato dall’inondazione). Le opere idroelettriche del Novecento ebbero invece la conseguenza, non nuova ma certo dolorosa per gli abitanti, di far scomparire sotto il livello dell’acqua il vecchio abitato. Il famoso campanile quattrocentesco che spunta dalla superficie del lago di Resia è tutto ciò che oggi ricorda l’antico paese di Curon, ricostruito a breve distanza. Un percorso ciclabile corre a pochi passi dalle acque del lago.
Da Curon una strada laterale che si interna profondamente tra i monti – il che meritò ai luoghi il nome di Valle Lunga – passa tra piccoli villaggi e masi isolati in un ambiente solitario e invitante. Un parcheggio si trova al termine della strada presso l’ultimo dei villaggi, a quota 1900, in vista dei 3738 metri della Palla Bianca, la cima più alta che si affaccia sulla valle. Da qui, un’agevole camminata conduce in mezz’ora alla malga di Melago (tavola calda). Un altro rifugio, il Pio XII, si trova a quota 2542.
A Resia, nei pressi della frontiera, si trova l’unico distributore da Malles in poi. Ma basteranno poche centinaia di metri per rifornirsi in terra austriaca. Come è ben noto, anche con l’Austria le frontiere aperte a Schengen non richiedono più alcuna formalità. Prima, però, una passeggiata di un quarto d’ora per un centinaio di metri di dislivello ci condurrà alle sorgenti dell’Adige.
All’uscita di Resia, accanto alla stazione dei carabinieri, un cartello stradale porta l’indicazione di Roia. Un’ottima strada sale con alcuni tornanti nell’abetaia per poi inoltrarsi nell’incantata solitudine della Valle Roia, fino a raggiungere in sette chilometri il microscopico abitato, poco sotto i duemila. La zona è molto bella, ma non è stato soltanto questo a condurci quassù. Alla Gasthaus Bergkristall (l’unica, non si può sbagliare), hanno la chiave della chiesetta di San Nicola, le cui pareti affrescate sono un piccolo gioiello di pittura del Cinquecento.
Per tornare da Roia alla nazionale, suggeriamo di evitare la strada che prima sale a Belpiano e poi riscende nel bosco (troppo stretta): meglio ripercorrere la via dell’andata.

PleinAir 328 – novembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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