Vacanze primitive

Intorno al Lago di Ledro, a un tiro di schioppo dall'Alto Garda, basta percorrere una decina di chilometri per passare dai villaggi su palafitte della preistoria ai ricordi garibaldini della Terza Guerra d'Indipendenza. E poi si va a scoprire la remota Valle di Concei, dove vanno a spasso non solo gli escursionisti ma anche gli orsi.

Indice dell'itinerario

Se la passavano bene, gli antichissimi abitanti della Valle di Ledro. A 650 metri di quota, in una conca riparata da alte montagne boscose e protetta da una stretta forra contro eventuali invasori provenienti dal Garda, avevano a disposizione legname, pesce e selvaggina, e anche campi da coltivare nelle zone pianeggianti a ovest del lago. Ogni tanto qualche orso tentava di sottrarre una pecora o un po’ di granoturco, ma questa è una cosa che può accadere anche ai nostri giorni. E proprio oggi, tre o quattromila anni dopo, uno dei siti archeologici più sorprendenti delle Alpi attende chi sale verso la valle dalla sponda trentina del Garda. Superati ripidi tornanti e un lungo tunnel, dopo l’abitato di Molina di Ledro ci si affaccia sulla sponda orientale del piccolo bacino le cui acque, durante la bella stagione, sono punteggiate da vele, imbarcazioni di pescatori, canoe. Sulla sinistra, all’inizio della strada che aggira il lago, si trovano i resti di un villaggio su palafitte che fu abitato tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, più o meno duemila anni prima di Cristo: una di quelle antiche abitazioni è stata ricostruita, e offre un’immagine suggestiva e famosa.
Gli archeologi di molti paesi europei studiano da un secolo e mezzo questo tipo di insediamento e i costumi di coloro che vi abitavano. Il primo nucleo del genere tornò alla luce in Svizzera nell’inverno fra il 1853 e il 1854, quando un abbassamento di livello di alcuni laghi fece affiorare numerosi “campi di pali”. Ferdinand Keller fu il primo a descrivere queste strutture, paragonandole a quelle citate da Erodoto nelle Storie e ai villaggi moderni della Nuova Guinea che qualche anno prima avevano suscitato l’interesse dell’esploratore francese Dumont d’Urville. Più tardi, le scoperte effettuate sulle rive del Lago di Neuchâtel e a Egolzwil ancora in Svizzera, a La Motte-aux-Magnins in Francia e a Kempfenhausen e in altri siti in Germania rivelarono una realtà più complessa, che la dendrocronologia (il sistema di datazione basato sugli anelli di accrescimento dei tronchi d’albero) ha permesso di comprendere ancora meglio: oggi gli archeologi sanno che non tutti i villaggi palafitticoli sorgevano direttamente sull’acqua, e che le caratteristiche costruttive potevano variare dall’uno all’altro.
In Italia le prime palafitte furono scoperte nel 1860 nei pressi di Arona, in Piemonte, e insieme alle costruzioni emerse una piroga intagliata nel legno. I resti dell’insediamento di Molina di Ledro, invece, sono stati scoperti nel 1929, quando il livello del lago venne abbassato per permettere la costruzione della centrale idroelettrica di Riva del Garda: accanto alla sponda, in quell’occasione, affiorò una selva di oltre 10.000 pali. La gente del posto ne conosceva già l’esistenza ma pensava che si trattasse di una vecchia diga, mentre agli archeologi bastò un’occhiata per capire che si trattava di uno dei più grandi insediamenti preistorici scoperti fino ad allora in Europa. Nel corso degli scavi furono rinvenuti vasi, punte di freccia, pesi, pugnali, aghi in osso e un diadema in bronzo, ma anche un tavolato di circa 16 metri quadrati che costituiva probabilmente il pavimento di una capanna. Poi le acque vennero fatte risalire e ricoprirono nuovamente l’area; lo studio del sito riprese però nel 1936 e di nuovo nel dopoguerra, prima a cura dell’Università e della Sovrintendenza di Padova, in seguito del Museo Tridentino di Scienze Naturali.
Oggi il Museo delle Palafitte del Lago di Ledro, sezione territoriale del Museo Tridentino, affianca alla ricca esposizione di reperti una terrazza affacciata sullo specchio d’acqua e le ricostruzioni di quattro capanne. Una di queste, a pochi metri dalla riva, offre ai visitatori un’idea di come dovevano essere le costruzioni dell’epoca, mentre le altre vengono utilizzate per attività didattiche e rievocazioni della vita quotidiana nell’era preistorica. Sotto lo sguardo dello Sciamano, guidati dallo Spirito della Preistoria, si può imparare a lavorare l’argilla, a intrecciare un cesto, a costruire arco e frecce, a filare e a tessere il lino, a macinare e impastare il grano per farne un pane speciale. Dopo il tramonto vengono invece organizzati concerti, recital di prosa, spettacoli di danza e percorsi nel bosco, il tutto accompagnato da una tazza di tisana primitiva. E c’è spazio anche per chi si vuole cimentare in sport antidiluviani come la canoa, il tiro con l’arco e il taglio del legname con l’ascia.

Storie di guerra
All’estremità opposta del bacino una lapide, alcuni monumenti e il nome di una piazza ricordano una pagina di storia molto più recente. Dal piccolo borgo di Bezzecca, all’imbocco della Valle di Concei, è stato spedito uno dei telegrammi più celebri della storia d’Italia. Era il 9 agosto del 1866 e Giuseppe Garibaldi, alla testa dei suoi volontari, stava infliggendo una serie di sconfitte agli austro-ungarici. Dopo la vittoriosa battaglia di Bezzecca il generale si era riposato a Creto, poi aveva iniziato a preparare l’attacco alle postazioni imperiali di Lardaro, sulla strada verso Tione e Stenico. Il 23 luglio il generale Medici, intanto, aveva sbaragliato le truppe di Francesco Giuseppe a Borgo Valsugana e a Levico, e si preparava a muovere verso Trento da est. L’esito della Terza Guerra d’Indipendenza, però, non sarebbe stato deciso da quelle vittorie, ma dalla politica e dalle sorti altalenanti del conflitto sui diversi fronti. All’inizio di luglio l’esercito prussiano aveva sconfitto quello austriaco a Sadowa, ma poco dopo la marina imperiale aveva umiliato quella italiana a Lissa; e mentre Vienna temeva un’invasione tedesca i generali italiani, battuti all’inizio della guerra a Custoza, non se la sentivano di attaccare. E così, quando la corona d’Asburgo-Lorena propose la pace in cambio della cessione all’Italia del Veneto, di Mantova e di una parte del Friuli, Vittorio Emanuele II accettò senza indugio. In quel 9 di agosto, perciò, il generale La Marmora ordinò a Garibaldi di lasciare il Trentino (che avrebbe dovuto aspettare altri cinquantadue anni e la fine di una guerra molto più sanguinosa) e l’Eroe dei Due Mondi, con grande stile e grandissima disciplina, rispose con il famoso “Obbedisco”.
Fu anche grazie alla campagna garibaldina in Trentino che nacque il corpo degli Alpini: impressionati dalla capacità di manovra delle truppe di montagna tirolesi, i comandi italiani decisero di creare dei reparti analoghi, che si sarebbero poi scontrati con l’esercito di Vienna durante la Grande Guerra in questi stessi luoghi. Oggi al centro di Bezzecca si apre Piazza Obbedisco, e sul colle di Santo Stefano, che domina il paese e l’imbocco della Valle di Concei, s’incontrano cimeli della battaglia del 1866 e tracce degli scontri del ’15-18. Oltre ai resti dei garibaldini caduti, nella chiesa-sacrario sono conservati fucili ed elmetti appartenuti ai fanti di mezzo secolo dopo. Per salire verso la collina, oltre a un sentiero a zigzag, si può attraversare una grande grotta artificiale scavata dai genieri della Prima Guerra Mondiale.

Naturalmente nascosta
Se Ledro e Bezzecca sono mete conosciute, ben pochi turisti frequentano la Valle di Concei, dove le carrarecce e i sentieri che iniziano da Enguiso e da Lenzumo salgono verso le vette del Cadria, del Corno del Guì e della Mazza di Pichea. I sentieri che raggiungono le creste sono abbastanza lunghi, ma una passeggiata più breve conduce ai 1.600 metri del Rifugio Pernici, accogliente struttura della Società degli Alpinisti Tridentini affacciata sul versante del Garda. Da qui, oltre agli escursionisti di giornata, passano i trekker impegnati sul Sentiero della Pace, l’itinerario di oltre 450 chilometri che segue il fronte della Grande Guerra. Più numerosi gli appassionati di mountain bike che salgono da Riva del Garda toccando Campi e la malga Grassi, per poi tornare al lago attraverso Bocca di Trat, la Val Concei e la strada della Valle di Ledro.
Da qualche anno la zona è nota anche grazie alla presenza degli orsi: nonostante le quote modeste, i fitti boschi di queste montagne dall’aspetto prealpino offrono al plantigrado un ottimo habitat, e alla fine dell’estate l’abbondanza di more, lamponi e bacche di rosa canina attira gli animali che devono accumulare grasso per prepararsi al letargo. Chi ama la natura sa bene che tra il 1999 e il 2002 le Dolomiti di Brenta hanno visto il ritorno dell’orso bruno: i dieci esemplari reintrodotti dalla Slovenia si sono adattati, si sono riprodotti e hanno dato origine a una popolazione oggi più che raddoppiata. La cosa non piace però agli allevatori, ai produttori di miele e ad altri operatori agricoli, visto che dal Brenta e dall’Adamello gli orsi hanno iniziato a spostarsi verso le montagne vicine seguendo precisi corridoi ecologici, uno dei quali attraversa proprio boschi e pascoli della Val Concei. Giuliano Baldessari, un allevatore della Valle di Scalve che passa l’estate con le sue capre alla Malga Guì, ha ricevuto più volte la visita dell’animale: non ci sono state aggressioni (nel qual caso la Provincia di Trento interviene con indennizzi e può mobilitare una squadra di pronto intervento della Forestale), ma l’impressione causata da quegli incontri è stata forte. Per aiutare la popolazione ad accettare il plantigrado, intanto, il WWF ha creato gli “avvocati dell’orso”, naturalisti che visitano periodicamente le malghe e i paesi più esposti per ascoltare le lamentele delle persone e suggerire soluzioni: e non è un caso se nelle prime arringhe difensive Stefano Mayr e Alessandro De Guelmi si sono concentrati appunto sulla Malga Guì e sulle capre di Giuliano Baldessari.
Ignaro di tante attenzioni, l’orso non si fa vedere che di notte e qualche volta, ad essere davvero fortunati, all’imbrunire o all’alba. Non è quindi facile per gli escursionisti sperare in un incontro diurno, magari non troppo ravvicinato: ma sapere che il bosco è abitato dal peloso bestione rende la camminata ancora più emozionante. Il fascino della Valle di Concei è anche qui. l

Testo e foto di Stefano Ardito

PleinAir 456-457 – luglio-agosto 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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