Tra l'Appennino e le Apuane

PleinAir torna in Garfagnana, zigzagando in camper tra i versanti dell'Appennino e delle Apuane che spalleggiano la valle e le sue bellezze. Ecco la prima delle tre puntate del viaggio.

Indice dell'itinerario

Risaliamo la sponda est del Serchio. Una decina di chilometri oltre Lucca, raggiunta dopo Ponte a Moriano la località di Vinchiana, una prima deviazione ci spinge su per una piccola area montana che porta il singolare nome di Brancoleria. In un attimo si passa dalla concitazione della statale dell’Abetone e del Brennero ai boschi, alla visione di un laghetto, a una grande tranquillità. L’assenza di traffico permette di sfidare l’angustia di un percorso povero di scansatoi, come da queste parti chiamano gli slarghi che consentono l’incrocio con altre auto. La strada è veramente stretta. Ma dopo quasi cinque chilometri ecco la prima delle due nascoste gemme romaniche che giustificano l’impresa. La pieve di San Lorenzo in Campo, quintessenza della semplicità, sorge dove non avrebbe potuto perché in quel luogo scosceso passava già la mulattiera che legava i borghi al fondovalle. Ma come rimedia l’ignoto capomastro medioevale’ Piazzando sulla mulattiera un campaniletto con la base scavata per far transitare persone e cavalcature. Questa è San Lorenzo in Campo, dove un camper trova a margine appena lo spazietto per una fuggevole sosta. Per l’altra pieve c’è ancora un chilometro e mezzo, ma qui le dimensioni sono altre: potrete fare la conversione e, se lo vorrete, anche una lunga sosta accanto allo spazioso sagrato. San Giorgio di Brancoli, secondo le fonti risalente al 772, racchiude anche nelle sue tre navate opere di qualità fra cui un ambone del 1100. Ha una bella abside e davanti alla facciata uno svettante campanile Dal parapetto del piazzale si dominano, trecento metri più in basso, il Serchio e Lucca.
Conviene ora ritornare a Ponte a Moriano per spostarci sulla parallela che corre lungo la sponda ovest del fiume. Potrete ammirare altre chiesette medioevali, come Santa Maria a Sesto, antico asilo di viaggiatori sulla Via Clodia, che risaliva tutto il Serchio per unire Lucca al porto di Luni (il litorale fu a lungo precluso da paludi e malaria) e che fu anche percorso dai pellegrini della Francigena. Più avanti, imboccando la deviazione per Pescaglia, si è subito alla pieve di Diecimo, dall’imponente campanile di bella impronta lucchese (a parte i merli ghibellini di un restauro dell’Ottocento). Ma la Val Pedogna, in cui stiamo penetrando, richiede altre perlustrazioni. Una sua laterale ci porta a Vetriano, che vanta uno dei più piccoli teatrini esistenti. Ebbe la sua origine tra Settecento e Ottocento in una stanza dove la gente del posto dava sfogo al gusto della rappresentazione scenica, finché un abbiente del posto non mise a disposizione uno spazio più ampio trasformato in seguito con i contributi delle famiglie in un teatrino adatto a una cinquantina di spettatori. Mentre scriviamo si sta procedendo a lavori di restauro in attesa della consueta stagione estiva.
Sopra Vetriano la strada sale di qualche chilometro per finire a Colognora in un ampio piazzale adatto per una sosta anche notturna. La visita mostra un ambiente urbano che ha respinto la modernità degli intonaci per conservare la grazia rude dell’antica pietra viva. Il toponimo, al pari di altri simili in Lucchesia, rammenta come Roma – per vincere l’indomabile ostilità dei Liguri Apuani – ricorresse a una sorta di deportazione, spostandone quasi 50.000 nel Sannio e nell’odierna Irpinia e sostituendoli con proprie colonie. Ne racconta Tito Livio. Ma a Colognora ci attende soprattutto una rara raccolta di cultura contadina. Un documento dell’828 dell’archivio diocesano di Lucca testimonia come all’epoca il borgo già vivesse del castagneto, rimasto d’altra parte fino a ieri essenziale risorsa economica della media e alta valle del Serchio. E il Museo del Castagno, nato per la ricerca appassionata e quasi maniacale di persone del posto, è oggi un sorprendente libro aperto su un albero di cui non si gettava proprio nulla, foglie comprese. Molto più, insomma, di un albero del pane (vedi PleinAir n. 305). Tra gli oggetti che ci hanno colpito, un’artigianale elaborazione del girello che – recandosi la famiglia contadina al lavoro – permetteva all’ultimo nato di baloccarsi da solo senza rischio anche sugli irregolari terreni del castagneto. Il museo è aperto tutti i festivi dalle 15.30 alle 18.30 oppure su appuntamento telefonando allo 0583 358159; l’ingresso è gratuito. Ridiscesi al fondovalle, una nuova deviazione sulla destra verso Celle Puccini attirerà chi intenda visitare l’antica dimora dalla quale la famiglia di Giacomo proveniva. Il musicista ci visse qualche tempo in gioventù; fra gli altri cimeli il piano è quello dal quale cominciarono a salire le note della Madame Butterfly. Di carattere nettamente ambientale l’obiettivo finale della nostra deviazione in Val Pedogna. Superato il paese di Pescaglia e raggiunto il passetto della Foce di Sella, a 745 metri, discendiamo al piccolo piano della chiesa di San Rocco, con ombra e prato invitanti alla sosta, riprendendo poi per Pascoso dove nel piazzale della chiesa troveremo l’ultima fontanella. Da questo piazzale parte una laterale tra i boschi (asfaltata) che ha nella parte iniziale il tratto più stretto e meno incoraggiante (comunque da noi superato senza intoppi). Per il resto dei quattro chilometri, alcuni scansatoi rendono meno angosciante l’idea di un eventuale incontro. Dove si vede un piccolo campanile isolato occorre tenere a sinistra. Siamo già entro il Parco Naturale delle Apuane. La strada termina a 1.050 metri di quota in un sito piacevolmente circondato da cime e crinali erbosi, adatti a brevi escursioni. Si può per esempio salire in meno di un’ora agli oltre 1.300 metri del Monte Matanna. Per la sosta, c’è solo un piazzale sterrato e cintato appartenente al custode dell’ex albergo e colonia montana Alto Matanna, il quale ci informava di aver in passato vietato ai camper l’accesso all’area dopo lo sconsiderato uso dei serbatoi da parte di qualche villano. I nostri lettori concorderanno che aveva ragione da vendere e fruiranno naturalmente in modo corretto dell’accesso, che viene oggi consentito. In qualche stanza a pianterreno dell’ex albergo il custode gestisce un bar-trattoria.

Uno sguardo sul ponte
Borgo a Mozzano, nota per le sue magnifche azalee, possiede anche il più famoso dei ponti cosiddetti del Diavolo. Attribuita alla famosa contessa Matilde, la signora di Canossa vissuta tra XI e XII secolo, l’opera deve la sua sagoma ardita alla necessità di collegare le sponde del Serchio – distanti in quel punto poco meno di cento metri – con arcate vincolate all’irregolarità delle rocce su cui basarsi. Ne nacque un ponte di pietra a schiena d’asino tutto speciale, ad arcate di dimensioni crescenti, fino agli oltre 18 metri di altezza della principale. E lo sguardo si sofferma sull’elegante asimmetria e sulla perfetta circonferenza disegnata dai riflessi sul fiume. Ai primi del Novecento la costruzione della ferrovia locale, che tuttora risale la valle, richiese un’altra arcata per il transito dei convogli, che ruppe certo la purezza di linee del manufatto ma risolse con garbo il raccordo tra il ponte e la strada lungofiume. Apparentemente fragile per l’arditezza del disegno, il “diabolico” ponte ha resistito più di ogni altro alle piene rovinose del fiume. Nel Medioevo, per cautela, era fatto divieto di attraversarlo con macine da mulino; rispettato nell’ultima guerra anche dalla ritirata tedesca, dovette in seguito sopportare addirittura l’attraversamento di veicoli leggeri. Mentre scriviamo il transito resta precluso agli stessi pedoni.
Per una puntata nella valle del Lima, a Bagni di Lucca, scegliamo la strada sul lato nord del torrente. Subito aiuta a calarci nell’atmosfera ottocentesca dei luoghi l’incontro con l’anziano Ponte delle Catene. Nel 1836 una piena travolgeva il ponte esistente e il duca di Lucca Carlo Ludovico dava l’incarico del nuovo progetto all’architetto Lorenzo Nottolini, lo stesso incaricato di realizzare lungo la sponda ovest del Serchio la rotabile tuttora chiamata Via Ludovica. Il Nottolinius, con questo nome lo ricorda la lapide all’entrata del ponte, parte per la Gran Bretagna dove nel 1826 è stato realizzato il primo ponte sospeso a catene, studia la nuova tecnologia, la applica con eleganza al ritorno in Toscana. Per il nostro tempo è divenuta archeologia industriale. Come documenti di un’epoca appaiono tanti edifici di Bagni di Lucca, la cittadina termale dove duchi e granduchi posero la loro residenza estiva e alla quale per tutto l’Ottocento e ancora nella prima parte del secolo successivo convergevano per cure e per mondanità nobili, artisti, letterati di tutta Europa. Ma l’efficacia delle differenti sorgenti termali su molti malanni era già stata apprezzata tra ‘400 e ‘500 da personaggi come Giuliano de’ Medici e Vittoria Colonna. Con il vostro mezzo dovreste fare due soste, la prima a Ponte a Serraglio, con il suo quartiere affacciato sul Lima, dove resta tra l’altro in piedi il casinò voluto da Carlo Ludovico e inattivo da cinquant’anni. Qualche chilometro più avanti c’è la Villa, il centro di Bagni, con le sue residenze d’epoca, il circolo dei forestieri fuori servizio, la chiesa degli inglesi da tempo destinata a differenti impieghi. Eppure il paese, con le sue ville del passato, le terme, i tavolini dei caffè, continua a fare del suo meglio per non cancellare del tutto l’aplomb dei bei tempi. Chi voglia sperimentare, perché no, le qualità delle acque, potrà provare per esempio alle piscine termali di Villa Ada. In montagna con la duchessa
Il bosco regna sovrano nella Val Fegana in cui il nostro mezzo si inerpica sulla strada voluta da Maria Luisa di Borbone per un più agevole collegamento di Lucca con l’Emilia e Modena attraverso l’Appennino. La chiamano ancora Strada di Maria Luisa, e prima di Tereglio si sfiora la solida sagoma neoclassica della dogana del tempo. Ogni tanto si incontra qualche contraddittorio divieto di circolazione cui capiamo che non occorre far caso. A Tereglio, suggestivo paese di montagna allineato per un chilometro su un sottile crinale, c’è ancora la casa in cui la duchessa, intorno al 1820, si fermava nel risalire la valle. E prima o dopo, nel battere i paesi del Serchio, troverete ancora qualcuno che vi racconterà la storia secondo cui ella volle la strada per favorire i propri incontri col duca di Modena. Intanto, cinque chilometri dopo Tereglio, deviamo brevemente per scendere all’Orrido di Botri (vedi PleinAir n. 315). La spettacolare riserva naturale, dotata di flora e fauna particolari e di un microclima con temperature molto basse, è caratterizzata da un lungo e stretto canyon percorso da un rio, con cascatelle, passaggi, guadi non sempre facili da praticare. La visita, guidata e con specifica attrezzatura (casco ottenibile anche sul posto, scarpe da ginnastica con ricambio, felpa, e così via) è possibile da metà giugno a metà settembre; le partenze, su percorsi di 2 e 4 ore, avvengono dal centro visitatori di Ponte a Gaio, prossimo all’inizio dell’Orrido, ma solo con il bel tempo. Al centro funziona anche una cucina con tavoli self-service all’aperto. A parte la settimana centrale di agosto, un camper non ha di solito difficoltà a trovare parcheggio anche per la notte. Ma oltre Ponte a Gaio la strada continua. Spingendoci fino al paese di Montefegatesi (4 o 5 chilometri, in parte di accettabile sterrato) accertiamo la praticabilità da Bagni di Lucca di un percorso alternativo a quello per Tereglio. Sullo sterrato ci accompagnano le regali evoluzioni ad ali ferme di una delle aquile che nidificano tra le balze di Botri.
Torniamo sulla strada della duchessa. Una comoda rientranza sulla sinistra, usata dai boscaioli per manovrare, risulta su misura per rifornirci a una gelida fonte. Giunti dopo una zona di prati ai 1.180 metri del Rifugio Casentini, scopriamo che è soltanto una casermetta della Forestale abitualmente chiusa. Appena oltre, l’asfalto termina e occorre fare manovra d’inversione: per raggiungere Passo di Giovo restano 6 o 7 chilometri da fare in mountain bike, oppure circa un’ora e mezzo di cammino sull’erto sentiero n. 16. Dai 1.674 metri del valico due estesi panorami abbracciano valli toscane ed emiliane. Vedute ancor più gratificanti (foschia permettendo) si hanno dai 1.964 metri del Monte Rondinaio, raggiungibile con un’altra ora di escursione seguendo il sentiero 00. In caso di vento sostenuto, meglio rinunciare.

Mestieri da giramondo
Essendoci ormai mentalmente preparati ad affrontare percorsi montani con carreggiata quasi unica e scansatoi rari come – per fortuna – il loro traffico, per raggiungere la nostra prossima destinazione di Coreglia Antelminelli ridiscendiamo solo fino a Tereglio, donde una bretellina tra i boschi ci porta prima a Lucignana (passeggiata all’eremo di Sant’Ansano nascosto nella lecceta), infine alla meta. Coreglia, paese in bella posizione tra i castagneti, per oltre due secoli praticò una forma tutta sua di artigianato, la creazione di figure in gesso che, svolta anche in altri centri della valle, sarebbe stata per lungo tempo il mestiere per eccellenza degli emigrati da queste terre. Ma se nel Seicento i figurinisti se ne andavano in giro per l’Italia, nei secoli seguenti sbarcarono un po’ in tutto il mondo, nei paesi europei (si dice che arrivassero in Russia a piedi), poi in America, Asia, Africa. Il gatto in gesso, di solito annerito col nerofumo di candela, fu nei primi tempi con altri animali un tema frequente per la facilità di formarne lo stampo. Ma i figurinisti furono presto in grado di riprodurre qualsiasi soggetto della vita d’ogni giorno, il marinaio, il suonatore, gli innamorati, i temi sacri, le divinità del mondo classico, offrendo i loro pensosi Schiller, Faust o Beethoven in Germania, Milton e Shakespeare in Inghilterra, e così via. Spesso partivano almeno in quattro, e trovata una stanza dove produrre si ripartivano i compiti: c’era chi formava, chi provvedeva alla colata in gesso, chi si portava a tracolla sulle scalinate delle chiese o ai crocevia frequentati la cesta piena di figurine da vendere, abbastanza leggere perché cave. Oggi Coreglia ospita in Palazzo Vanni un museo che ne espone più di mille (vedi PleinAir n. 291). Insieme a passaporti, diari familiari, lettere, ricordano l’intraprendenza e il coraggio di quegli uomini: si guarda tutto con un filo di nostalgia. Merita una visita anche il resto del centro storico. Per i turisti pleinair il Comune ha predisposto tre aree attrezzate (i cui pozzetti abbiamo trovato bisognosi di manutenzione). Ma per la sosta ci è sembrata comunque più conveniente la zona sottostante al parcheggio fuori la porta nord. Quanto al campeggio stagionale Pian d’Amora, nel castagneto adiacente al paese, è in programma la sua apertura annuale.
E’ giunto il momento di tornare sulla Ludovica, la più larga e scorrevole delle due strade tra le quali scorre il fiume. La segnalazione del lago di Gioviano conduce a un piacevole specchio d’acqua tra gli alberi, in concessione a un circolo di pesca e che ha un’origine alquanto singolare. Era un’area di sabbie e ghiaie deposte dal Serchio durante qualche cambiamento del suo corso e sfruttata in passato per cava di inerti. Mentre si approfondiva l’escavazione, negli anni Ottanta vi sgorgarono delle sorgenti che fecero nascere un laghetto di quasi un chilometro di perimetro. Forse anche per la purezza dell’acqua il suo popolamento ha dato ottimi risultati. Al circolo ci mostrano le foto di due storioni record, da 35 e 32 chili, ma vi si pescano anche carpe sui 20 e poi anguille, tinche e così via. Il messaggio per i camperisti in transito, specie se armati di canna, è di fermarvisi tranquillamente. Il sito è ombroso e adatto a una sosta notturna. A cento o duecento metri c’è il Serchio, qui fiancheggiato da una selvatica vegetazione ripariale. Poco lontano una strada sale tra verdi colline a San Romano e a Motrone, che decidiamo di andare a conoscere. Sono entrambi paesi di evidente origine medioevale: il primo mostra d’essere popolato da un centinaio di persone, per l’altro la maggior distanza dal fondovalle ha causato l’abbandono quasi totale. Benché più grande, Motrone è un vero paese del silenzio, senza più un negozio né gente sulle soglie. L’asfalto termina dove iniziano le prime case. Per i rudi acciottolati e tra gli antichi muri di pietra non una voce. Sono rimasti in venticinque.

PleinAir 360/361 – luglio/agosto 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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