Trieste, oh cara

Una insolita, avvincente guida alla storica città e ai suoi dintorni, attraverso i ricordi e la narrativa d'un friulano di adozione. Buona lettura e buon viaggio.

Indice dell'itinerario

Il treno, lasciata Gorizia, andava avendo a sinistra le pietraie assolate del Carso; a destra, oltre l’azzurra acqua dell’Isonzo, le lievi ondulazioni del Collio coperte di vigne, poi la pianura con molti paesi. Ero seduto a destra, al piccolo finestrino delle lignee vetture di terza classe, dette “centoporte”, con lo sportello ad ogni scompartimento, bellissimo, perché alle stazioni si faceva in fretta a raggiungere la fontanella. Già allora appassionato di carte geografiche, avevo studiato il percorso e sapevo che dopo Monfalcone, seduto a destra, avrei visto il mare. Era il 1948, avevo dieci anni, vivevo a Roma; di mare conoscevo solo la scialba e affollata spiaggia sabbiosa di Ostia, il “non panorama”. Venivo dalla Carnia, dove trascorrevo l’estate.Il treno passò proprio sotto l’immenso cimitero militare di Redipuglia, impressionante memoria delle stragi di guerra; l’onorifico marmo copriva le ossa di una generazione costretta inutilmente a sacrificarsi. Tornai a guardare a destra; dei cantieri navali di Monfalcone si vedevano lontani, in controluce, grandi scafi e gru. Il treno si avvicinava alla costa, esposta a sud; era il meriggio: per la luce sfolgorante schermavo gli occhi. Il sole si rifletteva sul mare, visto dall’alto; perché il treno correva a mezza costa, lo spazio per il binario intagliato nella roccia bianca. Il verde di bassi cespugli – riconoscevo solo le ginestre – e qualche tratto di pini concedevano attimi di riposo all’intensità della luce sulla pietra chiara e levigata. Dove non c’era il riflesso, il mare azzurro si faceva più scuro e turchese a riva, mostrando la sua profondità. Il treno scendeva sempre più vicino alla costa, che terminava con un bordino di spiaggetta ciottolosa; qualche piccolo approdo, lungo la strada litoranea. Nella foschia e nel controluce, dalla linea diafana della costa si concretizzò il bianco castello di Miramare, sulla punta di una penisoletta coperta da una macchia di maestosi alberi; lo precedeva un borgo e un porticciolo, Grignano. Lo si vide un attimo, prima che il treno passasse dietro la collinetta, e dopo mi voltai a vederlo allontanarsi. Non era un castello vero, guerresco, con bastioni e torrioni; questo era inventato, una villa ingigantita, una reggia sul mare. Tornai a guardare avanti; oltre il grande Faro della Vittoria, che il treno aggirò con una curva, vidi finalmente la città: un profilo di case che saliva dalla riva alla collina, i moli e le gru del porto. Lungo la strada litoranea si infittivano gli edifici, ma il lato mare aveva vista libera sugli stabilimenti balneari: era Barcola, il sobborgo “passeggiata a mare” dei triestini. I capannoni della fabbrica Stock non bastavano a dare l’idea della periferia, che in effetti non c’era; un fascio di binari si staccava verso i moli di una zona del porto e lo scalo merci. Il treno s’infilava nella stazione, di testa; contai solo 4 binari. Era piccola ma pensai che lì finiva l’Italia e non si andava oltre. In effetti il confine con il mondo allora comunista era a pochi chilometri: la fascia di “zona A” fino a Muggia e la fascia di “zona B” sino al confine croato erano sotto il controllo militare della Gran Bretagna; solo nel 1954 la zona A sarebbe ritornata all’Italia, mentre la B fu unita alla gran parte del Carso, all’Istria, alle isole dalmate e Zara già passate alla Jugoslavia.
A Trieste avrei passato un mese di fine estate, ospite di uno zio della mamma; lo zio Giacomo, colonnello pluridecorato, a Trieste era stato vicecomandante del presidio e vi era rimasto da pensionato con la moglie (non avevano figli), anziché rientrare a Roma. C’era da capirlo; a parte i ricordi, qualche amico e l’idiosincrasia degli anziani per i traslochi, Trieste – anche nella precaria situazione politica di allora – era una città attraente, di alta qualità della vita: ordine e civiltà (stile vecchia Austria), aria pulita, bel mare; quanto ai giorni del terribile vento di bora, un pensionato può rinunciare a uscire.Per arrivare a casa dello zio si percorse tutta la riva lungo il porto: sgranavo gli occhi sulle navi, che da vicino non avevo mai visto prima; c’erano i binari del treno lungo la riva, quindi in città, e i vagoni merci si spostavano lentamente. A Piazza Venezia si prese una parallela alla riva; lo zio abitava in Via Corti, una stradina in salita tra palazzi scuri; anche l’appartamento era un po’ scuro, privo di visuale e sapeva d’antico. Poco male; perché con lo zio, alto, magro, elegante, simpatico, si viveva molto fuori casa, dove lasciava la zia. Lui aveva bisogno di aria, come ansioso di godersi Trieste con la buona stagione; sapendo che l’inverno – accentuando gli acciacchi – lo avrebbe costretto a qualche ritirata strategica, fino alla resa finale che di rado esce dai pensieri di un anziano.
All’epoca la ripresa economica era agli inizi e rare le navi mercantili scampate alla guerra; c’era qualche nave da carico ceduta dagli Stati Uniti, le “liberty” (come mi spiegò lo zio). I piccoli proprietari locali navigavano con economici e antiquati motovelieri, ben tenuti; sulla coperta il cassero, la ruota del timone, gli alberi erano di un bel legno lucente e le parti in ottone splendevano. Le navi da guerra che occupavano il porto in centro città erano inglesi: i marinai indossavano calzoncini bianchi al ginocchio e calzettoni; visti da vicino, in città, avevano barbe biondicce o rossicce e l’aria soddisfatta. A piedi o in jeep, giravano anche soldati in divisa cachi.
Dalla Riva si andava a San Giusto, passando per Piazza Cavana: antiche bottegucce, mercatino e centro dei piccoli traffici. Si saliva lungo le stradine e le scalinate del quartiere medioevale; le case erano più piccole, povere, ma le invidiavo perché godevano della vista sul porto. Lo zio mi mostrava anche i pochi ruderi della città romana, Tergestae, che non facevano una gran figura così stretti tra le case, o ridotti al basamento e ai mozziconi di colonne come il Tempio Capitolare. Specie ad un romano, che trovò modesta anche la piccola e semplice facciata della cattedrale di San Giusto; che poi dentro, invece. è grande, con affreschi e mosaici dorati. Il castello sembrava interessante, ma allora non visitabile. Il bello di lassù era il panorama sui tetti della città e sulle cupole verderame delle chiese, sulle colline e sul porto che continuava verso est, sulla costa compatta verso l’Italia e – oltre Muggia – sulla costa dell’Istria: si vedevano i profili collinari di tre penisole, distinte dalla tonalità sempre più chiara dell’azzurrino.
In centro, cioè la città bassa, c’erano le strade dritte e i palazzi importanti e grigi. Ce n’erano di sontuosi e di buffi, con file di finestre grandi (piani nobili) e file di finestrine (mezzanini); per gente bassa – scherzava lo zio – spiegandomi che gli imprenditori triestini avevano insieme casa, bottega, ufficio e i mezzanini erano per la servitù, gli impiegati (mezze maniche) e i magazzini; decorazioni con ghirigori in ferro, motivi floreali, statue, specie di donne che mostravano spavalde un gran seno nudo. Lo zio era anziano ma solido, ancora buon camminatore; non aveva l’automobile, come quasi tutti a quei tempi, ma si viveva bene lo stesso, senza inquinamento; si andava anche a Barcola. Si interessò alla mia istruzione: saputo che non ne avevo mai visto uno, mi portò al Museo di Storia Naturale. Anche il grande mercato del pesce, al Molo della Pescheria, era un’attrattiva.
Allo zio era rimasta solo una foto dello yacht che aveva posseduto e che non era riuscito a riavere dal Tribunale a guerra finita (lo aveva abbandonato quando, beffando i nazisti nel settembre del ’43, partì da Trieste per il Sud, ma intanto lo yacht finì ad altri); gli faceva rabbia. Per non acuirla, evitava di passare dal porto turistico, la “Sacchetta”, dove c’erano la sede dello Yacht Club e della Lega Navale, le barche a vela, i cabinati, i velisti, la bella gente… e il suo yacht in mano altrui. Ma tant’era il piacere di stare sul mare che si era accontentato di una barca a remi, ormeggiata in Canal Grande; è il porto-canale per i piccoli pescatori con barche basse, i cui colori vivaci risplendono sull’acqua scura.
Il Canal Grande è un luogo tipico: tra due quinte di palazzi nel Borgo Teresiano (in onore dell’imperatrice Maria Theresia), quartiere sorto tra fine ‘700 e inizio ‘800; in fondo la facciata neoclassica, a colonne, della chiesa di Sant’Antonio. Sulla destra un’altra grande chiesa, bianca con cupole e cupolini azzurri, dall’aria orientale. Infatti è San Spiridione, dei serbi ortodossi; perché Trieste era stata il porto dell’Austria: ci vivevano gruppi di mercanti stranieri e ognuno si costruiva la sua chiesa. Scarso lo spazio per incrociare e manovrare a remi (rare allora le barche a motore) alla stessa ora; ma lì erano abili barcaioli, triestini di nascita o di adozione; come lo zio, salutato con deferenza dai vicini di barca, anch’essi in preparativi di partenza. In Canal Grande si era condizionati dal ponte a livello stradale che dava continuità alla Riva, ma la cui costruzione aveva precluso l’ingresso ai velieri. La barca era sulla soleggiata sinistra del canale (guardando la chiesa); inginocchiati sulla banchina si prendeva il cavo d’ormeggio e si avvicinava la barca; si scendevano i pioli infissi nella parete verticale del canale, lurida per l’untuoso velo di nafta sempre presente in acque portuali. A bordo si toglieva il telone antipioggia (e anti? porcherie di gabbiano), si fissavano scalmi e remi, si pulivano i sedili: tutti lavori per i quali ci si sporcava; pertanto lo zio indossava una tuta da meccanico, con la quale attraversava fiero la città, benché tutti sapessero che era un colonnello. Il Canal Grande era in centro, ma era anche il porto dei poveri a causa della grossa scomodità del ponte basso e degli orari obbligati dall’alta marea che, seppure modesta in Adriatico, bloccava l’accesso. Talvolta per passare occorreva coricarsi supini sulla barca e farla avanzare spingendo con le mani sulle putrelle imbullonate del ponte; faceva un po’ paura stare al buio sotto quella massa di ferro e sentire le vibrazioni al passaggio del traffico sovrastante. Usciti in fretta da quell’incubo nero, ci si metteva ai remi per raggiungere acque pulite e fondali buoni. Imparai a remare, facile, e a pescare con l’amo; più difficile, perché si deve ingannare il pesce, ma non si tornava mai a mani vuote. Si remava spesso verso Barcola, talvolta verso il Vallone di Muggia dove, arrugginito e semiaffondato su un fianco, si vedeva il mitico “Rex”, cioè il relitto del più veloce transatlantico, vittima della guerra.
Gli zii ormai morti, tornai a Trieste nel febbraio ’60 con un’emozione non più fanciullesca ma giovanile. Avevo lasciato Roma e un lavoro da impiegato per fare il marittimo; in tasca il telegramma del Lloyd Triestino per l’imbarco come “amanuense” (addetto all’ufficio) sulla motonave ?Europa?, rotta per il Sud Africa via Suez, con 500 passeggeri.
Sullo stesso splendido percorso tra Carso e mare, un treno più veloce rispondeva all’impazienza di raggiungere la città che – in ripresa economica – mi dava lavoro. Percorsi la trafila dei marittimi, triestini e profughi dell’Istria diventata Jugoslavia, navigatori da generazioni. Si passava per gli uffici della società, la visita medica, l’ufficio collocamento, l’agente “spedizioniere”, la Capitaneria di Porto e – il novizio – anche per la sartoria che confeziona divise in 48 ore. La Capitaneria era sull’angolo tra Riva e Canal Grande, a Palazzo Carciotti, lineare edificio neoclassico: bianca pietra d’Istria, colonne a nobilitare la facciata, cupola verderame e tante antenne radio. La direzione del Lloyd Triestino, “il Palazzo” come lo chiamavano i marittimi, era l’imponente edificio sulla destra entrando dalla Riva nella grandiosa Piazza dell’Unità d’Italia. Il Lloyd era allora gloria cittadina, potenza economica, fonte di lavoro; dal palazzo i dirigenti godevano della vista sulla Stazione Marittima e sulle navi in manovra, giudicando il comandante (il barba in dialetto triestino) e il pilota (u praticu in portoghese). Un anno d’imbarco; dopo 50 giorni di viaggio, la nave ne sostava 6 a Trieste: due o tre li passavo in licenza a casa, a Roma; gli altri ero di servizio. Così, se non ebbi il tempo – per ragioni d’orario – di vedere i molti originali musei, potei comunque conoscere meglio la città e i dintorni. Nelle sere d’estate si andava su con la funicolare a Opicina, che è il borgo più alto sopra Trieste, con un più largo orizzonte. Altra meta Muggia, paese in stile veneziano, le calli, il duomo gotico con bianca facciata di curvilinei influssi orientali; le case colorate riparano dal vento il Mandracchio, minuscola darsena. Si saliva a Muggia Vecchia, santuario medioevale e gran panorama. Se c’era un?auto, si scorrazzava per il Carso. Nelle serate d’inverno ci si rifugiava subito nelle trattorie lungo il porto. La preferita era a Riva Grumula, un unico ambiente per marittimi fuori sede e studenti; la ghiacciaia rivestita in doghe di legno aveva tanti sportelli e prendeva l’intera parete a sinistra. Si mangiava quello che a bordo non si poteva avere fresco: la jota o altro bel minestrone, frittura di pesce e radicchio. Sarà stata fortuna, ma non incappai mai in una giornata di bora: la vidi solo nelle cartoline umoristiche.

PleinAir 329 – dicembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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