Un weekend da somari

Due famiglie con i bambini, cinque asini, due tende: piccolo viaggio d'altri tempi nel cuore del parco dei Sibillini, tre giorni slow a contatto con la natura lungo un panoramico itinerario attorno ai bellissimi Piani di Castelluccio.

Indice dell'itinerario

Un piede pestato, cioè varie decine di chili scaricate da uno zoccolo sullo scarpone: non fanno proprio piacere, ma è il massimo inconveniente che può capitarti. E sì, proviamolo questo trekking con l’asino. Una scelta veloce fra le proposte in circolazione, due e-mail con i compagni d’avventura per concordare le date e chi porta cosa, un’occhiata al meteo.
E’ buio da un pezzo quando i nostri camper giungono a Castelluccio di Norcia, minuscolo e affascinante capoluogo turistico del parco dei Sibillini. L’appuntamento non potrebbe essere che al bar, e nonostante il brusco risveglio dal primo sonno già consumato durante la trasferta i bambini schizzano fuori con l’eccitazione già alle stelle: domattina presto si parte.
Gli asini sono cinque. Ne abbiamo presi due a famiglia, come da suggerimento dell’agenzia: uno per i bagagli e uno per farvi salire a turno i bambini (ma anche un adulto, riuscendo a convincere la prole), e in più un’asina ha il piccolo al seguito, così tutti assieme formiamo una vera carovana, tredici anime in tutto.
Pur effettuata nella concitazione della partenza, la prima operazione è la più importante di tutte: il carico dei bagagli. Ogni asino può portare quattro sacche dalla forma cilindrica (nel nostro caso, altri operatori utilizzano borse di tipo differente) e dal peso complessivo di 50 chili, ma è meglio contenersi perché più pesa il carico e più è difficile sistemarlo ben bilanciato, soprattutto nei tratti sconnessi di sentiero o con forti dislivelli. Scontato ma non banale il suggerimento di riporre i bagagli nei diversi contenitori con un certo criterio: viceversa, farete prendere aria a pentole e calzini ogni volta che vi occorre un fazzoletto di carta.
Il nostro programma è da principianti, essendo per tutti la prima volta. Auto più tenda, camper e bicicletta o canoa, persino dromedario e mongolfiera, ma asino proprio mai. Confessiamolo: abbiamo tutto da imparare. Il piano prevede tre giorni per effettuare con la dovuta calma il periplo della grande conca carsica dei Piani di Castelluccio, dormendo in tenda. E’ fine settembre, il sole è ancora caldo ma l’aria ha finalmente perso l’afoso spessore delle giornate d’agosto: il pegno da pagare, lo indoviniamo, saranno le fredde ore serali e notturne visto che gran parte del tracciato è attorno a quota 1.500, ma siamo ben equipaggiati.

Mille metri sopra Norcia
La bella mulattiera (è il caso di dirlo) che taglia a mezza costa le pendici del Monte Veletta coincide con un tratto del Sentiero Italia, il lungo percorso che si snoda su e giù per la penisola. Sullo sfondo quasi disneyano del cocuzzolo di Castelluccio lasciamo a passo lento la civiltà, forse più presi dalle nostre cose che altro: Elisabetta perde e poi ritrova un pezzo fondamentale della macchina fotografica, Dario e Flavio avviano laboriose trattative sui turni per montare l’asino, Giulia una volta in sella si tuffa senza indugio nella lettura di un Topolino, Antonio da vero cavaliere le cede il posto, Elena e Stefano conducono gli asini col nostro bagaglio, io faccio foto.
Aggirato il Poggio di Croce, fra prati aerei ci avviamo lungo un crinale erboso. I primi boschi sono quelli che rivestono le pendici orientali, verso la Valle Canatra, ma noi restiamo in alto. Si uniscono a noi per un tratto due cavalieri in gita e si discute di pregi e difetti dei rispettivi compagni equini, mentre i quadrupedi si lanciano occhiate oblique.
Sotto il Monte delle Rose ci sarebbe la Fonte di Fausole, ma è a secco, e scoprirlo dopo una discesa in cui iniziamo a comprendere cosa voglia dire stringere bene i basti è un fuoriprogramma lì per lì non molto piacevole. Poco male, legando in qualche modo gli asini riusciamo a mandar giù un boccone per pranzo. Ecco, i tempi: viaggiando in questo modo va subito chiarito che si dilatano senza accorgersene, perché ci vuole tempo per caricare i basti, tempo per le soste a cui le cavalcature quasi ti obbligano davanti a ogni componente del paesaggio – rami vicini al sentiero, cespugli, un bel prato – che abbia un colore verde e un aspetto commestibile. E se ci si ferma per un po’ che fai, ti sdrai in relax e lasci il ciuco in piedi con tutta quella roba sulla schiena?
Dalla Forca di Giuda, a 1.794 metri, scendiamo a scapicollo verso il miraggio d’acqua di un’altra sorgente che stavolta speriamo non ci deluda. Ripida e sconnessa, la discesa ci costringe più volte a fermarci per i carichi che prima scivolano gradualmente verso il capo dei pazienti animali, per poi riversarsi a terra a sottolineare impietosamente l’inesperienza di chi li aveva assicurati. A rendere più complicata la faccenda, non ci siamo accorti che uno dei basti forniti dall’operatore non era della misura giusta e, non essendo abbastanza aderente al corpo dell’asino, al primo accenno di pendenza verticale o laterale si rovescia. Raggiungiamo in qualche modo la Fonte di Patino, da cui sgorga un’acqua freschissima, e piantiamo i nostri igloo sull’unico minuscolo spiazzo erboso pianeggiante a sufficienza. Il crepuscolo in montagna impiega poco a calare, ma prima della pasta e fagioli in busta – è in tenda che i liofilizzati conoscono il loro momento di gloria – bisogna sistemare i nostri mezzi di locomozione. La questione è semplice, come da istruzioni ricevute: per raggiungere il duplice obiettivo di lasciar liberi nottetempo gli asini senza perderseli, occorre approntare un piccolo recinto elettrificato. Una lieve scossa di corrente condotta da un filo teso tra una dozzina di paletti e collegato a una batteria (tutto materiale fornitoci alla partenza, naturalmente) convincerà gli animali a brucare il brucabile senza ulteriori progetti. Chiudiamo le lampo delle tende sotto un tetto di stelle mentre in lontananza, mille metri più in basso, le luci di Norcia si assiepano a rompere il buio.

Bambini a caccia
L’indomani, chiaramente, degli asini neanche l’ombra (o, che so, un raglio). A cedere è stato un paletto piantato evidentemente troppo poco in profondità nel duro terreno della montagna, e il vento ha fatto il resto visto che le raffiche notturne quasi sdraiavano il meno tecnico dei nostri igloo. In momenti del genere comprendi il vantaggio di viaggiare con i bambini al seguito: a sguinzagliarli per un pendio sconfinato, mentre fai finta di tenerli d’occhio sorseggiando il caffè, ti beccano un asino anche se si era infrattato tra i cespugli sognando la libertà. Presto siamo di nuovo in tredici, trentasei fra gambe e zampe pronte a rimettersi in movimento. Lavarsi alla gelida e copiosa acqua di fonte, vuoi mettere col mesto zampillo della toilette del camper?
Smontato il bivacco e rimessi in riga asini e figli, siamo nuovamente in cammino verso il Colle Tosto. Aggirata da ovest l’altura, si apre sotto il Monte Valle Sirica lo spettacolo del Pian Grande che ci gustiamo in fila indiana lungo la traccia in discesa appena apprezzabile. Alle Tre Fonti i somari bevono e gli umani riempiono le borracce. Sfilando sotto il Monte Vetica per il sentiero fattosi pista sterrata, giungiamo a una sella tra due cocuzzoli cui la mappa assegna il nome di Monte Calarelle e Monte Ventòsola: da qui la discesa della Costa Precino ci porta velocemente verso il Rifugio Perugia, a 1.506 metri di altitudine, affacciato a bordo strada (vi passa la via che sale da Norcia) su un prato così soffice che sarebbe un peccato non piantarci la tenda. Incombenze di lavoro costringono la carovana a separarsi, c’è chi torna in città. A noi che continuiamo, il piacere di apprezzare prima l’ottima cucina del rifugio e poi il comfort di quel materasso naturale a cielo aperto.

Come in un Grand Tour
Il terzo e ultimo giorno, su un percorso privo di salite, lo vivi come se in groppa a un asino ci fossi nato. Con i basti bloccati grazie a cordini ausiliari e al carico finalmente fatto come si deve, salutiamo gli automobilisti e i camperisti di passaggio che lanciano occhiate giustamente cariche d’invidia. Il momento della doccia – l’odore degli asini è penetrante e, scopriremo nei giorni a venire, tenace – si avvicina.
Dal rifugio, con fonte nei pressi, attraversiamo l’asfalto e prendiamo a seguire la stradina che tra macchie di faggi si affaccia a mezza costa sulla piana sottostante, oggi immersa in un mare di nebbia. Lasciando a destra i segni del Sentiero Italia, proseguiamo sulla carrabile per il crinalino del Monte Guaidone fino a scendere sulla destra al fondovalle della Dogana, dove la carta riporta un laghetto temporaneo che non vediamo. Incrociamo una folta comitiva di escursionisti australiani che salgono a piedi da Norcia e cadono nell’equivoco di considerarci una famiglia di pastori: un tale chiede se viviamo quassù tutto l’anno, un’altra turista ritrae Dario sull’asino e poi gli mostra il prodigio sullo schermo della digitale pensando forse d’impressionarlo (figlio di fotografo!).
Allontanatisi gli australiani, nella luce ovattata il Pian Piccolo a dorso di somaro sembra davvero un altro mondo. Sotto i ruderi della Torraccia svoltiamo a sinistra e, passata la stretta valletta del Bonanno, sfociamo nel mare vuoto del Pian Grande. Come protagonisti del Grand Tour, ci avviciniamo un passo dopo l’altro al colle di Castelluccio che domina questo scenografico fondale immutato da secoli: in cima alla salita, fedele come gli asini, c’è il camper che ci aspetta.

Un grosso ciao a Giulia, Elisabetta, Antonio e Stefano, compagni d’avventura.

PleinAir 422 – settembre 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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