Una poesia di terra a Cesena

Nella vastissima offerta culturale e turistica della Romagna non manca l’attrattiva letteraria di Cesena: a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono diversi i poeti e gli scrittori che vi nacquero e vissero, mentre altri amarono soggiornarvi. PleinAir vi conduce nei luoghi di Giosuè Carducci, Alfredo Oriani, Giovanni Pascoli e Marino Moretti

Indice dell'itinerario

Dall’ampia terrazza di Villa Silvia, dimora campagnola della famiglia Pasolini Zanelli, Giosuè Carducci osservava le colline di Cesena. Con il volto fiero incorniciato dalla folta barba possiamo immaginare il poeta alla fine dei suoi anni, seduto sulla poltrona a rotelle dalla tappezzeria gialla. Dal 1897 al 1906 venne qui undici volte, trascorrendo giorni di quiete come ospite della contessa Silvia Baroni Pasolini, musicista, intellettuale raffinata e anima gentile: per lui era sempre pronta la stessa stanza, al secondo piano della villa, che si può ammirare ancora oggi.

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Le terre di Carducci

Tutto è rimasto come se Carducci fosse uscito per una camminata nel parco e le sue cose lo stessero ad aspettare: la bombetta, il bastone da passeggio, la finanziera che indossava durante le lezioni all’università di Bologna, foto d’epoca, pennini, la spazzola, il catino con il vaso per fare toeletta.

Un’indicazione turistica nel parco di Villa Silvia a Lizzano di Cesena, dove era solito passeggiare Giosuè Carducci
Un’indicazione turistica nel parco di Villa Silvia a Lizzano di Cesena, dove era solito passeggiare Giosuè Carducci

Questa però era l’ultima volta del poeta alla villa. Lui stesso sembrava annusare la morte, che lo avrebbe colto da lì a pochi mesi. “Maltrattato dalla paralisi”, scrisse il faentino Antonio Zecchini, “si era trasfuso tutto nel volto e negli occhi: un grande sole al tramonto, rosso e folgorante”. Non riusciva neppure più nemmeno a percorrere il sentiero dei “cento cavalieri”, una fila di alberi che portava nella piccola radura dove meditava e componeva versi. Persino nei giorni migliori, tuttavia, il primo vincitore italiano del premio Nobel (correva l’anno 1906) si era dimostrato molto attivo.

Quando rifletteva nella verde bomboniera, infatti, il fedele servitore Egisto lo sorvegliava dalla terrazza della villa, più o meno a duecento metri di distanza. Doveva avere una vista d’aquila il buon Egisto e soprattutto non essere daltonico quando il maestro, afflitto dalla sete ma soprattutto dalla pigrizia, sventolava una delle tre bandierine colorate che si portava dietro. Bandiera rossa significava necessità di sangiovese, gialla voleva dire albana dolce di Bertinoro e bianca, in segno di resa, solo acqua.

La camera da letto che ospitava Giosuè Carducci
La camera da letto che ospitava Giosuè Carducci

Villa Pasolini Zanelli

Nella stanza del poeta, accanto al letto di ferro battuto (che scricchiola perché il materasso è riempito di foglie di granoturco), c’è il sofà inglese dove dormiva il fedele servitore. E poi la scrivania, il cassettone, edizioni originali di libri, lettere, manoscritti, foto che lo ritraggono con amici tra cui il tenore cesenate Alessandro Bonci: Villa Pasolini Zanelli era il salotto buono della cultura romagnola, dove si radunavano artisti e letterati.

E durante la visita alla stanza del poeta, vibrano nell’aria le note della Vignetta, una sonata per pianoforte composta della contessa Silvia sulle parole del Carducci:

“La stagion lieta e l’abito gentile ancor sorride alla memoria in cima / e il verde colle ov’io la vidi prima. / Brillava a l’aere e a l’acque il novo aprile…”.

Ad accrescere la suggestione, accanto alla villa c’è il Giardino Letterario Parlante, un percorso audio-musicale suddiviso in tre stazioni: la Contessa, il Poeta e il Cenacolo.

Premendo un pulsante, con il sottofondo di musiche di Beethoven e Chopin si ascoltano voci di attori che recitano versi del poeta, raccontano la storia del luogo, del cenacolo culturale, la vita della nobildonna e il suo legame con Carducci. Nessuno può dire se tra i due fu amore o sintonia spirituale. La cosa certa è che si scambiarono negli anni un corposo carteggio: duecentocinquanta missive in tutto, tra cui una cartolina recita: “A lei, nel desiderio e nel sogno. Silvia”.

Giosuè Carducci, alcune pubblicazioni d’epoca
Giosuè Carducci, alcune pubblicazioni d’epoca

Se si lascia la villa e si percorre la SP83 si arriva in appena 4 chilometri a un altro luogo amato dal poeta e dalla contessa, la chiesa di Polenta. Entrambi si attivarono molto per il suo restauro e nel 1887 Carducci dedicò all’edificio un’ode appassionata.

“Taccion le fiere e gli uomini e le cose, / roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma, / mormoran gli alti vertici ondeggianti / Ave Maria”.

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Romagna solatia, dolce paese

Il monumento a Giovanni Pascoli nel giardino della casa natale a San Mauro
Il monumento a Giovanni Pascoli nel giardino della casa natale a San Mauro

Guadagniamo la Via Emilia e in una trentina di chilometri raggiungiamo San Mauro Pascoli, borgo natio di un altro celebre poeta italiano, Giovanni Pascoli. Nonostante i danneggiamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, la casa materna dove il 31 dicembre 1855 nacque Svanì è in buone condizioni. Si trova proprio nel cuore del paese, ma bisogna immaginarla circondata dai campi perché a quei tempi era in aperta campagna, nella tenuta agricola dei principi Torlonia amministrata dal padre Ruggero.

A casa di Pascoli

In questi luoghi il piccolo Giovanni trascorse gli anni più spensierati della vita:

“M’era la casa avanti, / tacita al vespro puro, / tutta fiorita al muro di rose rampicanti”.

Poi arrivarono disgrazie e lutti: la morte della sorella Margherita, quella della madre Caterina, la povertà e i debiti ereditati dal fratello maggiore che costrinse il poeta, capofamiglia appena ventenne, a vendere l’adorata casa.

Giovanni Pascoli, la cucina della casa natale a San Mauro
Giovanni Pascoli, la cucina della casa natale a San Mauro

Ma ciò che più ferì l’anima sensibile di Pascoli fu la disgrazia che lo colpì appena dodicenne, quando di ritorno dalla fiera di San Lorenzo il padre fu ucciso in un agguato. Era il 10 agosto 1867 e la cavallina che tirava il calesse tornò a casa da sola, ciondolante lungo il filare di pioppi con le briglie penzoloni, portando con sé due bambole sporche di sangue che papà Ruggero aveva comprato per le figlie Ida e Maria.

Mandanti e assassini non furono mai scoperti: uno dei gialli più misteriosi della storia della letteratura italiana, al quale la direttrice del museo, Rosita Boschetti, ha recentemente dato nuovo impulso con la pubblicazione del libro Omicidio Pascoli. Il complotto. Teorie che aprono nuovi squarci nella nebbia che avvolge il delitto.

“O cavallina, cavallina storna, / che portavi colui che non ritorna; / oh! due parole egli dové pur dire! / E tu capisci ma non sai ridire. / Tu con le briglie sciolte tra le zampe, / con dentro gli occhi il fuoco delle vampe, / con negli orecchi l’eco degli scoppi, / seguitasti la via tra gli alti pioppi: / lo riportavi tra il morir del sole, / perché udissimo noi le sue parole”.

Giovanni Pascoli, lo studio della casa natale a San Mauro
Giovanni Pascoli, lo studio della casa natale a San Mauro

 Al pianterreno della casa c’è la cucina, rimasta intatta con il tagliere originale, il vecchio camino con cinque punti di cottura, l’acquaio di pietra. Al piano superiore lo studio che il poeta aveva a Bologna e la camera da letto con la culla di legno dove nacque. E poi cimeli appartenuti alla famiglia Pascoli come la tabacchiera di Ruggero, il ventaglio di carta dipinto da Margherita e soprattutto il giardino che Svanì, da appassionato botanico, aveva eletto a luogo dell’anima.

Il giardino di casa Pascoli

Bisognerebbe vederlo a primavera con le rose rampicanti in fiore, i gerani, il gelsomino, la magnolia, l’amata cedrina: a ognuno di questi fiori Pascoli ha dedicato amorevoli rime. Scrisse nel Limpido Rivo:

“Bastava che io prendessi con due dita / una foglia di cedrina che, un tempo, / era la mia unica proprietà fondiaria… / quello era l’odore di casa mia. Non si entrava / in casa senza sentirlo e non si usciva”.

Puntuale, a giugno, fiorisce anche la mimosa rosa dai pennacchi come ciglia; il poeta inserì uno di questi fiori, ormai rinsecchito, tra le pagine della lettera – che si può ammirare al secondo piano della casa – inviata nel 1881 all’amico Severino Ferrari.

È la pianta che causò un incidente diplomatico con Gabriele D’Annunzio, che gli scrisse: “Ti vanti esperto botanico e non sai che non esistono mimose rosa”. “Se non ci credi, quando hai un po’ di tempo vieni qui in Romagna a vederle”, rispose Pascoli. “Ti aspetto”.

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Tra barche e biciclette

Il Cardello di Casola Valsenio, casa-museo di Alfredo Oriani
Il Cardello di Casola Valsenio, casa-museo di Alfredo Oriani

Da San Mauro ci spostiamo sulla costa e raggiungiamo in pochi chilometri Cesenatico, città natale di un altro grande figlio di Romagna, lo scrittore Marino Moretti. La sua casetta verdolina si trova accanto al ponte che attraversa il porto canale, affollato di barche di legno con le vele dai colori sgargianti e i simboli della marineria locale. Tra queste c’è un bragozzo per la pesca a strascico, una paranza abruzzese del 1951, un trabaccolo del 1925 e un altro del 1936 che un tempo trasportava legno, pietre e zolfo in tutto il Mediterraneo.

Anche il padre di Marino Moretti (nato nel 1885), Ettore, possedeva una barca da pesca. La casetta si trova a pochi passi dal museo galleggiante a cielo aperto. “Ed ecco la barchetta davanti a casa con bella argentea rete pendente come un’immensa ragnatela, il più sdrucito scafo del più povero dei pescatori di settant’anni dove m’ero calato senza timore”.

Qui è ancora tutto al suo posto: la cucina che dà sul giardino “per cogliervi l’origano e il basilico”, lo studio con il tavolino senza cassetto, la camera da letto con il fedele basco e il borsone di cinghiale e poi la biblioteca che in passato fu la bottega dove Garibaldi, durante il suo passaggio a Cesenatico nel 1849, si rifornì di salumi in fretta e furia. “E non credo”, annotò lo scrittore, “avesse pagato in contanti”.

Il Cardello di Casola Valsenio, casa-museo di Alfredo Oriani, la biblioteca dello scrittore

Cardello di Casola Valsenio

Per comporre l’ultimo tassello di questo piccolo viaggio letterario in terra di Romagna bisogna tornare a Cesena, proseguire per Faenza e Castel Bolognese e da qui imboccare la SS306 fino al Cardello di Casola Valsenio, raro esempio di dimora signorile romagnola ottocentesca ma soprattutto il luogo solitario dove visse lo scrittore e ciclista Alfredo Oriani per buona parte dei suoi cinquantasette anni di vita e dove compose, perennemente sospeso tra furore e leggerezza d’animo, tutte le sue opere.

L’austera casa con il vasto giardino affollato d’alberi, simile a una fortezza, i chiaroscuri su madie, credenze, cassapanche, tavolacci, candelabri, lampadari, letti dalle colonne tortili: tutto sembra replicare il carattere dolce e amaro di Oriani.

Tra le stanze dall’atmosfera medioevale distribuite su due piani, si visitano la cucina (con il camino, il tavolo massiccio, i pentoloni di rame e la finestrella del passavivande collegata alla sala da pranzo), la camera da letto, il monastico studio con i libri della biblioteca personale. Appesi alla parete ci sono il suo ritratto da giovinetto e un calendario fermo al 18 ottobre 1909, il giorno della morte.

Il Cardello di Casola Valsenio, casa-museo di Alfredo Oriani, nel sottotetto trova spazio la fida compagna di passeggiate e viaggi, ovvero la sua bicicletta
Il Cardello di Casola Valsenio, casa-museo di Alfredo Oriani, nel sottotetto trova spazio la fida compagna di passeggiate e viaggi, ovvero la sua bicicletta

Il museo rurale con la bici

Nel sottotetto c’è poi il piccolo museo rurale con la bicicletta (una Prinetti Stucchi del 1894) sulla quale nell’estate 1897 Oriani intraprese un lungo viaggio tra la Romagna e la Toscana, pedalando per un migliaio di chilometri tra campi assolati, pievi e borghi sonnolenti. Una bici senza cambio da sette metri a pedalata: quando c’erano le salite lo scrittore era costretto a procedere a piedi, con la “fidanzata a due ruote” sottobraccio.

Sembra di vederlo, e mat de Cardel, mentre in sella al suo destriero solleva nuvolette di polvere lungo le stradine bianche di fine Ottocento. Scrisse: “Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione, andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio, senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno (…).

Domani la carrozzella automobile ci permetterà viaggi più rapidi e più lunghi ma non saremo più né così liberi né così soli: la carrozzella non potrà identificarsi con noi come la bicicletta, non saranno le nostre gambe che muovono gli stantuffi, non sarà il nostro soffio che la spinge nelle salite”. Chissà se Oriani poté immaginare che un secolo più tardi si sarebbe parlato di cicloturismo.

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