Vertiginosa Patagonia

Bellezze che lasciano di stucco, ed emozioni che fanno girare la testa: la natura estrema dell'Argentina meridionale annuncia la "fine del mondo" con un inno al paradiso.

Indice dell'itinerario

Eccolo, l’urlo di pietra. Grazie al vento dell’ovest, che per una volta ci è amico, il Cerro Torre si libera finalmente dalle nubi. Sullo sfondo di un cielo blu intenso, la più bella guglia di granito della Terra mostra le sue placche diabolicamente levigate, le sue antiche e profonde fessure, le sue cornici di neve in bilico e le incrostazioni di ghiaccio.
Alla sua destra, si alzano torri rocciose che farebbero l’orgoglio di qualunque massiccio alpino. Accanto allo slancio straordinario del Torre, però, l’Aguja Egger, la Bìfida, il Cerro Standhardt restano nulla più che vassalli. Una figura simile, dall’altra parte del sovrano, fanno il Cerro Adela e il Cerro Ñato, le cui muraglie di ghiaccio non sfigurerebbero sul Monte Rosa, sulle Ande peruviane o in Alaska.
Siamo a seicento metri o poco più: ma a questa quota, in Patagonia, si è già in alta montagna. Nella Laguna del Torre, a venti metri da noi, i blocchi caduti dal vicinissimo ghiacciaio navigano come piccoli iceberg. Alla nostra destra, i pendii della morena e le rocce del Cerro Techado Negro nascondono alla vista il Fitz Roy, l’altra vetta simbolo del grande Sud argentino.
Una corda fissa ancorata a due massi permette di superare con un passaggio acrobatico il Rio Fitz Roy, il tumultuoso emissario del lago. Da lì, uno dopo l’altro, passano gli alpinisti diretti alle pareti del Torre, che l’improvviso arrivo del bel tempo ha fatto partire in fretta e furia dalle tende. Un moschettone consente loro di assicurarsi alla corda. Gli spruzzi che inzuppano gli zaini rendono la traversata impressionante. La loro avventura sul Torre, da questo punto, dista ancora tre ore di marcia attraverso le morene e i crepacci del ghiacciaio. La mia passeggiata, invece, si conclude proprio qui. Binocolo e teleobiettivo alla mano, ho il tempo di esaminare la parete coronata, a duemila metri dal ghiacciaio, dal celebre fungo di ghiaccio dall’aria minacciosa e beffarda. Come sul Monte Bianco, sulle Tre Cime, sul K2, ogni metro di queste rocce ricorda una pagina – spesso tragica – di storia.
Le placche di granito scuro sulla destra, verso il colle della Conquista, sono state testimoni nel 1959 della morte dell’alpinista tirolese Toni Egger, spazzato via da una slavina dopo aver raggiunto per primo, insieme a Cesare Maestri, i 3.102 metri della vetta del Torre. Più in alto, sulla verticale della vetta, un puntino scuro si staglia contro la parete rossastra. E’ un compressore adatto a un cantiere stradale, abbandonato da decenni e decorato da stalattiti di ghiaccio. E’ stato lo stesso Maestri a lasciarlo lassù, nel 1970, dopo il suo clamoroso ritorno sulla cima.
Chiunque sa di montagna ha letto delle avventure dei migliori alpinisti del mondo sul Cerro Torre, sul Fitz Roy e sulle altre vette della Patagonia. In questa storia gli italiani hanno sempre svolto un ruolo di rilievo. Ma leggere delle scalate di Walter Bonatti, Cesare Maestri e compagni su queste impressionanti pareti può dare del grande Sud dell’Argentina un’immagine francamente distorta.
Accanto alle solitarie estancias nella pampa rese celebri da Bruce Chatwin, ai bizzarri personaggi di Luìs Sepúlveda, ai mari perennemente in tempesta di cui ha scritto Fernando Coloane, le grandi montagne incrostate di ghiaccio sono una delle immagini più spettacolari e autentiche della Patagonia, la terra alla fine del mondo verso la quale si dirigono viaggiatori provenienti da ogni dove.
Non si tratta di montagne sconosciute: la più alta di loro, che gli indios Tehuelche chiamavano Chaltén, la montagna che fuma , è stata dedicata nel 1834 da Charles Darwin all’amico scozzese Robert Fitz Roy, il comandante della Beagle con cui il naturalista britannico stava compiendo il suo giro intorno al mondo.Pure, per molti visitatori della pampa, il Fitz Roy e il Torre restano un’immagine remota e sfuocata, un lontano profilo di rocce che non sa parlare al cuore. Dopo aver reso omaggio agli elefanti marini della penisola Valdéz, i viaggiatori sfrecciano nei loro bus colorati sulle polverose arterie che portano al Perito Moreno, il ghiacciaio che si getta nel lago Argentino, e proseguono da El Calafate verso il Cile.
Chissà, forse è proprio colpa degli alpinisti e dei loro racconti drammatici, dei soprannomi come urlo di pietra e la montagna crudele appioppati al Cerro Torre e ai suoi vicini, delle immagini di tormente e bufere proposte da libri, televisioni e riviste. Forse, tutto questo ha fatto un po’ paura ai viaggiatori più tranquilli, tenendoli lontani dalla Patagonia delle vette.
Invece, anche se le bufere ci sono, lo spettacolo di queste montagne resta una straordinaria emozione, che può essere goduta senza particolare fatica. Il Torre e il Fitz Roy compaiono già da El Chaltén, il centro fondato nel 1985 che i suoi abitanti descrivono con orgoglio come il paese più giovane dell’Argentina . Per raggiungerne le basi bastano delle tranquille passeggiate su sentieri ben tracciati.
Se il vento si leva (e succede!) va detto che il suo impatto in fondovalle è ben diverso da quello sulle cordate impegnate in parete. Se il tempo si fa grigio e ventoso, restano affascinanti le passeggiate nei boschi di lenga (Notophagus pumilio) e di ñire (Notophagus antarctica) decorati da fiabeschi cuscini di muschio, da tronchi caduti e inghiottiti dal sottobosco, da arabeschi di rampicanti e licheni.
Se piove (e succede anche questo!) si può leggere un libro sulla Patagonia, giocare a carte o chiacchierare con i gauchos, i giovani imprenditori, i guardaparco che hanno scelto di vivere in questa landa remota. O partire alla scoperta delle estancias, le fattorie che i primi coloni scandinavi – il finlandese Ramstrøm, il norvegese Halvorsen, il danese Madsen – raggiungevano sui loro carri tirati da quattro o sei cavalli.
Quando finalmente torna il sole, per chi ha già visto il Cerro Torre, resta da seguire il sentiero verso il Fitz Roy. Un obbligo al quale chi scrive non si sottrae certamente. Dopo una notte in tenda nella valle del Rio Blanco, risalgo alle prime luci dell’alba il sassoso sentiero che conduce alla Laguna de Los Tres. Cento metri prima del lago, i massi della morena permettono di sedersi comodamente a guardare. Il tempo è finalmente splendido, la brezza che arriva dal ghiacciaio, anche se frizzante, non ha nulla della bufera patagonica. Una borraccia di tè fumante accresce l’impressione di essere seduti in poltrona.
Quando arriva, lo spettacolo dell’alba è mozzafiato. Per primo si tinge di rosso il Fitz Roy. Poi la luce dà vita alle guglie che alcuni topografi di buon senso hanno dedicato a splendidi personaggi dell’avventura: l’alpinista René Poincenot, il pilota e scrittore Antoine de Saint-Exupéry, il suo collega Henry Guillaumet, protagonista con il suo piccolo aereo di 92 trasvolate dell’Atlantico meridionale e di 393 traversate delle Ande.
Quando la luce arriva fino a noi è tempo di incamminarsi, con un po’ di rimpianto, sul sentiero che conduce verso valle. Senza distrarsi, però. Il condor può apparire da un momento all’altro nel cielo, sul sentiero bagnato incrociamo all’improvviso le impronte inconfondibili del puma.
Prima di rientrare nel bosco, mi fermo per assaggiare le aspre bacche rosse della chaura o mela di Magellano , che hanno sfamato indios, coloni e alpinisti. Più avanti, accanto al sentiero, compaiono le bacche scure del calafate, la pianta simbolo del grande Sud argentino. Mi chino, le raccolgo, le assaggio. Ora, secondo la leggenda, sono stregato anch’io. Non so quando, ma devo tornare in Patagonia.

PleinAir 368 – marzo 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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