Un altro continente

Né Africa né Asia, ma neanche Europa: il Madagascar vanta una natura, una popolazione e usanze tutte sue. Noi vi guidiamo sugli altipiani centrali.

Indice dell'itinerario

«Hai delle monete del tuo paese?». E’ un ragazzino ben vestito quello che mi avvicina in strada; porta occhialetti da bravo scolaretto, pantaloncini corti e calze fino al ginocchio. Parla un buon francese e anche un po’ d’inglese. Si chiama Martin, ha dodici anni e frequenta il collegio cattolico di Fianarantsoa. Insiste con garbo, e per simpatia gli allungo qualche moneta (un euro e qualche decina di cent). Poi si offre come guida, ma io rifiuto; lui mi ringrazia con gentilezza e si allontana.
Dopo circa un’ora, più su nella città alta, mi ritrovo con il mio compagno di viaggio che mi dice: «Sai, ci sono dei turisti che forse si divertono a prendere in giro i ragazzini del posto, si fanno guidare in lungo e in largo e alla fine li ricompensano con delle monete che qui le banche neanche prendono. A uno di questi ho cambiato io qualche euro di moneta». Eccolo il giochetto di Martin, istruito all’arte di arrangiarsi per sopravvivere! Certo, se la passa già meglio di quei suoi coetanei che per le strade ripide portano sulle spalle, appese a un bastone che funge da bilanciere, due enormi gerle di carbone o pesanti balle di paglia. Il loro viso è segnato dalla fatica e dal caldo, il corpo piegato sotto il peso disumano che trasportano. Li fotografo e non vorrei, non vorrei vederli, non vorrei che ci fossero sullo sfondo di questa bella città quasi europea con gli alberi di stelle di Natale fioriti ai bordi delle strade e una natura esotica tutt’intorno; e invece ci sono. Ci sono anche questi bambini costretti ai lavori forzati, e allora li fotografo perché viaggiare e fotografare è anche questo: non chiudere gli occhi davanti alle tragedie umane e non, mostrarle come loro si mostrano davanti a noi.
No, non vogliamo mentire al lettore o riportare un’immagine edulcorata, ripulita di quello che può non piacere. Il viaggiatore che verrà dopo il nostro racconto deve sapere che non ci sono solo i paesaggi magnifici di Ranomafana, la bella gente Zafimaniry legata gelosamente alla propria identità, città variopinte come se fossero disegnate su una tela impressionista. A viaggiare in 4×4 e a scendere negli hotel dei bianchi si può anche non scorgere questa realtà o, peggio, si può essere tentati di non scorgerla. No, non ne siamo direttamente responsabili e nessuno vuole che ci sentiamo tali; e non è neanche pietismo quello che ci si chiede. In fondo il turismo è una risorsa per questo mondo a parte, e portando qui un po’ della nostra ricchezza stiamo già dando una mano. Consapevolezza però sì, quella non si può non chiederla.
Anche per questo, per spostarci in Madagascar alla maniera dei malgasci, abbiamo deciso di viaggiare in taxi-brousse. E aspettiamo così per ore nelle stazioni che questo mezzo di trasporto (a volte semplici macchine, a volte camioncini con rimorchio telonato, sempre veicoli scassatissimi) sia stracolmo di persone e mercanzie prima di partire. Inutile protestare: tra le gambe ci ritroveremo sacchi di farina e un ragazzino sudato seduto sopra.
Lasciamo Fianarantsoa in direzione della costa verso il parco nazionale di Ranomafana. Volevamo arrivarci dopo aver raggiunto la costa in treno, il pittoresco e traballante trenino a scartamento ridotto che dalla città porta a Manakara, sulla costa orientale. Chi l’ha preso narra di un viaggio bellissimo attraverso paesaggi di montagne e foreste selvagge e piccoli villaggi isolati: ma il nostro treno il giorno prima ha deragliato e quello che doveva partire la mattina è previsto, forse, solo per domani alle tre di pomeriggio. E allora andiamo in taxi-brousse.
Lungo il tragitto i fianchi delle colline che attraversiamo sono devastati – a volte sino al ciglio della strada – dalla pratica del tavy, l’usanza locale di tagliare gli alberi e di bruciare il sottobosco per ricavarne pascoli e terreni per la semina. Sono campagne misere che durano qualche anno, lasciando poi lande desertiche al posto di foreste millenarie ricche magari di specie animali ancora da scoprire (in Madagascar sono endemiche ben la metà delle specie di uccelli, sette specie di baobab sulle otto esistenti, gran parte delle specie di camaleonte, ventotto di lemure e un numero incalcolabile di anfibi, insetti, rettili, pesci e piante).

Il parco dell’acqua calda
Salendo di quota la foresta pluviale si fa più frequente, sino a dominare il paesaggio.
Ranomafana (il luogo dell’acqua calda) gode di un clima particolarmente temperato e di un antico impianto termale, da cui ha origine il nome del villaggio. La gente di qui sta giocando una scommessa importante con il futuro: conservare e proteggere le ultime foreste primarie che ricoprono queste dolci montagne per favorire uno sviluppo basato sull’ecoturismo. E fino ad ora, grazie anche all’aiuto logistico ed economico di molte istituzioni occidentali (perlopiù statunitensi) la cosa sembra funzionare. In questo piccolo villaggio tra le montagne lo stile di vita e l’introito di una giovane guida ecologica sono forse paragonabili a quelli di chi lavora in una ditta ben avviata in città.
Arriviamo a sera tarda e nella penombra, dal nostro accampamento – un rifugio spartano vicino all’ingresso del parco – si scorgono al di là del fiume le sagome attorcigliate dei giganteschi alberi che formano la foresta pluviale. Siamo a quasi 1.000 metri d’altitudine e una coltre di nebbia sempre più densa scende piano piano ad avvolgere tutto. Nell’oscurità la foresta si anima dei canti di milioni di rane, poi sale una brezza leggera che va a scuotere con dolcezza le foglie degli alberi, mentre inizia la danza degli insetti notturni. A decine le farfalle vengono catturate dalle luci del nostro campo: la loro bellezza è indescrivibile; alcune imitano splendidamente nella forma e nelle dimensioni le foglie degli alberi della foresta, altre sono multicolori, altre ancora giganti con grandi occhi colorati sulle ali. Poi inizia a piovere, si spengono le luci e le farfalle si dileguano nella foresta.
All’alba scende ancora una fitta pioggerella e la foresta, ancora immersa nella nebbia, si ravviva del canto di invisibili uccelli. Ci avviamo tra gli alberi con una guida. A nulla potrebbe servire un impermeabile, in pochi minuti siamo completamente bagnati sia per la pioggia fine che per l’elevata umidità. Avvistiamo e avviciniamo gruppi di lemuri intenti a nutrirsi; più avanti incontriamo alcuni uccelli e una famiglia di lemuri dal ventre rosso intenti a farsi le pulizie reciproche. Su un arbusto è in caccia un minuscolo camaleonte.
Dopo alcune ore di cammino attraversiamo un torrente: sulla sponda opposta parte ripido un sentiero che si addentra tra alberi maestosi e una vegetazione ancora più rigogliosa. Marcel, la nostra giovane guida, ci dice non senza un tono d’orgoglio che siamo entrati nella foresta primaria. Completamente immersi nel verde, possiamo ammirare sfuggenti orchidee e gasteropodi dal guscio gigantesco. Il percorso è un susseguirsi di saliscendi a volte dolci, a volte impegnativi. Sostando presso un torrente, restiamo ad osservare una mangusta che quatta quatta si eclissa tra i massi e i tronchi di alberi morti. La confidenza dei lemuri verso l’uomo in questo luogo, dove non vengono cacciati da generazioni, ci permette con pazienza e fortuna di avvicinarne tre della specie dorata (l’ultima scoperta a Ranomafana nel 1987) che in tutto il pianeta vive solo qui con una popolazione non superiore ai 1.000 individui. Proprio per proteggere i lemuri dorati venne creato questo magnifico parco nazionale, orgoglio e speranza di vita di una piccola comunità delle foreste.

Popoli della terra
Siamo partiti all’alba in bicicletta. Ad Antsirabe è l’ora di punta per chi deve recarsi al lavoro o a scuola. Lungo la via per Betafo incontriamo piccoli villaggi che paiono dispersi tra le grandi distese coltivate; qua e là sale verso il cielo il fumo delle piccole fornaci di mattoni e tegole d’argilla disseminate lungo la strada. Un’auto antica, dal baule enorme e pieno di pane fresco, ci sorpassa più volte tra un villaggio e l’altro dove si ferma per le consegne nei negozi. Udiamo le voci dei bambini e degli adulti nei campi, rettangoli dalle infinite tonalità di verde e giallo; c’è chi miete l’orzo e chi, nelle aie di casa, procede alla battitura.
La nostra curiosità diviene motivo della curiosità altrui. Per i locali è quasi inspiegabile come le loro comuni azioni quotidiane possano rappresentare per noi motivo di interesse. I loro gesti sono quelli dei nostri avi di qualche decennio fa, prima della meccanizzazione dell’agricoltura.
Sul bordo della strada un ragazzino – un altro schiavo del lavoro minorile – fabbrica tegole con l’argilla, una per volta, a mano. Il suo corpo e gli abiti che indossa sono impregnati del fango nel quale è costretto a lavorare agli ordini di un padrone arrogante e volgare, che ci manda via minacciandoci con un machete. Riprendiamo a pedalare, fermandoci di tanto in tanto a osservare l’incessante e faticoso lavoro degli uomini che dissodano la terra con le vanghe nell’infinita distesa dei campi. Raggiunta Betafo ci inoltriamo lungo una strada sterrata, poi per un sentiero che conduce alle cascatelle di Antafofo. Tutt’intorno l’ambiente è accogliente e tranquillo; vi sono campi coltivati e piccoli nuclei sparsi di case dove si incontrano persone disponibili, semplici, spontanee e chiaramente curiose verso i rari visitatori stranieri. Sono della stirpe dei Merina (il popolo degli altipiani), i discendenti di quelle popolazioni di origine asiatica che duemila anni fa giunsero su questa magnifica isola-continente. Mentre i Bestileo (gli invincibili) abitano l’area di Fianarantsoa, i Merina risiedono qui e nell’area attorno alla capitale Antananarivo, divenuta tale a partire dal XVIII secolo quando il loro regno prese completo possesso degli altipiani, portando con sé l’arte della coltivazione del riso i cui campi terrazzati disegnano oggi il paesaggio di questa zona.

Anima nomade
Spingendosi nel cuore degli altipiani, tra i 1.500 e i 1.800 metri di altitudine si incontra il popolo degli Zafimaniry (gli intagliatori). Li raggiungiamo ad Antoetra, l’unico villaggio a portata di una strada carrozzabile, noleggiando un taxi ad Ambositra. Distribuiti in numerosi villaggi raggiungibili solo a piedi, grazie al loro relativo isolamento gli Zafimaniry conservano ancora oggi abitudini antiche e uniche tra le etnie del paese. Oltre a trattare la corteccia degli alberi per ricavarne tessuti (utilizzati poi nelle cerimonie funebri), decorano le proprie case con motivi di legno intagliato. Ma la vera particolarità sono le pareti: anziché essere inchiodate fra loro in modo stabile sono semplicemente incastrate, dando la possibilità di trasferirsi da un luogo all’altro smontando e trasportando con sé tutta la casa. Ed è così che gli intagliatori, divenuti stanziali per necessità, raccontano al mondo il loro spirito di nomadi.

PleinAir 376 – novembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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