Tutta un'altra storia

Troppo spesso oscurata dalla fama delle testimonianze classiche, la Grecia di secoli a noi più vicini è una miniera di siti monumentali non meno affascinanti. Lo conferma questo itinerario a zonzo tra castelli e fortezze del Peloponneso, per un'estate al mare che cerca nuovi spunti di visita.

Indice dell'itinerario

E’ quasi mezzogiorno quando il traghetto, dopo un tranquillo viaggio notturno sulle acque dell’Adriatico, attracca ai moli di Patrasso, il principale scalo marittimo del Peloponneso. Alle spalle del porto si alzano i moderni palazzi di una città a due facce, caotica e sonnolenta al tempo stesso: è l’anticamera della Grecia estiva più facile, quella che tutti conoscono per le sue destinazioni balneari ma soprattutto perché è il primo approccio a vicende e miti di cui ognuno conserva, volente o nolente, almeno qualche nozione. L’autostrada per Atene e le statali maggiori, sufficientemente comode, seguono per lunghi tratti la costa e si addentrano a collegare i centri principali della vasta penisola: sulla cartina che ci si procura all’ente del turismo, valido riferimento se non ci si vuole allontanare troppo dai percorsi più battuti, l’inconfondibile simbolo della colonna con tanto di capitello indica le tappe che il turista diligente non potrà fare a meno di toccare. L’ideale, insomma, per chi cerca mare, sole e testimonianze di tre o quattromila anni fa, secolo più secolo meno.
Dall’800 in poi, del resto, l’immagine del Peloponneso è legata a doppio filo ai fasti dell’archeologica classica. Dopo gli scavi di Heinrich Schliemann e la scoperta dei tesori di Micene, la nobile gara degli storici per scoprire le tracce degli eroi della civiltà omerica ha portato alla luce le cittadelle e i palazzi dei re dell’epoca di Ulisse; ai quali si aggiungono, in un itinerario quasi obbligato, le scalinate chiare del teatro di Epidauro, i templi e gli stadi della città di Olimpia, le rovine di quella che fu Sparta. Rimane il fatto che, tra l’epoca classica e il nostro presente fatto di spiagge, ouzo e sirtaki che risuona dalle radio, il Peloponneso ha avuto una lunga storia scritta da principi e viaggiatori, dall’ingombrante presenza di Venezia, dagli splendori della civiltà bizantina: un insieme eterogeneo che ha formato un volto meno conosciuto e frequentato di questa regione cara agli studiosi di arte antica e cordialmente odiata dagli studenti del liceo classico. Quasi perduti e dimenticati tra le rocce di rilievi aspri e a tratti deserti, i castelli e le rocche del Peloponneso – ai quali dedicheremo il nostro interesse – sono gli ultimi testimoni di un lungo Medioevo che terminò a metà del ‘400 con la conquista ottomana dell’intera Grecia.

Le ragazze di Corinto
L’apostolo Paolo fu scandalizzato da ciò che vide una volta arrivato a Corinto, e lo scrisse nelle sue lettere. Sulla rupe fortificata di Akrocorinto che sovrasta la città del canale, il tempio di Afrodite ospitava, ci dicono sornioni gli storici, più di mille ragazze dedite alla prostituzione sacra in onore della dea dell’amore.
Fortificata al termine dell’epoca classica, Akrocorinto divenne franca, veneziana e turca: dall’alto delle mura il panorama merita la fatica della passeggiata di circa 4 chilometri che conduce alle sue porte (e che può essere evitata solo da una corsa in taxi). Oltrepassata la tripla porta costruita dai Turchi si può salire sulla prima cinta di mura, da cui ancora si affacciano verso il mare i resti dei vecchi cannoni. In un panorama di rovine, ogni passo porta in un’epoca diversa: una piccola chiesa bizantina fronteggia un minareto, poco lontano dalle possenti mura veneziane sorgeva il tempio della disinvolta dea. Riconoscibile per i resti di colonne atterrate, che evidentemente non vennero tutte utilizzate per costruzioni successive, il basamento dell’edificio è stato anche chiesa e moschea. Tra i resti sparsi su un’area di dimensioni imponenti si nasconde l’accesso (non facile da trovare) alla fonte di Peirene, sorgente che alimentava l’insediamento.

Bizantini a Mistra
Chi non ricorda Sparta e le gesta dei suoi inflessibili guerrieri alzi la mano. Duri e frugali quanto gli ateniesi erano chiacchieroni e amanti della bella vita, gli spartani costruirono le caserme della loro città in una pianura racchiusa da colline e montagne del centro del Peloponneso. Su di loro, la vendetta della storia è stata inflessibile: tra le case e le fabbriche di una città moderna e vivace, della Sparta di allora non rimane quasi nulla.Sulle pendici che salgono verso le creste del Taigeto cantato dal fior fiore dei poeti classici, tra macchia e pietre arroventate dal sole dell’estate, si nasconde invece un tesoro di tutt’altro genere: Mystra, Mistras o Mistra, quale che sia la grafia preferita. Qui i Franchi comandati da Guillaume de Villehardouin, nel guazzabuglio politico delle ultime crociate, costruirono nel 1249 una maestosa fortezza le cui chiavi passarono, dal 1262, nelle mani di un governatore bizantino che diede il via alla crescita della piazzaforte sulla rupe. Sede del Metropolita ortodosso, ornata da decine di chiese e conventi, Mistra raggiunse i 20.000 abitanti e ospitò il palazzo del Despota fin quando, ormai al tramonto del XV secolo, fu l’ultimo capoluogo di provincia bizantina a cadere nelle mani dei Turchi. Veneziana per un breve periodo alla fine del ‘600, sarebbe tornata sotto il controllo ottomano nel 1715. Cessò la vita, avanzarono le rovine, si inaridirono i commerci: ma la città, coperta di terra e vegetazione, rimase in silenzio ad osservare dall’alto la nascita della Sparta di oggi, vide l’insediamento del re Ottone e la guerra d’indipendenza, sempre in attesa dell’inizio della rinascita, ricevendo di tanto in tanto visitatori celebri come Goethe.
Dichiarata monumento dell’umanità dall’Unesco, Mistra si presenta come la città bizantina meglio conservata al mondo; i restauri avanzano (anche se talvolta sembrano vere e proprie ricostruzioni) e i turisti, lentamente calamitati verso l’interno e strappati a fatica al tour Epidauro-Micene-Olimpia, si affacciano timidamente su sentieri e scalette che salgono tra chiese e monasteri. Non basta una giornata per vedere la scoscesa e schiva Mistra: dall’alto del castello al recinto più basso che racchiude la Metropoli, cattedrale, complesso monastico e oggi anche piccolo museo bizantino, decine di costruzioni grandi e piccole ricordano la tortuosa topografia urbana del ‘400. Per la visita si può scegliere fra due ingressi, il primo posto in alto vicino alla fortezza del Kastro, il secondo, più frequentato, in pianura a poca distanza dalla Metropoli. Cuore della religiosità ortodossa greca, il complesso venne costruito fra il 1270 e il 1292 durante il mandato del primo governatore paleologo: sul pavimento una lastra di marmo con l’aquila bicipite commemora l’incoronazione dell’ultimo imperatore Costantino XI che avvenne proprio qui nel 1448, appena cinque anni prima della caduta di Bisanzio. Sulle pareti della chiesa, si susseguono a passo lento le figure rigide e solenni dei santi di un ciclo pittorico che gli studiosi garantiscono essere unico nell’intero mondo religioso dell’Oriente. Oltrepassate le sale del piccolo museo, con frammenti di sculture bizantine, tra le chiese della parte bassa della città s’incontrano l’Evanghelistiria, San Teodoro e la restaurata Odighitria, la “Madonna che indica la via”, sulle cui pareti un ciclo di affreschi del ‘300 rappresenta monaci, santi e scene della vita di Gesù.
Non tutti i monasteri sono stati abbandonati al loro destino di rovine. Negli anni ’50 del secolo scorso, quando si iniziò a scoprire nuovamente la città bizantina, qui vivevano poche decine di famiglie che vennero spostate nel vicino paese moderno di Néos Mistras e un gruppo di monache. Per incontrarle, bisogna salire fino alla metà del pendio cittadino dove si trova l’ombra rinfrescante del complesso della Pantanassa, la Regina del mondo , inaugurato nel 1426, dove abita tuttora una comunità di poche cortesi sorelle che al visitatore accaldato per la salita offrono acqua e frutta nel portico ai piedi della chiesa, dedicata alla Santissima Madre di Dio. Gli affreschi meritano un’altra sosta, piacevole anche per prendere fiato: immagini del XV secolo, ancora della vita di Cristo, si alternano a dipinti della fine del ‘600. Poco oltre, in discesa stavolta, si raggiunge il monastero del Perìvleptos, in parte scavato nella roccia all’inizio del ‘300, con uno splendido ciclo di pitture murali che raffigurano, partendo dall’immagine ieratica del Cristo Pantocratore, la Vergine, i profeti e i santi sistemati in ordine di importanza via via più lontani dall’altare. Se si entra invece dall’ingresso più alto ci si trova ai piedi delle imponenti strutture del Kastro, che mantiene ancora la forma dell’originale struttura militare crociata. Ai piedi delle mura è la chiesa di Aghia Sofia, che era la cappella finemente decorata dell’imponente palazzo dei despoti di Mistra. Edificato tra il 1249 e il 1400, il castello era la costruzione principale della città: anche se in restauro, rivela tratti delle sue architetture gotiche e un grande uditorio dove si tenevano le pubbliche udienze della corte.
Con le scarpe impolverate, sulla via dell’uscita, è ormai chiaro che Mistra non è una meta a cui dedicare un paio d’ore distratte. Una giornata tra rovine, silenzio, affreschi e il sottile canto delle monache che scandisce il tempo delle funzioni è il minimo indispensabile per provare ad entrare, anche se solo un poco e da spettatori, nella vita di una città bizantina del Medioevo.

Gli occhi della Serenissima
Davanti all’estremità sud-occidentale del Peloponneso che si protende a dividere lo Jonio dall’Egeo, per secoli transitarono le navi dei mercanti che facevano rotta verso l’Oriente: e le superpotenze dell’epoca, Venezia in testa, scelsero con cura gli approdi necessari a rendere più sicura la navigazione.
Kalamata è famosa nel mondo per le olive a dispetto del suo patrimonio d’arte e di cultura, che comprende anche i resti di un altro castello. Seguendo il lato orientale del golfo di Messinia per poche decine di chilometri si raggiunge la penisola di Mani (attenzione all’angusta stradina per Vathia e Porto Kagio), dove alcune delle antiche case-torri in pietra sono state trasformate negli ultimi anni a scopo ricettivo. Noi seguiremo invece la costa occidentale fino alla placida cittadina di Koroni, dove si affacciano sull’acqua le grandi mura di una fortezza. Proprio qui la Serenissima, dopo aver strappato la rocca ai Franchi, edificò una delle sue piazzeforti nel Mediterraneo che, insieme alla non lontana Methoni, fu ribattezzata come uno dei “due occhi della Repubblica”. Oggi il castello sorge tranquillo e semiabbandonato nel bel mezzo del villaggio di pescatori che hanno imbiancato a calce anche il possente leone di San Marco, ma la sua storia fu terribile e sanguinosa: gli spalti di Koroni hanno visto feroci assedi come quello di Barbarossa cui seguì la riconquista dei veneziani guidati dall’ammiraglio Morosini, conquiste, sconfitte e poi, durante la guerra d’indipendenza contro l’impero ottomano, il suicidio degli ultimi difensori accerchiati dai Turchi. Buona parte della cittadella dei dogi è divenuta parte del convento di Timíou Prodhrómou, mentre un parco pubblico circonda la piccola chiesa ottocentesca della Panaghia Elesterías, affacciata sull’antica muraglia, che conserva un’icona miracolosa.
Sull’altro lato della penisola si trova la cittadina gemella di Methoni, che si raggiunge sfiorando colline ondulate e una zona di spiagge molto apprezzata tra le quali spicca Finikoundas, fregiata dalla Bandiera Blu per la qualità delle sue acque e amata dai turisti nordeuropei per la sua atmosfera familiare e poco pretenziosa. Poi, di nuovo su un capo proteso verso l’Egeo, ecco la Modon di Marco Polo, che nelle locande del porto sostò durante i suoi viaggi. Qui il colpo d’occhio sulla fortezza è ancora più impressionante che a Koroni, e il paesetto con la spiaggia ai piedi delle mura della cittadella vive in simbiosi con le memorie di un passato decisamente più glorioso e militaresco del tranquillo presente. Provate, per credere, ad entrare nelle prime ore della giornata nella corte fortificata, di proporzioni tali da contenere tutto un villaggio, e a dirigervi verso il mare. Oltre la massiccia porta di pietra fresca di restauro, sull’acqua calma si specchia la torre turca che guardava l’accesso al porto, protesa verso il braccio di mare che separa Methoni dall’isola della Sapientza. Dopo la conquista del 1125 i veneziani iniziarono la costruzione del presidio, che non ebbe vita pacifica: più volte infatti gli eserciti ottomani vennero e furono cacciati fino a che, nel ‘700, Methoni cadde definitivamente nelle loro mani. Scomparvero così le antiche chiese della città fortificata e i grandi magazzini utilizzati dai mercanti veneziani di ritorno dalla Cina per stivare spezie, seta e altre mercanzie, rimasero solo la cinta e, solitaria in mezzo alla piazza d’armi, la colonna su cui si ergeva un tempo il leone di Venezia. E nell’abbandono sarebbe iniziato, qui come tra le pietre bruciate dal sole di Corinto o di Mistra, il lento oblio del glorioso Medioevo greco.

PleinAir 419 – giugno 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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