Teste di legno

Lontano dai clamori della folla, in un Trentino arcaico e nascosto si celebrano due riti tra i più suggestivi delle Alpi: il Carnevale dei matoci di Valfloriana e il Rogo del Pino nel paese di Grauno, in Val di Cembra.

Indice dell'itinerario

L’ultimo a tenere alta la bandiera di una tradizione artigianale vecchia di secoli si chiama Remo Barcatta: è lui che a Valfloriana, nella minuscola frazione di Dorà, continua a creare le splendide maschere dei matoci e dei paiaci, protagonisti di un Carnevale nato, come si suol dire, nella notte dei tempi. Trascurando la leggenda, le origini di questa spettacolare manifestazione si possono realisticamente far risalire agli inizi del secolo scorso, quando si cominciò a rappresentare in chiave grottesca i cortei nuziali che nel Medioevo andavano di castello in castello.
L’Adige e il traffico dell’Autobrennero scorrono a una trentina di chilometri, ma qui sembra di essere in un altro mondo. Per partecipare alla rappresentazione la cosa migliore è arrivare all’agriturismo Fior di Bosco, quartier generale della festa, il mattino del Sabato Grasso: da qui parte il goliardico corteo che scendendo a piedi di frazione in frazione – sono una decina quelle che compongono il Comune di Valfloriana, e in tutto contano meno di 600 abitanti – giungerà a Casatta per il gran finale. Sono più o meno 6 chilometri di cammino, durante il quale va in scena un’ormai rara forma di aggregazione popolare che rinsalda l’antico patrimonio culturale della vallata. Al ritmo di una marcetta lenta composta appositamente per il Carnevale, tra sberleffi e ironiche battute il variopinto corteo scende lungo la strada, devia per i campi innevati e attraversa i minuscoli villaggi. A guidare il gruppo c’è sempre il matocio che procede agitando il campanaccio chiamato bronzin, e dietro di lui le altre maschere: i paiaci che ne combinano di tutti i colori, gli sposi sotto l’ombrello (lui travestito da donna e lei, la bela, da uomo), gli arlecchini che danzano in cerchio facendo volteggiare in aria un fazzoletto colorato, e poi i sonatori con le fisarmoniche. Così, in allegria e spensieratezza, la gente di Valfloriana riscopre le proprie radici, facendole rivivere ogni anno attraverso questa sorta di museo etnografico in movimento.
Arrivato al centro di ciascuna frazione, il corteo si imbatte in un piccolo sbarramento di fronte al quale il matocio ha il compito di ottenere il lasciapassare della comunità per proseguire verso la tappa successiva. Nella stretta parlata della zona ha inizio un esilarante duello verbale, il contrest, in cui il matocio – agevolato dalla maschera che ne distorce la voce – cerca di nascondere la propria identità a chi gli fa domande scherzose e irriverenti; in realtà, tutti sanno bene chi si nasconde dietro i travestimenti. L’allegro gruppetto dei paiaci, intanto, propone scenette mute ma piuttosto esplicite sui fatti più chiacchierati della valle. Prima di proseguire, maschere e turisti si mescolano intorno ai tavoli all’aperto dove vengono offerti dolcetti e specialità locali; l’ultimo atto è un buon bicchiere di fumante vin brûlé, servito con i mestoli da pentole riscaldate dal fuoco a legna, mentre intorno gli arlecchini intrecciano le danze.
A metà pomeriggio il corteo arriva nella piazza del municipio a Casatta, dove si terrà il gran ballo finale guidato ancora dagli arlecchini. Poi, ci si riunirà tutti nel salone comunale a far baldoria, facendo le ore piccole tra brindisi e grandi abbuffate.

Auguri di fuoco
Tre giorni dopo, il Martedì Grasso, a pochi chilometri di distanza va in scena il Rogo del Pino, retaggio di antichi rituali pagani di fertilità. Siamo a Grauno, ultimo avamposto della Val di Cembra, minuscolo gruppo di case arroccate sul crinale proprio alla fine della strada che arriva da Lavis: gli abitanti sono appena 149, tutti accomunati dal rigore di una vita quasi eremitica condotta all’aria cristallina dei 1.000 metri di quota. Il silenzio, rotto solo dal rintocco delle campane, avvolge il paese durante l’anno, ma quando si avvicina il Carnevale si risveglia l’allegria che precede la festa. Già nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, i coscritti diciottenni e gli altri giovani del posto si recano sulle montagne per tagliare sottili pini alti circa 6 metri, che poi legheranno alle quattro fontane del paese; se incautamente lo faranno prima della mezzanotte, però, chiunque avrà diritto di staccarli o tagliarli, costringendo la combriccola a tornare sui monti per prenderne altri.
La seconda fase del Carnevale ha inizio qualche giorno prima del martedì conclusivo, quando gli abitanti vanno nei boschi a tagliare un pino alto e robusto – precedentemente segnalato dalla Forestale – sfrondandolo dai rami e trascinandolo al limite dell’abitato. Nelle prime ore del giorno campale il tronco viene trasportato in Piazza Bociat dove si assiste a una divertente commedia in dialetto, durante la quale gli improvvisati attori mettono alla berlina i personaggi più in vista del paese riproponendo in forma satirica i fatti salienti accaduti durante l’anno. Alla fine della rappresentazione si trova sempre un colpevole che di solito è l’ultimo sposo dell’anno, condannato a “battezzare” il pino che così assorbe le colpe dell’uomo e diventa la personificazione del Carnevale.
Subito dopo l’albero viene faticosamente trainato con funi e catene lungo la strada principale di Grauno e conficcato nella busa del Carneval, su un colle accanto al cimitero. Nella profonda buca, ricoperta con la cenere e il carbone di tanti alberi bruciati nel corso degli anni, il tronco viene innalzato a forza di braccia alla presenza dei turisti, dei coscritti che indossano cappelli decorati con fiori, bamboline e nastri (una volta anche le piume del gallo cedrone) e dei bariselanti, di un anno più piccoli, così chiamati perché hanno il compito di portare piccole botti piene di vin brûlé da offrire ai presenti. A montaggio terminato, il pino si erge sulla valle come un totem solitario: verrà poi interamente ricoperto di paglia e legno da una staffetta di giovani che si passano corde, balle di fieno e vecchie cassette.
Tornati in paese, per tutto il pomeriggio, si mangia e balla al ritmo di un’orchestrina sotto il tendone riscaldato; poi, verso sera l’ultimo sposo dell’anno accompagnato dalla moglie appiccherà l’incendio gettando una torcia contro il pino e accendendo un grande rogo che a lungo illuminerà tutta la valle. Nel buio della notte l’intero paese assiste al magico spettacolo: al canto dell’Ave Maria il calore avvolge uomini e cose, mentre i bambini rincorrono le scintille e guardano estasiati le grandi lingue di fuoco e i vecchi restano in silenzio come antichi oracoli, cercando nell’altezza e nella direzione delle fiamme un auspicio per i prossimi raccolti.

PleinAir 403 – febbraio 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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