Una stagione all'Equatore

Kenya e Tanzania in pick-up: un'avventura (ma non troppo) alla scoperta di alcuni dei parchi più belli dell'Africa, confrontandosi con le difficoltà e le contraddizioni di un continente in perenne mutamento.

Indice dell'itinerario

Fine luglio 1991. Al porto di Dar Es Salaam, Tanzania, arriva in container il nostro fuoristrada attrezzato con cellula abitativa con il quale viaggeremo in Africa Orientale attraversando Tanzania, Kenya, Uganda, Zaire e Ruanda. Quasi cinque settimane per un itinerario circolare di oltre 8.000 chilometri su strade e piste che attraversano territori di rara bellezza naturalistica. Visiteremo i parchi nazionali più famosi e i luoghi più remoti ancora abitati da popolazioni con usi e costumi tradizionali, mete soltanto sfiorate dal turismo organizzato…
Quindici anni dopo è nostra intenzione ripetere, almeno in parte, quell’indimenticabile viaggio; solo in parte perché dalla nostra prima visita molte situazioni locali sono cambiate, purtroppo in peggio. Lo Zaire, oggi Nuova Repubblica del Congo, dove un indimenticabile trekking ci aveva consentito di osservare una famiglia di gorilla di montagna, dal 1992 è insanguinato da una guerra civile che ha contato fino ad ora oltre un milione di morti. E la cittadina di Goma, da dove partivano le escursioni, è stata quasi completamente distrutta nel 1994 dall’eruzione del vulcano Nyiragongo che la sovrasta. In Ruanda, sempre nel 1994, il genocidio che ha visto contrapporsi le due etnie principali ha insanguinato il paese con centinaia di migliaia di morti ed episodi di inaudita ferocia, e la situazione non sembra tornata ad essere sicura per dei viaggiatori solitari. Il nord dell’Uganda, infine, continua ad essere controllato da gruppi di banditi.
Fatte queste premesse abbiamo però deciso di ripercorrere i nostri passi, escludendo le zone più rischiose e affidandoci alla nostra ormai solida esperienza maturata nei viaggi in solitaria in zone con scarse strutture turistiche. E poi, quando l’Africa chiama…

Da Mombasa al parco di Masai Mara
E’ la fine di luglio del 2006 quando sbarchiamo al porto di Mombasa, Kenya. Le formalità burocratiche necessarie per lo sdoganamento richiedono quasi due giorni che trascorriamo sotto frequenti acquazzoni, inusuali in questo periodo dell’anno ma molto graditi alla popolazione, sempre afflitta dalla penuria d’acqua.
Appena usciti dalla città ritroviamo le strade d’Africa che conoscevamo. Nonostante Mombasa sia il centro commerciale più importante del paese, da dove le merci giunte via mare vengono smistate e trasportate su gomma nel resto del Kenya, la strada che prendiamo in direzione Nairobi è in condizioni disastrose, alternando brevi tratti integri a buche enormi che ci costringono a pericolosi slalom. Un’ulteriore difficoltà è legata al fatto che in questo paese il traffico procede a sinistra, mentre il nostro veicolo è predisposto per la guida a destra.
L’attraversamento di Nairobi ci mette ancora una volta di fronte alla triste realtà africana. Alla periferia una baraccopoli sterminata, sullo sfondo grattacieli abitati dai cittadini più facoltosi che vivono in un lusso quasi occidentale: qui più che mai avvertiamo la prova tangibile dell’enorme divario economico che separa il cosiddetto Terzo Mondo dai nostri modelli di vita.
Proseguiamo per Narok, porta d’ingresso alla Masai Mara National Reserve, dove è possibile – e conviene – effettuare tutti i rifornimenti. L’area protetta più famosa del Kenya, estesa 1.510 chilometri quadrati, si sviluppa su un altopiano fra i 1.500 e i 2.100 metri di altitudine e forma un tutt’uno con la savana del confinante parco Serengeti, in Tanzania. Le numerose strade sterrate che lo attraversano vengono tenute costantemente percorribili in modo da non creare difficoltà ai molti turisti. Nel corso della nostra visita, durata tre giorni, in un solo pomeriggio contiamo oltre venti pulmini pieni di visitatori intenti ad osservare un gruppo di leonesse in caccia. Spettacoli del genere non sono rari: infatti la particolarità di questo parco è che vi si possono osservare con facilità quasi tutti gli animali simbolo dell’Africa. E così anche noi iniziamo la nostra caccia fotografica insieme a una guida d’eccezione, perché il ranger che ci accompagna è un masai e, grazie alla sua profonda conoscenza del territorio, avremo modo di osservare dalla nostra auto numerosi animali in tutte le situazioni di una loro giornata.
Veniamo trattati come ospiti di riguardo (raramente entrano nel parco veicoli con targa europea) e otteniamo addirittura il permesso di pernottare di fianco all’ingresso principale, sotto la sorveglianza dei guardaparco. Il nostro ranger ci porta ad assistere, in un villaggio ai margini della riserva, anche a una danza masai organizzata per un gruppo di turisti: artificiosa, ma sempre bellissima da vedere.

Verso la Rift Valley
Riprendiamo il nostro percorso in direzione nord verso Nakuru e, continuando a salire di quota, giungiamo ad attraversare la linea dell’Equatore. Il fondo stradale è notevolmente migliorato, anche perché il traffico si è fatto molto scarso.
Prossima tappa le Thomson’s Falls, non lontano da Nyahururu, a 2.360 metri d’altitudine. Formate dal fiume Ewaso Narok, le cascate precipitano in una stretta gola con un salto di circa 70 metri, creando una nebbiolina perenne che inumidisce la rigogliosa foresta circostante. La sosta vale, in realtà, solo per la possibilità di campeggiare presso un lodge nel prato appositamente predisposto.
Proseguiamo sempre verso nord su una buona strada asfaltata fino alla cittadina di Maralal, famosa per l’annuale Camel Derby che vi si tiene in ottobre. A questo punto è indispensabile, per chi intende continuare, rifornirsi di tutto l’occorrente ed essere in grado di eseguire eventuali piccoli lavori di riparazione del veicolo. Il nostro tragitto ci porterà ad addentrarci nel deserto del Chalbi, ed è tassativo essere autosufficienti.
Lasciamo il rassicurante nastro d’asfalto per una pista sconnessa che sale rapidamente oltre i 2.500 metri, affrontando dense nuvole nere che non promettono nulla di buono. Ma oltrepassato il valico ritroviamo uno splendido cielo sereno e ai nostri occhi si apre un paesaggio di stupefacente, primordiale bellezza. Davanti a noi la strada scende a precipizio nella Rift Valley: generata dal movimento tettonico delle placca arabica e di quella africana, questa spaccatura della crosta terrestre si estende ininterrotta per circa 6.000 chilometri dal Mar Morto al Mozambico, con una larghezza che varia dai 30 ai 100 chilometri e una profondità che può arrivare a diverse migliaia di metri. Sembra quasi impossibile che questo territorio desertico, ora così brullo e inospitale, sia stato nella preistoria una foresta rigogliosa. Molti paleontologi ritengono sia questa la culla dell’umanità per i numerosi e unici ritrovamenti, fra i quali alcuni scheletri di Homo Habilis risalenti a circa due milioni e mezzo di anni fa.
La pista prosegue ben tracciata, alternando tratti in buone condizioni con alcuni passaggi notevolmente impegnativi. La discesa termina al villaggio di South Horr, dove pernottiamo in uno spiazzo antistante la caserma dei ranger. Il nostro convoglio suscita la curiosità di alcuni ragazzini che si avvicinano, ma senza disturbare. L’unica domanda che ci viene rivolta è se da dove proveniamo è piovuto o piove: qui durante la stagione delle piogge (da aprile a giugno) non è caduta una goccia d’acqua, e le riserve sono al limite dell’emergenza. Al mattino riprendiamo la pista in direzione nord. Mancano ancora 120 chilometri a Loyangalani, la nostra destinazione sul lago Turkana.

Il Mare di Giada
Avvicinandoci alla meta il suolo diventa ancora più arido e meno sabbioso, solcato da colline di origine lavica, ma dopo un’ultima salita ci troviamo finalmente a contemplare la sponda meridionale del lago Turkana, il cosiddetto Mare di Giada, che ci ripaga ampiamente delle difficoltà incontrate per arrivare fin qui. Lungo circa 250 chilometri e largo da 40 a 60 circa, questo bacino di acqua salata ricade nella parte settentrionale in territorio etiopico, dove riceve anche il maggior apporto d’acqua dal grande fiume Omo.
La pista prosegue costeggiando il lago e lasciando intravvedere le prime capanne costruite con bastoni e frasche di palma dum: sono abitate dai Turkana, l’etnia più numerosa di questo territorio che sopravvive grazie alla pesca e a una scarsa pastorizia.
Ecccoci finalmente a Loyangalani, l’unico centro di una certa importanza sulla sponda sud-orientale del lago: 100 metri di strada fiancheggiata da costruzioni dove si svolge tutto il commercio della zona. Qui il giorno di mercato rappresenta un momento di scambio tra tutte le tribù che popolano questo territorio: vi si possono incontrare anche Samburu e Rendille, genti poco numerose nella zona ma notevolmente interessanti per i costumi che indossano. Con i Rendille si deve fare molta attenzione ad instaurare cordiali rapporti, perché sono usualmente di carattere molto ombroso e sospettoso.
Poco è cambiato per la popolazione locale dalla nostra visita del ’91. Sono invece sorti numerosi accampamenti recintati predisposti per accogliere con un minimo di comodità i turisti che ora giungono in gruppo, trasportati in camion e fuoristrada a scoprire quest’angolo d’Africa ancora selvaggio. Anche noi ci sistemiamo in un accampamento, gestito da una cooperativa di donne turkana. Durante la notte inizia a piovere, prima un lieve tamburellare che si sente appena all’interno del camper, poi forti scrosci, a dirotto, che continuano fino a mezzogiorno. Quando cessa la pioggia vediamo tante facce sorridenti tra la gente del posto che aspettava con ansia questo momento, ma per noi ora iniziano grossi problemi. Non ci è possibile proseguire a nord come vorremmo per il parco di Sibiloi, perché il territorio che dovremmo attraversare è diventato una palude dove nessuno si avventura e dove sarebbe impossibile ricevere aiuti in caso di necessità. Per lo stesso motivo non si può neppure tornare indietro: la pioggia ha riempito gli avvallamenti della pista formando numerosissimi laghetti dal fondo melmoso, impossibili da attraversare. Rimaniamo così bloccati a Loyangalani per otto giorni, fino a quando il sole e il vento non asciugheranno la pista. Questa è l’Africa: un continente difficile per chi ci vive, ma anche per dei viaggiatori solitari come noi.
La lunga sosta ci permetterà, in compenso, di conoscere più approfonditamente la situazione locale. Scopriamo infatti che molto è cambiato dalla nostra visita precedente: il flusso turistico che ora interessa la zona ha inevitabilmente abituato queste popolazioni a commercializzare la loro immagine, l’unica cosa che hanno da vendere ai turisti. Le ragazze più belle indossano per l’occasione tutti i loro monili e si fanno ritrarre in pose che non rappresentano certo le loro tradizioni. Altra rilevante novità è la nascita di una grande missione cristiana protestante americana, mentre la Chiesa cattolica italiana ha una missione con un ospedale in funzione dal 1960.
A qualche chilometro da Loyangalani visitiamo un piccolo villaggio abitato dagli El Molo, una delle etnie a rischio d’estinzione. Originali soprattutto le loro capanne, costruite con l’entrata a forma di conchiglia in modo da ostacolare l’ingresso del vento quando soffia forte sul lago. Noleggiamo infine un’imbarcazione per visitare il South Island National Park, nella parte meridionale del Turkana. L’isola è completamente disabitata, ed è affollata da innumerevoli giganteschi esemplari di coccodrillo.

Dal Lago Rosa ai parchi della Tanzania
A causa della sosta imprevista dobbiamo riprogrammare il nostro viaggio escludendo, con rammarico, la visita del Sibiloi e i parchi dell’Uganda. Ripartiamo dunque dalle rive del Turkana in direzione est, su una pista appena tracciata che ci porterà senza altri problemi fino alla cittadina di Marsabit, situata lungo una sicura strada sterrata.
Prossima tappa il Lake Nakuru National Park, detto il Lago Rosa per le numerose colonie di fenicotteri che lo popolano. Da non perdere lo spettacolo che si gode dal belvedere sulle migliaia di fenicotteri che accendono di colore il paesaggio e sono ancora più spettacolari quando si alzano in volo. Oltre a 400 specie di uccelli avvistabili, il parco offre anche incontri ravvicinati con quasi tutta la fauna africana, esclusi i felini; da alcuni anni sono stati reintrodotte anche coppie di rinoceronti bianchi e neri, difficili da incontrare altrove.
E’ il momento di lasciare il Kenya al posto di frontiera di Namanga per entrare in Tanzania. La strada, ottimamente asfaltata e di scarso traffico, è dominata dal simbolo di questa parte d’Africa: il Kilimanjaro, appena velato da foschie e oggi sempre meno innevato a causa del riscaldamento atmosferico. La nostra prossima tappa è Arusha, base per la visita ai parchi più famosi di questa parte della Tanzania, meta di innumerevoli safari fotografici per tutte le tasche proposti da tour operator e agenzie turistiche.
Dopo una sosta rigeneratrice al Masai Camp ci dirigiamo al Lake Manyara National Park, che avevamo già visto quindici anni fa, ma lo ritroviamo notevolmente peggiorato sia nelle strutture ricettive che per gli avvistamenti di animali, diventati meno numerosi: una piccola delusione. Proseguiamo per il Tarangire National Park, situato in un territorio collinoso costellato da centinaia di baobab, famoso per i suoi branchi di elefanti che effettivamente si incontrano con facilità.
Il tempo a nostra disposizione per questo viaggio sta per giungere al termine e quindi ci dirigiamo a Dar es Salaam, porto principale della Tanzania e capitale di fatto, dove sbrighiamo le operazioni per la spedizione in Italia del camper. Abbiamo ancora qualche giorno per raggiungere l’isola di Zanzibar (vedi approfondimento “L’isola delle spezie”) prima di riprendere il volo del rientro. Lasciare questi luoghi è difficile, ma ci consola un pensiero che è quasi una certezza: ritorneremo ancora. Perché quando l’Africa chiama…

PleinAir 427 – febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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