Verde speranza

Pur tra mille contraddizioni e sotto l'evidente influenza dei costumi nordamericani, il Costa Rica affida il suo avvenire alle risorse dell'ambiente. In primo luogo al turismo "secondo natura". Siamo andati a verificare.

Indice dell'itinerario

Pura vida
Nel 1502 quando Cristoforo Colombo fece sosta durante il suo quarto e ultimo viaggio in questa zona del Centro America, aveva molte ragioni per chiamare questo lembo di terra Costa Rica: era davvero una costa ricca di acque, animali, alberi e fiori quella su cui sbarcò, al largo dell’odierno Porto Limon, sull’Atlantico, e gli indigeni che incontrò si adornavano di monili d’oro. L’attuale Costa Rica è un paese che a dispetto delle sue ridotte dimensioni – poco più del doppio della Sardegna – vanta una ricchezza, quanto a varietà di ambienti naturali e biodiversità di flora e fauna, superata solo da pochi altri posti al mondo. La ragione principale è nella sua orografia: situata nella zona tropicale, è parte della fascia di fuoco del Pacifico (vantando quindi molti vulcani attivi che hanno riversato e riversano tuttora sul territorio enormi quantità di materiale che fertilizzano il terreno rendendolo adatto pure alle coltivazioni, oltre che arricchire le già rigogliose foreste) ed è attraversata da una catena di montagne che raggiunge, nella Cordillera de Talamanca che dagli altipiani centrali si dirige verso Panamá, circa 4.000 metri col Cerro Chirripó. Tenendo conto del fatto che nel punto più stretto del paese i due oceani distano fra loro poco più di cento chilometri, si capisce bene perché nel ridotto spazio per raggiungere dal livello del mare le cime più alte si passi dalla foresta umida mista subtropicale (con alberi decidui o sempreverdi alti fino a 40 o 50 metri, con frequenti bromelie e orchidee – vedi zone come Tortuguero e Cahuita) al paramo subalpino, con foreste di sempreverdi e substrato di felci e bambù, attraverso ben dodici habitat diversi. Anche i due versanti oceanici sono ben diversi tra loro: la costa a ovest sprofonda ripida nell’acqua lasciando spazio a piccole spiagge tra le rocce, mentre a est le coste sono più basse, con maggiore deposito di materiale sedimentario ed estese aree paludose ricche di giungla e di foreste di mangrovie.
I problemi derivanti dalla deforestazione e dall’impianto di monoculture (ad esempio i bananeti, con una produzione che oggi rappresenta la seconda voce per l’esportazione dopo il caffè, ma con grandi problemi derivanti dall’uso di pesticidi, dai sacchi di plastica che proteggono la maturazione dei frutti (e che finiscono in mare) esistono anche in questo paese, come in tanti altri dove la risorsa maggiore per i residenti è lo sfruttamento delle ricchezze del suolo, ma qui un’oculata opera di salvaguardia del territorio ha fatto sì che ben il 27% sia protetto da parchi o riserve naturali.
Ampia area della Meseta Central, là dove i vulcani hanno riversato le loro ceneri fertilizzanti, sono ora occupate da coltivazioni di caffè. Sono questi chicchi neri il vero oro del paese: introdotto da Cuba agli inizi dell’Ottocento, la pianta si è perfettamente adattata al nuovo fertilissimo terreno ed è stata la base della ricchezza e, in fondo, della democrazia di questo paese. Piccoli appezzamenti di terreno, anche in zone lontane e impervie, furono assegnati a campesinos che li destinarono alla coltivazione di questo frutto e ne trassero di che vivere dignitosamente. Oggi ampie zone della Meseta Central sono occupate da campi coperti di cespugli dalle lucide foglie verde intenso che all’inizio della stagione delle piogge (da aprile a novembre) si ricoprono di fiori bianchi e poi di chicchi rossi, che vengono raccolti durante l’estate e sono in buona parte destinati all’esportazione. La relativa tranquillità economica che il paese gode fin dai tempi dell’indipendenza dalla Spagna ha portato i ticos a maturare una propensione all’ottimismo che è sintetizzata dall’espressione pura vida. E’ la risposta che più frequentemente sentirete allorquando chiederete «come va’», è il superlativo con cui indicheranno qualunque cosa ben fatta o che sia molto piacevole, è un messaggio che in fondo ha implicita una componente di generosità: «Sto benissimo, ho vita da regalare».

Ecoturismo in pratica
O siamo stati davvero fortunati, o il tour operator di Heredia cui c’eravamo affidati per la visita del Parco Nazionale del Corcovado aveva davvero capito cosa volevamo. Il viaggio in bus di linea piuttosto che con un piccolo aeroplano (e la scelta era stata proprio giusta, visto lo spettacolo goduto nel superamento della cordigliera di Talamanca con un valico sopra i 3000 metri) lo avevamo scelto noi, il lodge dove fermarci lo aveva scelto lui. Nell’area di accesso al parco, il Punta Marenco Lodge è l’unico della zona gestito a conduzione quasi familiare (i pochi abitanti delle capanne vicine partecipano ciascuno a suo modo alla gestione dell’azienda) da costaricensi; la sistemazione è in capanne piuttosto spartane, tetti di paglia e solo zanzariere per pareti, buio alle 21.30 (si stacca il generatore di corrente ma ai Tropici son già quasi quattro ore di notte), cucina locale (non è facile trovarla, dato che i cinesi hanno importato la loro e contaminata quella del posto) e che pace, che panorama di giorno e che cielo di notte!Sveglia al mattino prima delle 6, un caffè e pochi passi attorno per identificare gli uccelli. Insieme a Carlos, il nostro anfitrione, in un’ora ne contiamo 43 tipi diversi: dalle fregate ai falchi, dai colibrì agli scarlet macau, grandi pappagalli rossi che raggiungono i 30 centimetri (scelti come simbolo del lodge), al tucano che si ferma sul primo ramo per mostrarci i suoi smaglianti colori. Poi trekking nella foresta a seguire il corso del Río Blanco, lezione di botanica fra immensi mogani e svariati tipi di palme. Difficile ricordare tutto, ma indimenticabile il bagno sotto la cascata del fiume che abbiamo poi guadato per tornare alle nostre capanne, dopo una lunga passeggiata in riva all’oceano.
Questo è il tipo di turismo per cui si batte la maggior parte dei costaricensi, un turismo finalizzato non allo sfruttamento dell’ambiente, ma alla salvaguardia dello stesso usando risorse provenienti da coloro che questi ambienti vanno a conoscere e ad ammirare. Con questo tipo di ecoturismo (termine ormai persino abusato), viaggiatori che intraprendono escursioni faticose ed eccitanti verso località esotiche aiutano a conservarne la natura se le spese del loro viaggio (pagano per entrare nei parchi, per essere accompagnati da guide locali, per frequentare alberghi condotti da locali, mangiare nei ristoranti dei locali, usare i mezzi di trasporto locale) finiscono nelle tasche dei locali. Un tipo di turismo che soddisfa l’utente ed è remunerativo per gli indigeni perché, a parte ogni considerazione d’ordine morale sul valore della conservazione dei vari habitat e della biodiversità, a lungo andare rende di più che non guadagnare parecchio subito. Insomma, vale di più una tigre viva che una tigre morta.
Questo facile sillogismo è stato già recepito in paesi come il Kenya dove negli anni Settanta si accettò la proposta (lanciata già per la Tanzania dalla Wild Life Conservation Society, una società americana nata alla fine dell’Ottocento e che si occupa di educazione e ricerca) di promuovere la conservazione tramite un tipo di turismo responsabile. Fondamentale, perché lo scopo si raggiunga, è che i proventi vadano ai locali, i quali devono partecipare alla gestione di tutta l’attività e non dovrebbero mai accettare che siano stranieri ad “usare” luoghi che sono sempre stati i loro e nei quali sono sempre e comunque sopravvissuti.Fondamentale è l’istruzione: solo se si capisce il valore di quello che potrebbe scomparire, si farà di tutto per conservarlo. Da questo punto di vista il Costa Rica la sua scelta l’ha fatta cinquant’anni fa quando, repubblica democratica stabile in un’area turbolenta quale il Centroamerica, ha rinunciato alle spese militari investendo nella scuola e nell’ambiente.
C’è chi denuncia il colonialismo economico e culturale degli operatori turistici stranieri: americani, svizzeri e italiani soprattutto. E chi vede in tutto il sistema turistico locale una montatura. Per noi è stata comunque una piacevole sorpresa, a Punta Marenco, scoprire che quella capanna in riva al mare, tra palme e mangrovie, era frequentata alla mattina da sette otto bambini che vivono in quella foresta: lindi nelle loro uniformi (camicia immacolata e gonna o pantaloni blu) ascoltavano il loro maestro e a noi, che partivamo per la nostra escursione, lanciavano profonde occhiate e sorrisi. Se il futuro del Costa Rica è questo, a Punta Marenco ha già fatto un passo avanti.

Orosí, la valle del caffè
Se, come generalmente si fa, anche voi fate capo a San José e vi affidate a un’agenzia per le vostre escursioni, per una gita di un giorno vi proporranno certamente la visita alla valle di Orosí. Qui due sono le mete: la cittadina di Orosí e la diga di Chachí; coll’agenzia vedrete tutto nella stessa giornata, mentre se scegliete di usare il mezzo pubblico avrete bisogno di due giorni, in quanto le strade dopo Paraíso divergono (se viaggiate con un vostro mezzo, ricordate che le due mete sono collegate da uno sterrato praticabile). Noi abbiamo scelto il servizio pubblico – le corse si succedono frequenti – e ci siamo limitati alla visita di Orosí.Dopo una sosta a Cartago (interessanti le abitazioni coloniali, il parco cittadino che ospita le rovine di una chiesa distrutta da un terremoto nel 1910 e quella di Nostra Signora de Los Angeles, un santuario fra i più venerati del Costa Rica, l’autista, su nostra richiesta, ci ha lasciato all’altezza dell’insegna dei giardini Lankester. Solo mezzo chilometro a piedi e abbiamo raggiunto questo parco che ospita una collezione di circa 800 orchidee, bromelie, elicornie, e un arboreto con la ricostruzione di ecosistemi tipici del Costa Rica. E’ una visita da non perdere, la frequenza degli autobus vi permetterà di continuare l’escursione con comodo.La strada, che si inerpica stretta fra coltivazioni di caffè con tronchetti di jucca a far da recinzione e da barriera al vento, precipita a valle seguendo il corso di un fiume fino a scavalcarlo e a raggiungere la cittadina di Orosí, una delle poche di impianto coloniale sopravvissuta ai vari terremoti che hanno nel tempo interessato il Costa Rica. Appena in paese, fatevi lasciare all’altezza della piazza (il bus continua per Rio Macho, e il conducente, benché vi abbia fatto il biglietto, difficilmente si premurerà di segnalarvi dove smontare). Non potete sbagliare: in fondo alla piazza, incastonata come un gioiello contro lo sfondo verde di una montagna ricoperta di vegetazione lussureggiante, una magnifica chiesetta bianca alza il suo campanile e fa sentire la sua campana. Costruita da frati francescani nel 1735 in mattoni di terra cruda ricoperti di calce, si presta come scenografia di fondo per le feste popolari che si svolgono nella piazza antistante in occasione della varie ricorrenze religiose. Ricorda in qualche modo le missioni messicane, ma invece che rossa terra arsa dal sole, fiori e grandi alberi fanno qui da cornice. Se proprio volete metterci tutto, potete farvi accompagnare a visitare una finca nelle immediate vicinanze, dove potrete avere informazioni sull’intero ciclo della produzione del caffè, oppure’ una meritata sosta per una birra in uno dei piccoli bar del paese è, secondo noi, il modo migliore per concludere l’escursione prima di prendere il bus che in un’ora vi riporterà a San José.

Questione di onde
All’estremità nord-occidentale del Costa Rica (appaiono in lontananza le prime propaggini del Nicaragua) c’è una piccola località balneare dal grazioso toponimo: El Coco. Quattro case di numero, un supermercato, la posta, la banca, un albergo, alcune locande (qui chiamate cabinas) e un buon numero di ristoranti e ristorantini; alle spalle della spiaggia che si estende su entrambi i lati della baia, in mezzo alle palme, le villette dei benestanti locali. Una località dunque a nostra dimensione. Ci siamo rimasti qualche giorno ma, a parte la domenica, quando una vera folla di pendolari è arrivata con gli autobus dalla vicina città di Liberia, in giro abbiamo visto pochissima gente, benché fosse alta stagione. Ma perché quest’aria di abbandono’ C’è stata data una risposta sibillina, anzi surreale: «Qui non abbiamo l’onda giusta».
La spiegazione l’abbiamo trovata spostandoci alcuni chilometri più a sud, in un altro posto di mare che ugualmente vantava un bel toponimo: Tamarindo. Qui funzionava tutto, alberghi, ristoranti, negozietti di souvenir, tassisti rompiscatole e, a sera, il mercatino stradale: semplicemente la spiaggia, a differenza di quella di El Coco, posta in fondo a una baia, dava sul mare aperto che si infrangeva incessantemente con grandi cavalloni, paradiso dei surfisti. Da queste parti dunque l’onda giusta, quella che porta turismo, è l’onda del surf. Ci siamo così trovati a vivere una situazione davvero inedita. Non avevamo mai visto i surfisti in azione, tranne che al cinema o in tv e ne siamo rimasti sinceramente impressionati. Il popolo del surf, composto in gran parte da giovanissimi, gli stessi che in genere vediamo sbracati ai bar o sui muretti, sorprende oltretutto per l’impegno e la costanza. Già di buonora i ragazzi con tavole multicolori (e fra loro anche qualche ragazza) sono lì in fila a studiare l’oceano, facendo venire in mente il saltatore con l’asta che passa lunghi minuti immobile a concentrarsi prima di decidere il tentativo. Poi dal mare arriva un segnale che il profano non recepisce, ed eccoli lì in acqua a spingere goffamente l’attrezzo fino al punto in cui l’onda si arrotola: e inizia l’interminabile giornata.
Tu nel frattempo ti fai il caffè, una passeggiata, il bagno (da un’altra parte, dove l’acqua è meno bassa e le onde più tranquille), torni, e sono ancora lì; vai a riposare il pomeriggio, poi di nuovo in spiaggia: sembra che nemmeno si siano concessi la sosta per il pranzo. Non staccano che a sera, transitando con le tavole in spalla sulla battigia, ma alcuni irriducibili sono ancora a cavalcare le onde, pur sapendo che a queste latitudini la notte scende immediatamente. Ma non è finita. Come nella parodia del fanatico di una qualche attività, ecco che dopocena sorprendi al bar qualche baldo giovane rimirarsi la televisione: un film? L’ennesima partita di calcio di cui i locali si beano a tutte le ore del giorno? Macché, è ancora surf. Studiano le mosse dei campioni filmate chissà dove e su quale mare, o semplicemente rivedono sé stessi? Ma tanti sono gli aspetti che sorprendono per chi si avvicina a un mondo fino ad allora sconosciuto. Nel caso del surf, ecco l’automobile con le tavole impilate sul portapacchi e accuratamente protette come i nostri sci, ma c’è chi ha costruito (e forse è di serie) un attrezzo da applicare lateralmente alla moto o alla bici, e ci manca solo la terza ruota per farne uscire un singolarissimo sidecar. C’è poi, ovviamente, il noleggio: si poteva dunque affittare sul posto una tavola e andare anche noi a cercare l’onda per affrontarla non già in piedi, perlomeno sdraiati sulla pancia. Per un attimo la tentazione l’abbiamo avuta – ma siccome nessuno ci aveva pagato per far ridere l’intera spiaggia, abbiamo preferito restarcene seduti al bar, a rimirare le esibizioni dei più bravi, sorbendo nel contempo un succo di tamarindo, tanto per essere in sintonia col nome del posto.

A proposito di birrocci…
Il maggior pregio di questa straordinaria manifestazione sta forse nella sua “invisibilità” per il turista comune. Ne avevamo letto da qualche parte, e neppure ricordavamo dove, così appena sbarcati a San José ci siamo precipitati a chiederne conferma, anche in relazione alle date e quindi ai nostri programmi. Sorpresa: all’ufficio turistico più importante, quello a fianco del Museo dell’Oro, dove praticamente passano tutti, non ne sapevano niente. E sì che la sfilata dei carri si svolgeva in un sobborgo della capitale, a neppure mezzora di autobus dal centro. Ma, per l’appunto, non riguardava i turisti: difatti quella mattina (la seconda domenica di marzo per la precisione) ci siamo ritrovati in non più di sei o sette fra europei e americani, quasi un po’ a disagio con la nostra attrezzatura fotografica. La festa era tutta loro, dei ticos, come amano chiamarsi gli abitanti del Costa Rica.
Anzi, fino a circa le undici sembrava non dovesse succedere niente: la solita fiera di paese con bancarelle di gastronomia volante, e anche poca gente in giro. Poi sul palcoscenico naturale creato dalla scalinata della chiesa si sono attivati i microfoni, è arrivata un’orchestrina tipica (di quelle che a sera tampinano i turisti nei ristoranti di San José: ma qui finalmente nel contesto naturale) e poi i ballerini in costume. E finalmente, dalla curva è sbucato il primo carro.
Difficile descrivere quello cui abbiamo assistito. La sfilata è durata per ore, i pezzi (da museo, ma regolarmente su strada, almeno per due volte all’anno: un’altra manifestazione si tiene ad ottobre) contati dallo speaker quasi 150, ognuno trainato da una coppia di buoi. Il ricordo è andato immediatamente, per le decorazioni, ai carrettini siciliani, ai mitici camion afghani, ma ancor più al sopravvissuto birroccio che si può ammirare in qualche museo di civiltà contadina delle Marche. La somiglianza è impressionante, l’unica differenza essendo nel tipo di decorazione. Qui non ci sono né pupe né santi, insomma nessuna figura umana o animale, solo motivi geometrici; in più le ruote sono piene in modo da dare, girando, l’effetto caleidoscopio.
Al traino, come già detto, coppie di buoi, alcune dalle corna di lunghezza impressionante; al seguito i boyeros, con i vestiti della festa, dal sombrero ai cinturoni, alle belle camicie: e non certo per farsi fotografare dai turisti. Sul carro, poi, intere famiglie e tanti bambini. La grande radura in faccia alla chiesa si è riempita di una vera folla e le conseguenze, noi imprevidenti curiosi, le abbiamo subite all’ora di pranzo. Nei tre o quattro locali in cui erano state preparate tavole e panche, neppure un posto libero. Non restava che ripiegare sui baracchini, in piedi e sotto il sole: ci ha salvato un autentico mulino per la canna da zucchero, la cui tettoia era stata adattata a ristorante, mentre nei grandi tini di raccolta erano tenute in fresco le bibite. Il proprietario anzi, vistici unici forestieri, si è prodigato per trovarci il posto: ma la nostra presenza non ha certo inquinato l’ambiente. Dopo pranzo sono arrivati dei tizi con la chitarra e si sono messi a cantare per i fatti loro: sembrava davvero la nostra gita fuori porta.
“Per il recupero della tradizione” titolava più o meno il giornale locale, annunciando l’ennesima edizione della sfilata. Ma forse non c’era neppure bisogno di sottolineare la genuinità dell’evento, sentito dalla gente quasi come una ricorrenza religiosa, nonché privata, da cui è bene che gli estranei siano tenuti alla larga. Anche se nessuno ci ha fatto pesare la nostra presenza (ma ci siamo anche impegnati a non esagerare con le macchine fotografiche), perlomeno abbiamo capito perché nel principale punto d’incontro dei turisti a San José l’evento fosse (volutamente?) ignorato.
Se vi trovate in Costa Rica la seconda domenica di marzo, precipitatevi nella capitale e cercate l’autobus per Escazú-San Antonio; poi mescolatevi tranquillamente con la folla che è già al capolinea, ricordando che la festa è la loro e voi siete soltanto graditi ospiti.

PleinAir 330 – gennaio 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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