Terra madre

A Casola Valsenio, dove la pianura lascia il posto ai primi contrafforti dell'Appennino Emiliano, i frutti di una volta e le erbe spontanee sono al centro di una grande festa contadina in cui assaggiare varietà ormai scomparse dalle nostre tavole, salvate dall'oblio grazie al lavoro di un appassionato studioso.

Indice dell'itinerario

In un tempo non così lontano, quando sui monti e nelle campagne la miseria era vita quotidiana, nelle soffitte si accatastavano frutti di ogni genere come risorsa per i duri mesi dell’inverno: dava conforto al cuore sapere che, in caso di necessità, si poteva contare su un’abbondante riserva di nespole, noci, mandorle, avellane, pere volpine, azzeruole, melagrane, giuggiole provenienti dai boschi o dagli alberi spontanei che crescevano vicino alle fattorie, una modesta raccolta sufficiente però a sfamare la famiglia e ad alimentare piccoli commerci locali.
A partire dal dopoguerra, con la sempre più rapida diffusione di un miglior tenore economico, molti di quei prodotti sono scomparsi dalle tavole fino a cadere nell’oblio, e oggi pochi li riconoscerebbero anche solo a sentirli nominare. Ma la nostalgia di qualche agricoltore e l’interesse degli studiosi li ha riesumati dalle memorie del passato, e quei frutti dimenticati sono di nuovo protagonisti in una grande festa che si tiene in ottobre a Casola Valsenio, sulle colline dell’entroterra ravennate. In questo paesino collinare che dista meno di 25 chilometri dal trafficatissimo asse della Via Emilia la ricerca delle specie ortofrutticole e delle erbe di una volta è divenuta quasi una missione, di cui si fanno portatori i contadini che a decine allestiscono le loro coloratissime bancarelle nelle vie del centro storico. Tra forme bizzarre e profumi inebrianti, la folla passeggia lungo le strade, osserva con grande curiosità, chiede informazioni ai venditori, acquista e assaggia mele cotogne, uva spina, corbezzoli, sorbo e tante altre specialità: piccole produzioni che, come all’epoca dei nostri nonni, crescono da sé e vengono raccolte con religiosa attenzione, simboli di quella preziosa biodiversità che allora non aveva bisogno neppure di un nome. Non mancano ortaggi dall’aspetto quanto mai insolito, come i cavolfiori in tinte così accese da lasciare increduli: gialli, blu, viola, anch’essi nati spontaneamente. «Non ci sono trucchi – spiegava un contadino – nei miei campi vengono su da soli e senza coloranti». Se poi l’uno o l’altro frutto dovesse essere finito si potrà rimediare con le innumerevoli conserve, portando a casa barattoli di salse e puree, canditi e fantasiose marmellate, bottiglie di sciroppi, grappe e liquori o gustando preparati davvero originali come le azzeruole sotto spirito o il brodo di giuggiole che, per la sua zuccherina bontà, ha dato origine alla popolare espressione di contentezza.

Tutto in un giardino
I frutti di una volta, oltre a costituire un importante nutrimento, erano una sorta di orologio su cui si regolava lo scorrere dell’esistenza nelle campagne (“Smante quand us amana è zòzle e amante quand ch’u se smana” si diceva, cioè “Svestiti quando si veste il giuggiolo e vestiti quando si spoglia”, a ricordare che questa pianta è l’ultima a germogliare in primavera e la prima a perdere le foglie in autunno). Essenziali erano anche le funzioni curative, quando la medicina era soprattutto una pratica domestica e per trovare la materia prima dell’uno o dell’altro rimedio bastava allungare una mano verso alberi e cespugli: ad esempio, per far passare ai bimbi il mal di gola si dava loro qualche cucchiaio di marmellata di more, mentre per lenire il dolore delle scottature si tagliavano le noci a metà e si friggevano nell’olio, che veniva poi filtrato e utilizzato contro il bruciore. Sembra lontanissimo questo piccolo mondo antico in cui ben si conoscevano le proprietà di erbe e piante che ai nostri giorni hanno del miracoloso, e invece basta tornare indietro di mezzo secolo o poco più.
Un bel libretto di Giuseppe Sangiorgi sottolinea la varietà delle specie e ne evidenzia le analogie e le differenze con quelle facilmente reperibili nelle corsie di qualunque supermercato. Solo di mele e di pere, a voler citare due frutti considerati piuttosto comuni, ce n’erano un’infinità: la mela rosa e la ranetta, la panaja e la poppina, la casolana e la giugnola, mentre con i nomi delle pere, biancona, arancina, moscadella, burrosa, sangermana, bugiarda, i contadini recitavano uno scioglilingua staccandole dagli alberi.
Se fosse ancora vivo il professor Augusto Rinaldi Ceroni, padre spirituale del Giardino Officinale di Casola Valsenio e della Sagra dei Frutti Dimenticati, non smetterebbe più di parlare di quella che era la sua passione. Tutto cominciò nel 1938, piantando in via sperimentale alcuni semi in un modesto appezzamento vicino alla scuola agraria di Casola Valsenio: era il primo passo per realizzare quello che è divenuto uno degli orti botanici più famosi d’Europa, attivo dalla metà degli anni ’70. Su una superficie terrazzata di 4 ettari a circa 2 chilometri dal paese vengono coltivate e studiate sotto la supervisione di Sauro Biffi, degno successore di Rinaldi Ceroni, più di quattrocento specie di piante che vengono impiegate anche a scopo medico, cosmetico, alimentare, biologico e genetico. L’ultima immagine del vecchio professore risale alla fine degli anni ’90 quando, quasi novantenne, accompagnava ancora con entusiasmo i visitatori lungo la Strada della Lavanda e dei Frutti Dimenticati, che porta al Passo del Corso. Da qui si prosegue verso il Torrione di Monte Battaglia (che durante la Seconda Guerra Mondiale fu teatro di un cruento scontro fra Alleati e partigiani da un lato e tedeschi dall’altro) su uno sterrato lungo il quale sono state messe a dimora specie che paiono tirate fuori da una favola o da un ricettario di stregoneria medioevale: biricoccolo, fitolacca, lazzeruolo, maggiociondolo.
Oggi, grazie alla costanza nel tutelare queste testimonianze di un tempo ormai scomparso, l’intera valle del Senio, da Riolo Terme a Casola e più in là verso Badia di Susinana e Palazzolo, è una sorta di atlante botanico a cielo aperto. Chi arriva da queste parti, anche semplicemente annusando un fiore, ha finalmente la sensazione di capire che cosa significa ritrovare le proprie radici. E se poi ci si siede al tavolo di uno dei tanti ristorantini di Casola Valsenio durante la Festa dei Frutti Dimenticati per gustare uno dei coloratissimi piatti alle erbe dall’inatteso sapore, è come compiere un atto di devozione verso un mondo perduto: sorbendo una zuppa di malva, affondando il cucchiaio in una collinetta di ceci ricoperti di santoreggia o apprezzando l’aroma di un velo fumante di salvia fritta, sarà come riscoprire sé stessi attraverso la bontà di madre natura.

PleinAir 422 – settembre 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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