Strada madre

Inaugurata nel 1926, la Route 66 è stata per oltre quarant'anni protagonista del mito dell'America on the road, affascinando scrittori, musicisti, fotografi, cineasti e una folla immensa di viaggiatori che la percorrevano da Chicago a Los Angeles. Oggi, surclassata o assorbita dalle grandi autostrade, sta conoscendo un meritato revival come itinerario storico, quasi un museo all'aperto lungo 2.300 miglia.

Indice dell'itinerario

Può succedere che a rendere irresistibile il desiderio di un viaggio sia un’immagine. Nel nostro caso è successo con la fotografia di Andreas Feininger intitolata Route 66, Arizona, 1953 pubblicata in copertina dalla rivista Life nel 1955: la prospettiva di una strada che punta dritta verso l’orizzonte, una nitida stazione di servizio Texaco sulla sinistra e per tre quarti un cielo basso e profondissimo, con gigantesche nuvole bianche scolpite e torreggianti. Un singolo scatto realizzato a Seligman, Arizona, che è più efficace di tanti libroni fotografici su questo mitico nastro d’asfalto dell’America on the road.
Attorno alla Route 66 si sono intrecciate le storie del sogno americano, e non è un caso se John Steinbeck la definì Mother Road, Strada Madre, nel romanzo Furore. Lunga 2.448 miglia da Chicago, nell’estremo nord-est, alle spiagge di Santa Monica, esattamente dalla parte opposta, la strada federale US Highway 66 attraversa Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona e California, ed è stata il piano inclinato di flussi migratori verso l’Ovest non meno epici di quelli della colonizzazione del XIX secolo. Inaugurata nel 1926, fu simbolo dell’ottimismo seguito agli anni della Grande Depressione e alla Seconda Guerra Mondiale. Ha rappresentato, come nel secolo precedente le piste dei pionieri e le linee ferroviarie, un’opportunità di coesione culturale e sviluppo economico per le regioni attraversate. Ed è stata compiuta espressione della highway culture, quella motorizzazione di massa per cui tutto è concepito per essere fatto con l’auto e visto dall’auto. Lungo la Historic Route 66, oggi una delle centoventisei strade panoramiche nazionali tutelate dal Governo Federale, i protagonisti sono vecchi motel con i loro neon fantasmagorici, cafè, stazioni di servizio, trading post e tutto ciò che segue per soddisfare le esigenze di milioni di automobilisti. E oggi gli scheletri di tanti vecchi esercizi abbandonati, ricoperti dalla vegetazione e dalla polvere del deserto, sono testimoni silenziosi di un’epoca ormai consegnata alla nostalgia.

Nel New Mexico
Nel nostro programma, per sfruttare al meglio il tempo che avevamo a disposizione, abbiamo scelto di percorrere il tratto più vario della Route 66, quello che taglia i deserti del sud-ovest dal New Mexico alla California, con mirate deviazioni per visitare alcuni parchi nazionali, proprio come facevano le famiglie negli anni del boom.
Atterriamo di sera ad Albuquerque e la mattina successiva partiamo in direzione di Tucumcari seguendo questo tratto della Route a ritroso, verso est. Percorriamo l’autostrada, la Interstate 40 e alcuni tratti originari della 66 segnalati da puntuali indicazioni. Il primo impatto è folgorante: deserto, prateria, montagna, canyon, insieme a cultura nativa, ispanica e anglosassone, si fondono nell’abbraccio di una luce cristallina e di un cielo caleidoscopico che ha stregato pittori, scrittori e fotografi (si pensi a Georgia O’Keeffe, David Herbert Lawrence e Ansel Adams).
La nostra prima tappa in New Mexico, 30 miglia a est di Albuquerque, è Moriarty, dove ci sono i caffè d’epoca El Comedor e Jenk’s. Proseguiamo in un paesaggio sempre più aperto fino a Santa Rosa, che per i viaggiatori della Route significava soprattutto una sosta culinaria al Club Cafè di Ron Chavez, tempio della cucina southwestern: il locale ha chiuso nel 1992 dopo che è stato aperto il bypass della Interstate 40, che ha fatto piombare il centro della cittadina in un silenzio irreale e definitivo. Sperimentiamo la cucina messicana del Route 66 Restaurant, per palati e stomaci al titanio, mentre gli arredi, l’atmosfera rétro, i vecchi successi country alla radio e la gentilezza un po’ finta delle cameriere ci rimandano alle situazioni di tanti film.
Ripartiamo e l’orizzonte si dilata ancor di più. Sono lande brulle e sconfinate, percorse da lunghissimi treni merci le cui sirene hanno ispirato il suono dell’armonica a bocca nel blues. Visitiamo tre autentiche ghost town, Cuervo, Newkirk e Montoya: il fascino è quello dell’abbandono, dei cigolii provocati dal vento che muove le porte di edifici cadenti, dei binari morti di un vecchio tratto di ferrovia, di scritte semisvanite. Tucumcari è una città-simbolo dello spirito della Mother Road. Molti viaggiatori continuano a fermarsi in questa oasi nel deserto, annunciata per miglia da vistosi cartelli. Arriviamo al crepuscolo, con la strada bagnata da un acquazzone e l’immenso cielo del West striato di porpora e giallo. Sfilano i fantasiosi neon dei motel, nomi evocativi come Sahara Sands, Blue Swallow, Lasso, Palomino, Cactus, Buckaroo, Apache… Il Blue Swallow Motel è l’icona più nota dell’intera Route 66: le camere sono piccole, ma è come dormire in un museo. Proprio di fronte, il Tee Pee Curios è un emporio a forma di tenda indiana gestito dal simpatico Mike Callens, ingegnere aeronautico trasferitosi dalla California nel 1985. La città vecchia di Tucumcari, con i cinema dismessi e i poverissimi negozi, è immersa in un’atmosfera da confine del mondo.
Di nuovo sulla strada, questa volta in direzione ovest, lasciamo la Interstate 40 all’uscita 256, imboccando la US 84 verso nord. Al deserto subentra una bellissima prateria mentre saliamo di quota in direzione di Las Vegas (omonima della capitale del gioco d’azzardo): è il 4 luglio, festa dell’Indipendenza americana, e sono in corso grandi festeggiamenti nella piazza principale, dove fu girata la scena della parata in Easy Rider. Le belle dimore vittoriane del centro ricordano più una cittadina del Midwest che una polverosa città dell’Ovest. Nel pomeriggio siamo a Santa Fe, capitale del New Mexico ai piedi delle Sangre de Cristo Mountains: fondata nel 1607 dal governatore spagnolo Don Pedro de Peralta tredici anni prima che i Padri Pellegrini sbarcassero a Plymouth Rock, ha un’architettura caratterizzata dall’uso dell’adobe, il mattone di fango e paglia seccato al sole usato dagli indiani Pueblo. Su Downtown Plaza affacciano empori di artigianato indiano, alberghi e musei, come quello allestito nel seicentesco Palace of the Governors; a breve distanza si trova la cattedrale di Saint Francis, l’edificio di culto più importante ma non il più antico, che è invece la vicina San Miguel Mission costruita dagli Spagnoli nel 1710. Canyon Road è un tripudio di abitazioni private e gallerie d’arte tuffate nel silenzio e nel profumo dei pini.
E’ il momento di immergersi nella cultura ispanica e indiana. Poche miglia a nord di Santa Fe lasciamo la trafficata US 285 e ci addentriamo in una regione appartata di vallette boscose per raggiungere il santuario di Chimayò, meta di un imponente pellegrinaggio durante la Settimana Santa: la chiesa, anche questa in adobe, custodisce un’impressionante quantità di ex voto e una polvere considerata miracolosa per guarire le ferite. Tornati sulla 285, in breve arriviamo a Taos, uno dei resort più ambiti dalle celebrità locali che vi possiedono ranch e ville, proseguendo fino a Taos Pueblo, il più noto dei diciannove villaggi di cultura indiana nel New Mexico. I nativi della città sono sempre stati aperti verso gli stranieri, accettano i turisti ma si offendono molto ad essere etichettati come una sorta di museo vivente, anche se è difficile lasciare il villaggio senza questa sensazione. La visita del resto è a pagamento, e si versa una tassa alla riserva anche per fotografare (attenzione perché è rigorosamente vietato fare riprese in chiesa, nel cimitero e alle persone senza consenso, e la polizia tribale è severissima).
La panoramica Turquoise Trail, ovvero la NM 14 che si snoda per 50 miglia fra pianori desertici e la vista della Sandia Mountains, ci permette di visitare Cerrillos, Madrid e Golden, ancora tre minuscole ghost town rivitalizzate da colonie di artisti. Torniamo così ad Albuquerque, capitale economica del New Mexico, dilagata nell’ampia valle del Rio Grande ai piedi delle Sandia Mountains. E’ una città in cui convivono modernità yankee e forte presenza indiana e ispanica, grattacieli e baracche. Per i viaggiatori della Route il motivo d’interesse è Central Avenue, che a partire dagli anni ’40 si trasformò in una pirotecnica sequenza di burger joint, gas station, drive-in restaurant, motel: percorrerla oggi è come viaggiare sulla macchina del tempo. Pochi lo sanno, ma proprio qui, in una stanza del Sundowner Motel, Bill Gates e Paul Allen fondarono il gigante Microsoft.
Attraversato il Rio Grande, la nostra strada inizia a salire gradualmente guadagnando la sommità di Nine Mile Hill, il primo degli altopiani che segnano il paesaggio ad ovest di Albuquerque, su cui i nativi insediarono villaggi in posizioni di difesa come i pueblo di Laguna e di Acoma Pueblo. Ritornati sulla NM 124, si segue la 66 attraverso i villaggi di Budville, Cubero, San Fidel e McCarty’s. Sostiamo per uno spuntino a Grants, cittadina un po’ desolata che alla fine degli anni ’50 conobbe il boom dell’uranio, e proseguiamo per Bluewater dove fotografiamo lo Swap Meet 66, un garage tappezzato da un’incredibile quantità di targhe automobilistiche e cerchioni. In un paesaggio dai toni vermigli raggiungiamo la coloratissima Gallup, dove si allinea sulla Route un miscuglio di motel, stazioni di servizio, banchi dei pegni, empori e rivendite di liquori, tutti muniti di sgargianti insegne. La città, vicina ai confini della Navajo Nation, è considerata la capitale indiana degli USA, nel bene e nel male: gli irrisolti problemi che affliggono le riserve, in particolare gli alti tassi di alcolismo, crimine e povertà, ne condizionano l’immagine e rendono sconsigliabile aggirarsi a piedi nelle ore di buio, ma questa è anche la sede del più importante raduno dei nativi, lo spettacolare Inter-Tribal-Indian-Ceremonial che si tiene in agosto, e il maggior centro di smistamento di artigianato indiano. Oltre ai bei tappeti navajo e ai gioielli in argento e turchese – in verità abbastanza costosi – molto ricercate dai collezionisti sono le bambole kachinas intagliate nel legno, che hanno un grande valore simbolico e spirituale. Una curiosità di Gallup è l’hotel El Rancho, inaugurato nel 1937 dal magnate di Hollywood David W. Griffith e divenuto base delle troupe che in quel periodo giravano film nell’area: tra gli ospiti registrati ci sono Kirk Douglas, John Wayne, Katharine Hepburn, Ronald Reagan, Humphrey Bogart e Gregory Peck, mentre le foto autografate delle star tappezzano il mezzanino della sontuosa lobby in stile rustico-western.

In Arizona
A 2.000 metri di altitudine, in un pulito scenario che ricorda le Alpi, Flagstaff è uno dei centri più importanti della Route in Arizona. Empori di abbigliamento western e gallerie d’arte convivono con ristoranti vegetariani, librerie new age e sale per massaggi, mentre nei bar del centro le schiere di sciatori e di turisti diretti al vicino Grand Canyon si mescolano agli studenti della Northern Arizona University. Lungo la Route, che qui si chiama Santa Fe Avenue, immancabile la lunga sequenza di motel e ristoranti dove l’atmosfera on the road è assicurata, compreso il frastuono dei treni merci che passano poco lontano. Dopo la cena al Miz Zip’s Cafè, che serve clienti locali e di passaggio da oltre quarant’anni, da non perdere una serata rigorosamente country al Museum Club, grande balera in stile western-alpino che da oltre settant’anni richiama gli appassionati con la sua grande insegna a forma di chitarra.
Deviando dalla 66 a nord di Flagstaff, in un paio d’ore di guida si raggiungono gli spazi e i silenzi smisurati del Grand Canyon. A questa indiscussa meraviglia della grande natura americana ci avviciniamo con lo spirito dei viaggiatori della Route, che si accontentavano di affacciarsi sul baratro per poi riprendere la marcia verso ovest, e anche noi proseguiamo fino a raggiungere Williams, circondata da prati e pinete a oltre 2.000 metri di quota. La piccola downtown, puntualmente costellata di neon, offre anche empori e negozi di antiquariato, ma i prezzi sono decisamente elevati.
Nell’aria frizzante di montagna ci dirigiamo ora a Seligman, il luogo della fotografia di Andreas Feininger che ha ispirato il nostro viaggio. Dedichiamo un’intera giornata a fotografare minuziosamente i vari edifici d’epoca, alcuni restaurati, e soprattutto a fare conoscenza con il barbiere più famoso degli States, Angel Delgadillo, che accoglie i viaggiatori della Route 66 nel suo barber shop del 1950, dispensando racconti che grondano di genuino romanticismo della vita sulla strada. Seligman è anche il punto iniziale di un tratto di 150 miglia della Route, perfettamente conservato e autonomo rispetto all’autostrada, che arriva sino al confine con la California: è un viaggio di grande suggestione, fra deserto e prateria, con i rotoli di tumbleweed che invadono la carreggiata e gli onnipresenti, interminabili treni merci che arrancano paralleli alla strada. A Truxton sostiamo al Frontier Cafè & Motel, un tuffo nel passato e nella più profonda cucina roadside, mentre ad Hackberry visitiamo una vecchia stazione di servizio trasformata in un colorato museo di vecchie insegne e pompe di benzina.
Ora la 66 scende verso Kingman, cittadina in pieno sviluppo grazie al clima e alla vicinanza di località di grande interesse turistico. Veri luoghi di culto nella recente riscoperta della Route sono il Mr. D’z Route 66 Diner, dal look American Graffiti, e il Route 66 Museum allestito nella Powerhouse, una centrale elettrica del 1907. Ma ci sono anche connessioni inquietanti con la cronaca poiché molti sostengono che Kingman e le colline circostanti siano rifugio di bande neonaziste e organizzazioni paramilitari clandestine.
Una breve deviazione ci porta a Oatman, una città fantasma molto particolare. Ad est di Kingman si attraversa la Interstate 40 e si imbocca la Oatman Road, dove il deserto si fa all’improvviso montagna, mentre la 66 si attorciglia su sé stessa per guadagnare il Sitgreaves Pass, da cui inizia la discesa verso la nostra meta e il Colorado River. Oatman ha vissuto agli inizi del ‘900 le ultime fortune della corsa all’oro, per poi decadere negli anni ’30, ma la comunità fu salvata per un ventennio proprio dal passaggio della Route: il traffico lungo la main street dalle facciate western proseguì fino al 1953, quando venne inaugurata la variante sud che aggirava il paese. Oggi i pochi residenti vivono di un turismo fatto di fuoristrada che arrivano a frotte nei weekend, di carote offerte agli asinelli che vagano nelle strade, di gadget e finte sparatorie di finti pistoleri. Proseguiamo da qui fino a Topock, ultimo centro dell’Arizona, e ci immettiamo sulla Interstate 40 per la parte conclusiva dell’itinerario.

In California
Le 300 miglia della Route 66 dal Colorado River alle spiagge di Santa Monica hanno una dimensione costante: le distese lunari del duro, pietroso e torrido Mojave Desert, tagliato in due dalla Santa Fe Railroad che vi costruì cisterne e baracche nei siti ove già gli indiani avevano segnalato la presenza d’acqua, chiamandoli in ordine alfabetico: Amboy, Bristol, Cadiz, Danby, Essex, Fenner, Goffs, Homer, Ibex… Oggi quella stessa distanza si percorre in poche ore di autostrada, ma dagli anni ’20 ai ’40 i viaggiatori impiegavano, se tutto andava bene, due giorni.
Il nostro viaggio è ormai in dirittura d’arrivo, ma qui in California ci aspettano ancora altre due tappe all’insegna della vita on the road. Ad Amboy è stata restaurata una bella stazione di servizio degli anni ’40, il Roy’s Cafè & Motel, set di numerose pellicole tra cui The Hitcher. E prima di venire intrappolati dal traffico tentacolare di Los Angeles non possiamo non rendere omaggio a un mito dei nostri giorni, il Bagdad Cafè a Newberry Springs, dove è stato realizzato il fortunato film omonimo. E mentre ci avvolge la calda luce del tramonto sul deserto, come se fossimo sul set, sappiamo che questo primo viaggio sulla Route 66 non rimarrà l’unico.

PleinAir 430 – maggio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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