Valfloriana, fioriture di neve

Con le racchette da neve si parte per gite adatte a tutti, mentre nei borghi sottostanti si prepara un Carnevale le cui tradizioni sono scrupolosamente tutelate: benvenuti a Valfloriana, comune sparso a due passi dalla Val di Fiemme e ai piedi del Lagorai

Indice dell'itinerario

A Valfloriana non si passa per caso. Abbarbicate sulla sinistra orografica del torrente Avisio, le sue undici frazioni ospitano poco più di cinquecento anime, meno della metà di quante furono censite negli anni Venti del secolo scorso. Il borgo più basso, Pozza, si trova a 800 metri sul livello del mare; quello più alto, Sicina, a circa 1.200.

Nel mezzo ci sono Casatta, dove ha sede il Comune, Pradel, Barcatta, Dorà, Palù, Casanova, Valle e Montalbiano, con il centro dominato dalla parrocchiale di San Filippo Neri. Infine l’abitato di Villaggio fu costruito in località Maso del Brust per ospitare gli sfollati di Maso e di Ischiazza, borghi distrutti dalla terribile alluvione del 4 novembre del 1966.

Valfloriana conserva i vecchi masi, gli orti curatissimi, le fontane di pietra, le case talvolta affrescate e gli antichi edifici sacri. Come la chiesa di Sant’Antonio da Padova a Dorà, con il campanile protetto da scandole lignee, o l’ex chiesa di Casatta, ora sede del municipio, con affreschi attribuiti ad Albrecht Dürer o a suoi allievi.

Valfloriana: storia di un nome

Secondo alcuni il toponimo sarebbe legato al santo patrono dei pompieri, Floriano, la cui devozione è ancora particolarmente viva in Austria e in Germania; per altri l’etimologia condurrebbe ai fiori e a un’antica leggenda: una regina saggia, ma anche “buona e bella”, a seguito del maleficio di una strega si ammalò gravemente. Per spezzare l’incantesimo i suoi sudditi accettarono di essere trasfor­mati in fiori, gli stessi che allo sbocciare della primavera colorano i prati della valle.

Di certo c’è che quest’angolo poco noto del Trentino fu frequentato da uomini primitivi nel Mesolitico, come testimoniano alcuni manufatti di selce portati alla luce nei pressi di Malga Sass e di Pian dei Mirafiori. Erano cacciatori di ungulati, forse provenienti dal Feltrino o dai territori ate­sini. La valle cominciò a essere abitata stabilmente attorno all’anno Mille dai roncatores, boscaioli di origine germanica la cui emigrazione fu favorita dalle gerarchie trentine, come riportato in vari documenti del periodo compreso tra il IX e il XIII secolo. Il termine tedesco Welschflorian è presente anche in un documento del Cinquecento.

I monti della Val di Fiemme

Oggi in Valfloriana, tredicesimo comune della Val di Fiemme, è ancora sconosciuto il turismo di massa; non ci sono grandi alberghi né vie dello shopping e per la verità nemmeno campeggi. Le attività commerciali legate ai pochi visitatori si contano sulle dita di una mano: un agriturismo, un ristorante, una pizzeria e una malga funzionante solo d’estate. I paesi sono scrigni di tranquillità, semplici oasi abbracciate da boschi e da pascoli.

Da Sicina si accede al Lagorai, uno dei gruppi montuosi più selvaggi delle Alpi, un’isola di rocce di origine vulcanica circondata dalle Dolomiti che hanno natura sedimentaria. Articolata tra la Val di Fiemme a nord e la Valsugana a sud, la catena abbraccia una superficie di circa 1.375 chilometri quadrati decisamente poco antropizzati; numerosi sentieri accedono a lunghe valli boscose, a un’ottantina di laghi e a decine di vette ideali per lo scialpinismo e il trekking invernale. Cime aspre e solitarie, prive di impianti di risa­lita, se si escludono quelli dell’Alpe Cermis.

All’ombra di queste montagne, ancora selvagge e piacevolmente severe, sono nate leggende su personaggi misteriosi: dal Savanel (l’uomo delle foreste) alle Viviane (fate buone), dalle Strie (streghe) ai Cavezai (diavoli dal volto celato). E poi ci sono i Lovegati, sinistri animali dalle fattezze di lupo e di gatto, pronti a terrorizzare gli abitanti dei paesi.

In questo mondo fantastico si contano numerosi percorsi di varie lunghezze e difficoltà come la Translagorai, circa 80 chilometri fra Panarotta e Passo Rolle che si percorrono in sei tappe. Celebre è anche la gara di scialpinismo La­gorai-Cima d’Asta, organizzata per la prima volta nel 1987 grazie all’impegno della guida alpina Franco Melchiori di Strigno in Valsugana: si tratta di una competizione impe­gnativa, con oltre duemila metri di dislivello e partenza e arrivo da Malga Sorgazza nel Tesino, quando le condizioni della neve lo consentono.

Tra Le Buse, Passo di Mirafiori e Monte Cogne

Torniamo in Valfloriana; chi scrive, calzate le ciaspole, si è accontentato di raggiungere Malga Sass in località Le Buse, a 1.906 metri in un’ampia e solare radura. Se si parte da Sicina, bisogna calcolare circa un paio d’ore di facile cammino su una comoda strada forestale asfaltata, d’in­verno non pulita dalla neve. La salita, in parte nel bosco, non è mai particolarmente impegnativa, ma più o meno costante: si superano circa 660 metri di dislivello.

Sempre con le ciaspole ai piedi, se la neve è assestata e sicura, si può proseguire al Passo di Mirafiori (detto anche Passo Vasoni o la Bassa, 2.047 m; circa 45 minuti, tracciato per escursionisti esperti), compreso tra la Pala delle Buse e il Monte Cogne sulla destra.

È un posto magico, spesso battuto dal vento, che forma cornici bizzarre, modella il pendio e crea singolari onde sulla neve. Da lì, con altri venti minuti di cammino e qualche tratto ripido, si guadagna la cima di Monte Cogne, noto anche come Cimati (2.171 m). Dalla croce di vetta lo sguardo spazia dalle cuspidi del Lagorai alle Dolomiti di Brenta, all’Altopiano di Piné con il lago di Serraia incastonato circa 1200 metri più in basso, a Baselga di Piné. Più in là le nebbie della pianura.

Si torna a Sicina per lo stesso tracciato seguito in salita (circa due ore), oppure si può scendere sull’altro versante fino a Malga Vernera Alta (1.783 m), a Malga Vernera Bassa (1.661 m) e alla Baita del Monte Pat (1.520 m) dove si devia per tornare sulla strada che unisce Sicina a Malga Sass. Pur essendo una delle gite più frequentate della zona, raramente s’incontrano altri escursionisti o le loro tracce. Tra i monti del Lagorai spesso si ha la piacevole sensazione di essere lontano da tutto e da tutti, soprattutto d’inverno quando il freddo e la neve acuiscono il senso d’isolamento.

Tornati in valle ci si può concedere qualche peccato di gola all’agriturismo Fior di Bosco, costruito secondo i criteri della bioedilizia utilizzando i larici delle foreste della valle tagliati nel rispetto delle fasi lunari. Il ristorante, riscaldato da una stufa a olle, profuma di legno e di buon cibo; la struttura è gestita da Isabella, Graziano (già sin­daco della valle) e il figlio Emil.

A farla da padrone sono i piatti tradizionali, semplici, gustosi e legati ai prodotti stagionali: canederli, carne salada con i fagioli, polenta di Storo con i funghi e la salsiccia, coniglio alla trentina, tortelli di ricotta, speck e zighera della Valfloriana. Dalla singolare forma conica, quest’ultimo formaggio è fatto con vari caci a pasta dura grattugiati, ricotta, sale e pepe; il suo nome deriva dal tedesco Ziege (capra) perché in passato era fatto con latte caprino. Oggi, al Fior di Bosco, questo saporito formaggio si prepara nel rispetto di una ricetta segretissima, ereditata da nonno Pistagna.

E poi ci sono il casat affinato nel fieno biologico per circa quindici giorni, il nostrano d’inverno adatto a essere invecchiato e le sfiziose caciotte aromatizzate al timo selvatico, al peperoncino, al finocchietto di montagna o all’erba cipollina. Il latte usato è esclusivamente delle loro vacche di razza Grigio Alpina, una varietà dichiarata a rischio di estinzione e presidio Slow Food. Sono animali rustici e longevi, abituati a vivere all’a­perto anche d’inverno: Lola, la capostipite dell’allevamento, morì a ventuno anni dopo aver partorito ben sedici vitelli.

Le maschere della Valfloriana

Nevica. Tra i fiocchi ha inizio il tradizionale Carnevale di Valfloriana, uno dei più suggestivi delle Alpi. Le sue secolari origini sono legate ai cortei nuziali, che nelle località montane si celebravano perlopiù nei mesi invernali, quelli meno interessati dalle attività agricole e dalla fienagione. La mattina del Sabato Grasso i figuranti cominciano a sfilare con il volto nascosto dalle facère, tradizionali ma­schere generalmente fatte di cirmolo, un legno robusto, leggero e duttile. In Valfloriana alcuni artigiani continuano a produrle per passione e per hobby; come Remo Barcatta di Dorà, che scolpisce e dipinge nella sua soffitta rendendo ogni facèra diversa dall’altra.

Il corteo parte da Sicina, la frazione più alta. I primi a comparire sono i matoci barba: hanno sempre il volto nascosto dalla maschera e brandiscono un bastone di legno di ginepro che, contrariamente a quanto si potrebbe pen­sare, non è mai usato per intimorire i presenti. Indossano un variopinto abito decorato con nastri, coccarde e pizzi; dalla cintura pende un campanello detto bronzin.

Il loro goffo cammino è spesso interrotto dai paesani interessati a indagare, a criticare e a ironizzare su vicende private o collettive. Questo interrogatorio, detto contrèst, è irriverente, sarcastico, schietto, divertente e rigorosamente in dialetto. Per proseguire da un paese all’altro il corteo talvolta deve superare ostacoli, sbarre di legno, tavoli o altro.

Poi arrivano gli Arlecchini, con gli abiti variopinti e il cappello appuntito, dal quale pendono numerosi lunghi nastri di raso. Danzano con leggiadria, muovendo con grazia un fazzoletto colorato. Per l’abito che indossano sono i belli del corteo. Alle loro spalle seguono gli sposi: l’uomo nelle vesti della sposa e la donna in quelle dello sposo. A seguirli arrivano i suonadori con la fisarmonica e gli invitati. Le maschere bele, figure ben vestite con il volto celato, e i paiaci, che indossano facère deformi, sono i protagonisti di pungenti pantomime, ispirate agli eventi più discussi, chiacchierati e pruriginosi del paese. Il tutto con sentita partecipazione dei valligiani.

Il corteo si arricchisce anche dei coscritti; si ricono­scono dall’elegante cappello nero a falde larghe, decorato con fiori, nastri colorati e con la coda di un gallo forcello. Una curiosità: nel rispetto della tradizione, tale copricapo viene benedetto nel giorno di Santo Stefano. Lungo gli otto chilometri del tragitto i figuranti e i visitatori possono contrastare il freddo con un buona supa de orz (zuppa d’orzo), canederli, polenta, formaggi di produzione locale e vin brulé fumante preparato in grandi paioli. Il tutto ter­mina a Casatta con grostoli, frittelle e il ballo carnevalesco, che spesso si protrae fino al mattino: è così che si saluta l’inverno che volge al termine e si comincia ad aspettare l’arrivo della primavera.

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