Un diavolo per cappello

Ai piedi del castello medioevale abbarbicato su un'alta roccia, ogni Martedì Grasso il paese di Tufara si anima con maschere di antichissima origine che rievocano miti e credenze delle religioni italiche dei primordi. Un'esperienza indimenticabile, che richiama visitatori perfino dall'estero in questo caratteristico borgo del Basso Molise.

Indice dell'itinerario

Martedì Grasso, metà mattina: le strade di Tufara sono deserte, eppure questa è una giornata campale per il piccolo paese della Valle del Fortore. Niente lascia presagire che fra poche ore un antichissimo rito dell’inverno contadino riporterà un borgo del Molise al tempo lontano dei culti dionisiaci.
Il vento freddo che spazza le strade soffia intorno al campanile della chiesa madre, poi si avvolge lungo le ampie scalinate fino al castello aggrappato alla rocca tufacea. Se si esclude il fantasma giocoliere che ogni tanto appare tra le sue mura (ottima invenzione, ci dicono, degli anziani di un tempo), la sagoma smozzicata delle mura merlate è tutto quel che resta di un imponente maniero che era frequentato anche da Federico II, il quale fece abbattere parte della cinta esterna per renderlo meglio accessibile alle sue truppe. In seguito il sovrano svevo abbandonò il luogo, preferendogli il castello di Lucera: una vera disdetta per il paese, che perse d’importanza e cadde nel dimenticatoio.
Uscendo da Piazza Garibaldi, tra vecchie case e palazzi nobiliari dai portali in pietra, incontriamo solo un gatto nero con due enormi occhi gialli. A vederlo di notte in questo labirinto di vicoli stretti, ci sarebbe da darsela a gambe agitando una corona d’aglio per aria. Finalmente arriva qualcuno: è uno studioso tedesco appassionato di riti e culti italici e, con una macchina fotografica e un piccolo registratore, va a zonzo per Tufara a caccia di souvenir di antropologia sociale. Di questi discendenti dei viaggiatori del Grand Tour se ne incontrano diversi nel nostro Meridione e specialmente in Molise, terra la cui cultura popolare è profondamente intrisa di magia.
«Where is the devil?, dov’è il diavolo?» chiede il ricercatore a un gruppetto di uomini seduti in una cantina con le porte aperte sulla strada. «Troppo presto» gli viene risposto. Intanto la musica di una fisarmonica richiama la nostra attenzione: intorno al ragazzo che suona, altri cantano sotto un balcone dove non è affacciata una leggiadra fanciulla, ma un’anziana signora che sorride battendo le mani. Poi torna il silenzio. Tutto il paese è come in attesa, al caldo delle case, con i comignoli che spargono intorno fumo odoroso di legna.
In un grande stanzone dove sono appese la bandiera del Che e una scimmia di pezza, un gruppo di giovani mangia allegramente un robusto spezzatino innaffiato da vino locale. «Veniamo spesso qui – dice uno di loro – è il nostro posto di ritrovo… ma oggi è un giorno speciale». In effetti, su una vecchia poltrona in un angolo non possiamo fare a meno di notare una maschera inquietante, nera, con due orecchie triangolari, occhi spiritati e una lingua rossa di cartone: è il Diavolo di Tufara, che tra poco farà risvegliare la memoria delle più ancestrali paure dell’uomo.
Terminato il pranzetto, la combriccola esce e svolta nel vicolo per rientrare subito in un ampio magazzino. Ci sono bottiglioni di vetro, damigiane, attrezzi arrugginiti, ragnatele ovunque, un’atmosfera umida e buia: il luogo ideale per ciò che sta per accadere. E’ in questo sotterraneo, infatti, che avviene il rito della vestizione. Chi interpreta il Diavolo appare assorto in mille pensieri: qualcuno lo aiuta a indossare la pelle caprina, diversi strati cuciti addosso e cambiati ogni anno, poi gli viene fissata al volto la maschera terrificante (in paese, raccontano, ne esiste una vecchia più di cento anni). Intanto, su un lavandino, un ragazzo si cosparge il volto di farina prima di indossare un copricapo rosso, e un altro controlla con attenzione la lama affilata di una falce: simboli millenari che rappresentano la Morte nella pantomima di Tufara. Mancano solo i tre lugubri Monaci, sorta di folletti che completano il trucco annerendosi il viso con la fuliggine ottenuta bruciando tappi di sughero, e i sei personaggi sono pronti.
Qualcosa ci avevano spiegato, ma non siamo davvero pronti quando il portone si apre e comincia la folle corsa per il paese, di strada in strada, di vicolo in vicolo. La pantomima viene rappresentata a ciclo continuo, al grido funesto che rimbomba tutt’intorno: «Ah, la Morte! Ah, la Morte!». Il Diavolo corre, salta, si butta a terra come se fosse posseduto da forze soprannaturali, trattenuto a malapena dalle catene dei tre Monaci, mentre le falci della Morte roteano sinistre nell’aria mimando l’antico gesto dei mietitori. Ma chi è questo demonio se non la personificazione di un’antichissima divinità dei boschi e della vegetazione, che ogni anno muore e rinasce in sintonia con il ciclo della natura? Il suo aspetto caprino è simile a quello dei fauni e dei satiri, mitiche figure delle religioni arcaiche, e i sette strati di pelle che ne rivestono il corpo rappresentano il rito dello smembramento, di cui oggi si è smarrita la memoria: per un attimo sembra proprio di essere tornati all’epoca remota dei culti pagani, quando simili rappresentazioni affollavano le radure delle selve. Poi arrivò il cristianesimo, che ostacolò con ogni mezzo quelle espressioni, e anche il Diavolo di Tufara venne degradato a maschera carnevalesca.
Un secondo gruppo ha approntato lo stesso spettacolo, e più lontano un fracasso di voci e grida ne annuncia un altro ancora. C’è persino una pantomima messa in scena dai bambini. «Una volta non era così – dice un anziano signore – ce n’era una sola che bastava per tutti». «Più sono e meglio è – replica un altro – così il Diavolo di Tufara non morirà mai». E’ parere diffuso, del resto, che il Carnevale abbia perso il profondo significato di un tempo: non ci sono più peccati da espiare né oscure divinità da evocare. Ma intanto le recite si ripetono, con il terrificante demonio dalla lingua rossa che cerca nuovi adepti da iniziare al suo culto, corre, si dimena, bussa alle porte, colpisce i marciapiedi con un tridente. Il signore tedesco, felice come un bambino, arranca in salita registrando voci e scattando raffiche di foto ai diavoli posseduti, ai folletti che fanno rimbombare le catene, ai volti bianchissimi di coloro che rappresentano la Morte: la farina che li impiastriccia rappresenta la purificazione, la rinascita, i semi rigenerati nei campi che daranno nuovi frutti nella primavera ormai vicina.
Non è facile restare al passo di chi inscena la rappresentazione lungo le ripide strade del centro storico, e infatti la maggior parte dei visitatori, che nel frattempo sono giunti in folto numero, si riversa tra bancarelle e palloncini in Piazza Garibaldi dove nel tardo pomeriggio si terrà il processo al Carnevale, un altro dei momenti di questo folle teatro itinerante che scava nelle radici della nostra cultura. Noi continuiamo a seguire il nostro gruppetto, che di tanto in tanto fa una sosta per riposare e viene rifocillato dalle famiglie che aprono le porte agli attori. Poi riprende la messinscena, riproposta ininterrottamente più o meno fino alle 18, mentre in una delle case vengono cotti gli spaghetti che più tardi, accompagnati da vino in quantità, un allegro cuoco servirà in un pisciature, cioè un pitale: per rappresentare vizi e trasgressioni carnevalesche non c’è niente di meglio di una pasta fumante offerta in un vaso da notte, assecondando così l’ultimo desiderio del Carnevale prima di essere messo a morte.
Alla fine ci si ritrova tutti in Piazza Garibaldi, magari sotto una bella nevicata perché da queste parti, anche se siamo a poco più di 400 metri di quota, d’inverno può fare piuttosto freddo. Ma l’atmosfera è calorosa e animatissima, con la folla che si aggira tra i banchi in attesa degli ultimi eventi della giornata additando altri scanzonati personaggi: i tre giurati che decreteranno la fine del Carnevale, simboleggiato da un fantoccio imbottito di paglia. A nulla servono le buffe suppliche di Papà e Mammà, altre due esilaranti maschere (entrambe interpretate da uomini) che passeggiano con una culla tra le braccia: la sentenza di colpevolezza viene eseguita “alla ventunesima ora”, come vuole la tradizione, annunciata dal suono delle campane che invitano a ristabilire l’ordine e la sobrietà. Il simulacro di quel mondo alla rovescia che fin dal giorno di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, aveva fatto smarrire a tutti la retta via nelle baldorie carnevalesche, viene gettato dall’alto della rupe e subito preso in consegna dal Diavolo, che dopo averne fatto scempio a colpi di forcone lo scaglierà tra le fiamme degli inferi.
Tutto dunque rientra nella normalità, i giorni delle risate e della dissacrazione finiscono e il bene trionfa sul male, ma nella culla c’è già in fasce un piccolo Carnevale che il prossimo anno riporterà la trasgressione in paese, per poi finire di nuovo scagliato giù dalla rupe nella ciclica continuità del rito che infallibilmente si ripete. E guai se così non fosse: infatti, nell’incendio che più di un secolo e mezzo fa bruciò l’archivio comunale, sarebbe andato perduto il documento che sanciva l’accordo tra Tufara e un’altra località, forse il vicino paese di Riccia o addirittura Napoli, secondo il quale la maschera del Diavolo sarebbe dovuta passare di mano nell’anno in cui, per un qualunque motivo, la pantomima non fosse stata rappresentata. Ipotesi improponibile: nemmeno per tutto l’oro del mondo il Diavolo accetterebbe di lasciare la sua Tufara.

Testo e foto di Paolo Simoncelli

PleinAir 450 – Gennaio 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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