Valdarno e Vallombrosa, tra pievi e balze

Il tratto iniziale dell’antica Via dei Sette Ponti, corrispondente al Valdarno Superiore, è segnato dalla presenza di pievi romaniche immerse in suggestivi paesaggi fra cui spiccano le singolari formazioni geologiche delle balze. E bastano pochi chilometri per salire al silenzio della foresta che avvolge l’abbazia di Vallombrosa

Indice dell'itinerario

A vederlo sulla carta geografica, sembra che il nobile Arno sia un corso d’acqua pieno di dubbi e ripensamenti. Lasciate le sue sorgenti di Capo d’Arno ai piedi del Monte Falterona, il fiume caro ai poeti fiorentini inizia deciso il suo viaggio verso sud, percorrendo tutto il Casentino fin quasi ad Arezzo. Poi, complici i severi suggerimenti della geologia, cambia decisamente idea e inizia a risalire verso nord, tracciando il fondovalle del Valdarno Superiore che separa il Pratomagno dalle colline del Chianti. Dopo l’attimo di dorata mondanità che coincide con il lento scorrere sotto gli archi di Ponte Vecchio, prende la via dell’occidente correndo lungo il Valdarno Inferiore verso i lungarni color pastello di Pisa e poi finalmente le spiagge del Tirreno.

Nel Valdarno Superiore – ma i locali lo chiamano confidenzialmente Valdarno di Sopra – non è una presenza ingombrante: se lo si osserva dalle balze e dai borghi della sua riva destra quasi non lo si nota, come fosse sperduto tra vie, autostrade, binari ad alta velocità che si concentrano in un modesto spazio pianeggiante. Se oggi le vie di comunicazione corrono tutte intrecciate l’una all’altra, i nostri antenati, che ben conoscevano le bizze e gli improvvisi cambi di portata del fiume, avevano scelto i pendii del Pratomagno per tracciare quella che sarebbe stata la loro strada più battuta.

Sorta in epoca etrusca, la Via dei Sette Ponti era nata per collegare Fiesole ad Arezzo, e anche i Romani la utilizzarono facendola divenire uno dei rami della vecchia Cassia. Ma per chi decide di seguirla oggi la Via dei Sette Ponti ha un aspetto decisamente più medioevale. Infatti, con il nome di Via Beati Petri, la sinuosa stradina fu per lungo tempo un’alternativa di grande importanza alla Via Francigena, ed era comunemente scelta da molti pellegrini diretti verso Roma. L’aspetto di oggi ricorda quell’epoca, ed è segnato profondamente da un certo numero di pievi romaniche e fortilizi che, tra Gropina e Pietrapiana, sembrano indicare le tappe fondamentali per giungere nel silenzio che avvolge la grande abbazia della foresta.

20220208_Abbazia di Vallombrosa_sentiero Paradisino

Da Gropina a Pietrapiana

Si può iniziare il breve viaggio sulle tracce dei viaggiatori del passato da due punti differenti. Venendo da sud si raggiunge la Via dei Sette Ponti – che qui risponde al nome un po’ meno evocativo di SP1 – salendo da Laterina fino a Castiglion Fibocchi. Dal paese, una deviazione di qualche chilometro verso Arezzo porta al romanico e imponente Ponte a Buriano, ancora oggi percorso da una carrozzabile, che della nostra strada medioevale è l’opera più solenne.

20220208_Pieve di Gropina

Se invece si decide di salire verso nord, una dozzina di chilometri segnati da curve e forre conducono dai pendii del Pratomagno alle poche costruzioni di Gropina. Fra le case color pietra spicca la sagoma della torre campanaria della pieve dedicata a San Pietro, fondata intorno all’anno Mille. All’interno tre navate riservano notevoli sorprese: i capitelli sono istoriati e ricordano l’arte di Provenza, mentre l’abside è sorretto da una serie di esili colonne. Il pulpito è ricoperto di bassorilievi e sotto il transetto si trova una piccola cripta che venne costruita sui resti di un antico tempio.

20220208_Pieve di Gropina

Ripresa la via e superata Loro Ciuffenna, è il momento di scoprire uno degli aspetti naturalistici più interessanti del Valdarno: le balze. Queste singolari formazioni geologiche hanno una storia molto antica, giacché nel corso del Pliocene (cioè tra 5,3 e 2,5 milioni di anni fa) l’intera zona era divenuta un grandioso lago che poi, nell’arco di un paio di milioni d’anni, venne lentamente riempito da sabbia, argilla e ciottoli portati a valle da torrenti e fiumi. Completamente prosciugato, l’antico bacino si presentava come un immenso tavolato pianeggiante di argilla e sabbia, che poco a poco venne scavato nuovamente dai corsi dei torrenti che scendevano verso l’Arno, abbassatosi molto di livello.

Durante questo processo nacquero le balze così come le possiamo vedere oggi: rupi, speroni e creste che si alternano a brevi tratti abitati e coltivati, vallate e pendii ripidi e selvaggi. Due le possibilità più semplici per apprezzarne il paesaggio spettacolare e inaspettato. Il primo è quello della SP6, che lascia in discesa il piccolo centro di Montemarciano e cala decisa verso il fondovalle per poi svoltare a sinistra e dirigersi nella frazione di Penna. Percorrendolo si gode di numerosi scorci sulle vallate chiuse dalle piramidi di argilla e si può decidere di affrontare brevi passeggiate per avvicinarsi alle formazioni geologiche.

20220208_San Salvatore a Soffena

 Castelfranco di Sopra

Chi ha più tempo può invece affrontare la facile passeggiata che parte da Castelfranco di Sopra, alle spalle dell’ufficio postale a poche decine di metri dal centro. Una discesa sterrata, che diviene abbastanza ripida, conduce a un bivio sulla destra dove, seguendo i segni bianchi e rossi del CAI (segnavia 51), si può iniziare a percorrere il sentiero. Si entra così in un piccolo canyon ai piedi delle balze che costeggia un corso d’acqua fino a raggiungere una sterrata che va seguita verso sinistra: questo tratto è uno dei più affascinanti dell’intero comprensorio.

Si arriva a un bivio dove una deviazione del sentiero risale verso le poche case di Piantravigne, mentre a destra prosegue in direzione dell’Acqua Zolfina, una sorgente di acque sulfuree. Poco alla volta il tracciato diviene uno stradello campestre, e passando vicino a un ristorante sale fino a raggiungere di nuovo l’asfalto della Via dei Sette Ponti, a poca distanza dalla pieve di San Salvatore a Soffena e dal centro di Castelfranco. Quasi isolata in mezzo a un moderno bivio, la chiesa nacque nel Quattrocento per iniziativa dei monaci di Vallombrosa, per poi essere soppressa nel 1776 e divenire parte di una grande casa colonica. Dichiarata monumento nazionale, è stata completamente restaurata insieme ai resti del monastero. All’interno alcuni affreschi illustrano episodi della vita di San Giovanni Gualberto, fondatore di Vallombrosa, realizzati da Bicci di Lorenzo.

20220208_Pieve Santa Maria Piandisco

Pian di Scò

Un altro tratto di strada, le cui curve e l’andamento quasi pianeggiante fanno la gioia di ciclisti e motociclisti, porta fino alle case di Pian di Scò dove, poco fuori dal centro, merita una sosta la pieve di Santa Maria. Citata per la prima volta in un documento risalente al 1008, presenta una facciata ad arcate cieche sulla quale si aprono due monofore, mentre l’interno si articola su tre navate e conserva alcuni capitelli scolpiti e un affresco della Madonna con Bambino. Appena si entra a Reggello, un bivio che si dirige a sinistra conduce verso la più impressionante e maestosa chiesa della zona: quella dedicata a San Pietro nella frazione di Cascia.

Di fondazione antichissima, la pieve del IV secolo venne ricostruita in grande stile su resti etruschi grazie all’impegno di Matilde di Canossa e consacrata nel 1073. Sulla piazza si affaccia un grande portico che, insieme al campanile dell’VIII secolo, con i raggi del sole calante sembra divenire color rosso fuoco. L’interno è maestoso, con i capitelli decorati tutti da ammirare e studiare: ad esempio quello della quinta colonna a destra raffigura quattro misteriosi cavalieri, due dei quali sono accompagnati da un bambino. Sull’interpretazione delle immagini scolpite spesso le valutazioni degli storici sono differenti: rimangono comunque spettacolari opere d’arte del romanico toscano. Alle spalle della pieve si trova il piccolo e affascinante Museo Masaccio, che tra le altre opere custodisce il Trittico di San Giovenale la cui attribuzione al grande pittore venne accertata solo durante i restauri degli anni Sessanta del secolo scorso.

Prima di voltare decisamente verso il Pratomagno, cioè salire in direzione di Vallombrosa, ancora una chiesa merita una sosta. A Pietrapiana, seguendo verso valle la corta Via di Sant’Agata, si raggiunge la pieve omonima ad Arfoli, fondata anch’essa per volere di Matilde di Canossa. La prima citazione risale al 1274, e nel corso dei secoli la struttura, romanica in origine, venne modificata più volte. All’interno si conservano frammenti di bassorilievi con decorazioni geometriche e raffigurazioni stilizzate di uccelli.

Nel cuore del Chianti

Sulla sponda opposta dell’Arno, di fronte alle balze che scendono dal Pratomagno, il paesaggio cambia velocemente trasformandosi nel sinuoso dedalo di colline. Le vigne non mancano sulle pendici del Valdarno, ma una puntata nel Chianti può essere una buona occasione per mescolare piacevolmente turismo, gastronomia e, perché no, enologia.

Il cuore di Greve è la piazza triangolare che fin dal Medioevo ospitava un grande mercato agricolo, reso celebre dal profumo d’uva e di mosto e dall’odore invitante delle specialità di maiale e cinghiale, da mangiare con il pane senza sale. Siamo in uno dei luoghi più significativi dell’area del Chianti Classico, dove il vino regna incontrastato. A esso è dedicato un museo (Piazza Tirinnanzi, tel. 055 8546275) voluto da uno dei più celebri negozianti di delizie della zona: l’Antica Macelleria Falorni (Piazza Matteotti 71, tel. 055 853029, www.falorni.it). Attorno a Greve non mancano di certo le occasioni per gite e passeggiate: l’antico borgo di Montefioralle, Panzano con la sua pieve, il castello di Vicchiomaggio, splendido sulla cima del suo poggio isolato, e quello di Mugnana.
Ufficio turistico, Piazza Giacomo Matteotti, tel. 055 8546299, info@turismo.greveinchianti.eu.

20220208_Greve in Chianti_salami_Antica Macelleria Falorni_

Lasciando alle spalle Pietrapiana e la strada medioevale che continua a serpeggiare verso nord, la salita per Vallombrosa diviene ripida e a tratti panoramica. La catena del Pratomagno (sulle cui gobbe ci conduce la SP85 di Vallombrosa) è la dorsale che separa il Valdarno dal Casentino e la sua vetta più alta è la Croce di Pratomagno, che sfiora i 1.600 metri. Di questa montagna dolce sono caratteristici gli ampi pratoni e le forme arrotondate, così come le imponenti foreste in buona parte dovute all’opera secolare dei monaci. Istituita nel 1973, la Riserva Naturale Statale di Vallombrosa tutela un’area di 1.270 ettari, composta da una foresta in buona parte di abete bianco e di faggio, che copre l’intero versante della montagna del Pratomagno tra i 550 e i 1.350 metri di quota. Nel 1866 qui venne fondato il primo istituto forestale d’Italia che si è impegnato nel rimboschimento della zona e da cui deriva la facoltà di Agraria dell’Università di Firenze.

Seguendo la salita si raggiunge per prima la frazione di Saltino che, anche se può sembrare un po’ sonnolenta e fuori dal mondo, è in realtà figlia di un grande passato. Era ben nota nei primi anni del Novecento, grazie alla costruzione dell’innovativa ferrovia a cremagliera che la collegava alla stazione di Sant’Ellero, sulla linea Firenze-Roma. Prima della soppressione della strada ferrata, avvenuta nel 1924, Saltino fu un buen retiro estivo – come testimoniano le sue villette liberty e lo splendido albergo Croce di Savoia – e ospitò personaggi famosi tra cui D’Annunzio. Affacciandosi verso il fondovalle, da Piazza Roma si gode uno splendido panorama sul Valdarno e Firenze che fece scrivere al poeta: “… tutta la valle ondulata nella sua corona di monti cerulei ha un’apparenza magica, ha il carattere d’una visione mistica. Un vapore tenue vi si diffonde e le ombre delle nubi vi divengono indicibilmente molli. Le case bianche, le città lontane, le strade tortuose formano una specie di sogno luminoso. Il ciglio del poggio più vicino è reale, esistente, nettamente disegnato; ma tutto il resto, a contrasto, è irreale, inesistente, magico”.

Dalle atmosfere rétro di Saltino, ormai pochi minuti in camper o una mezz’oretta a piedi ci separano dalla meta: l’abbazia di Vallombrosa. La nascita della congregazione vallombrosana è dovuta a Giovanni Gualberto, in origine un monaco benedettino che nell’isolamento più totale della natura decise di tentare la fusione tra due ideali differenti: la vita conventuale benedettina e l’eremitismo di origine orientale. Fondata attorno all’anno Mille, l’abbazia venne consacrata nuovamente nel 1058 e nei decenni successivi, grazie anche alla benevolenza della Gran Contessa Matilde che divenne proprietaria di quasi tutto il Pratomagno.

In seguito alla crescita della comunità monastica, una nuova costruzione venne completata nel 1230 (l’attuale campanile è di quell’epoca), anche se in buona parte l’aspetto odierno è dovuto a un rifacimento seicentesco. Nella solenne penombra della chiesa si conservano quadri e affreschi che ricordano le tappe della lunga storia del monastero, dove sono spesso in programma concerti d’organo e di canto gregoriano.

L’interno comprende il chiostro della Meridiana d’impianto quattrocentesco, sul quale affaccia il refettorio, mentre nella cucina spicca un monumentale camino esagonale di fine Settecento. Interessante è la visita della farmacia dei monaci, dove sono in vendita i prodotti (alimentari, medicinali e cosmetici) realizzati in parte dai religiosi e in parte da ditte specializzate che utilizzano le ricette tradizionali.

20220208_Prodotti realizzati dai monaci di Vallombrosa secondo ricette tradizionali

Partendo dall’ampio specchio d’acqua della peschiera che si trova davanti alla facciata, un percorso devozionale conduce fino al Paradisino, antico eremo isolato che riserva uno splendido panorama ed è attualmente la sede estiva della facoltà di Agraria di Firenze. Su una delle pareti una targa ricorda lo scrittore John Milton che qui soggiornò nel 1638 e citò Vallombrosa nelle pagine del suo Paradiso perduto. “Si fermò chiamando le sue legioni, quelle forme d’angelo che giacevano là stupefatte, fitte come le foglie dell’Autunno che in Vallombrosa ricopre i ruscelli dove le ombre etrusche si addensano in archi solenni…”.

Chi non ha esaurito la voglia di passeggiare potrà proseguire per circa un’ora nel silenzio e nell’ombra fitta del bosco fino alla vetta del Monte Secchieta, dove si trova un rifugio. Per dirigersi verso le propaggini della foresta si può proseguire con il veicolo verso San Miniato in Alpe o il Valico della Consuma, cioè il passo oltre il quale ci si avvicina ancora di più alle sorgenti dell’Arno. Il fiume che è stato il nostro compagno di viaggio e di cui Dante Alighieri scrisse con rispetto: “Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona / e cento miglia di corso nol sazia”.

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