Stella a tre punte

Il Triglav, la montagna dalle tre cime che campeggia sulla bandiera slovena, brilla di luce propria nel firmamento dell'alpinismo. Una sfida per i più esperti, una meta classica per quanti amano la natura

Indice dell'itinerario

Scriveva all’inizio del secolo scorso l’alpinista Tom Longstaf: “Il Triglav domina un mondo di sogno, un mondo in cui scompare la nozione del tempo, un mondo ricco di angoli reconditi e d’impreviste fenditure e brecce dove all’improvviso appaiono forme rocciose che hanno dell’irreale…”.
Già, irreale. E’ l’aggettivo che forse più di altri si adatta a quest’angolo selvaggio delle Alpi Giulie slovene. Più si sale, più lo scenario del monte più alto del paese diventa rupestre e lunare: il mondo del Triglav, il Tricorno, è fatto di pietra bianchissima, pareti verticali che si perdono nel cielo, burroni senza fine, desolati altipiani modellati dai millenni. In quota, il vento e l’acqua hanno sagomato la roccia calcarea, creato superfici ondulate, scanalature, buche che sembrano orme di animali preistorici.
L’origine del paesaggio è narrata nella leggenda di Zlatorog, il camoscio dalle corna d’oro incaricato di custodire il fantastico tesoro nascosto in un meraviglioso giardino fiorito all’ombra del monte Bogatin. Allora la vita scorreva in armonia con la natura; le Dame Bianche, fate gentili e buone, si preoccupavano di mantenere floridi i pascoli e le foreste, ma anche di aiutare gli uomini in difficoltà. Tutto cambiò all’improvviso quando un avido cacciatore, pur di impadronirsi del tesoro, sparò al camoscio dalle corna d’oro senza però riuscire a ucciderlo. Zlatorog guarì grazie a una pianta magica, la rosa rossa del Triglav, e una volta recuperate le forze fece precipitare il cacciatore da un dirupo prima di sparire con le Dame Bianche. Alle loro spalle restò una landa desolata, il mare di pietra del Tricorno.
In realtà i chimici spiegano più prosaicamente che il paesaggio si deve all’acqua meteoritica: la sua acidità trasforma il carbonato di calcio in bicarbonato solubile scavando il suolo e alimentando torrenti che all’improvviso spariscono sottoterra, per ricomparire a distanza di chilometri e formare sorgenti, laghi, fragorose cascate e fiumi spumeggianti.

I monti di Zio Giulio
All’ombra del Triglav – che tra il 1920 e il 1945 segnò anche il confine del Regno d’Italia – sgorgano la Soca (ovvero il tratto sloveno dell’Isonzo) e la Sava Bohinjka. Deliziosa è la Dolina Triglavskih Jezer, la Valle dei Sette Laghi: il più basso di questi, il Crno Jezero, si trova a 1.400 metri di altitudine al margine della foresta sopra la parete Komarca, mentre il più alto, il Rjavo Jezero, a circa 2.000 metri nel cuore di un’arida ma insospettabilmente affascinante landa carsica. Questi modesti bacini lacustri non hanno immissari né emissari, ma potrebbero essere collegati tra loro da vie sotterranee che confluirebbero prima nella cascata della Sava Bohinjka e quindi nel lago di Bohinj, il più vasto del paese. La valle rientra nei confini del parco nazionale del Triglav, istituito nel 1981, che si estende per 83.807 ettari tutelando ambienti non ancora deturpati da eccessi urbanistici e da impianti di risalita.
I paesi del fondovalle sorgono ad altitudini piuttosto modeste e non ci sono strade che portano in quota: per scoprire la montagna simbolo delle Alpi Giulie bisogna dunque camminare parecchio, superando almeno 1.500 metri di dislivello in salita e altrettanti in discesa, quale che sia la direzione da cui si proviene (dall’altopiano di Pokljuka che si trova una ventina di chilometri a sud-ovest di Bled, da Mojstrana o anche dalla Valle di Trenta e da Ribcev Laz, sul lago di Bohinj).
Come la morfologia del paesaggio, anche l’appellativo di Tricorno è legato a un’antica figura mitologica slovena: un dio con tre teste che esercitava il proprio potere sulla terra, sul mondo ipogeo e sul cielo. La possibilità d’incontrare la poco rassicurante divinità non scoraggiò il medico Lorenz Willonitzer che, accompagnato da un cacciatore e da due minatori, riuscì a raggiungere la vetta del Triglav. Riportano le cronache dell’epoca: ‘La via da qui in molti punti non è più larga di due scarpe ed è costituita da rocce rotte dai fulmini. Qui gli accompagnatori di Willonitzer iniziarono a farsi timorosi; ma tutti si fecero coraggio e si arrampicarono lungo il filo della cresta fino al punto più alto…’.
L’impresa riuscì il 26 agosto del 1778, otto anni prima della storica salita al Monte Bianco che decretò la nascita dell’alpinismo moderno. Oggi la scalata del Triglav è agevolata da corde metalliche che rendono meno difficili anche i tratti più esposti; all’interno del parco sono a disposizione dell’escursionista una trentina di rifugi gestiti e una buona rete di sentieri, generalmente ben segnati. Per gli sloveni salire su questa vetta (la cui sagoma troneggia sullo stemma e sulla bandiera della Slovenia) è una questione d’orgoglio nazionale, un pellegrinaggio al quale nessun giovane vuole rinunciare, e alcuni anni fa non desistettero dall’impresa neanche il presidente e i suoi ministri. Non c’è perciò da meravigliarsi se, da giugno a settembre e in particolare durante i weekend, i rifugi Trzaska Koca e Koca pri Triglavskih Jezerih sono presi d’assalto da decine e decine di escursionisti.
La salita, del resto, è tra le più belle e varie delle Alpi Giulie: dal lago di Bohinj si passa alle faggete, dai pascoli alle pietraie d’alta quota. Il massiccio è celebre anche per la notevole varietà di specie animali e vegetali, alcune delle quali endemiche. Nessuno ha mai trovato la Scabiosa Trenta descritta da Baltazar Hacquet, neanche Julius Kugy che la cercò per tutta la vita compiendo centinaia di scalate nei luoghi più remoti. Nato a Gorizia nel 1858, il poliedrico Kugy (come tanti suoi predecessori ed emuli) fu botanico, scrittore, alpinista, esploratore e musicista; a lui va il merito di aver fatto conoscere le bellezze delle Alpi Giulie in tutta Europa e in suo ricordo restano i libri e decine di vie nuove.
Zio Giulio, come ancora lo ricordano gli alpinisti della zona, s’innamorò della Valle di Trenta, posta al limite occidentale del parco del Triglav: cominciò a frequentarla da giovane, quando era più interessato alla botanica che all’alpinismo, e nel 1878 pubblicò la prima monografia sui monti di Trenta. Anche quest’angolo delle Alpi Giulie, benché meno noto di altre località della Slovenia, offre scenari di rara bellezza, in particolare lungo il Soca. A nord di Bovec il fiume s’insinua in forre profonde, spesso attraversate da ponti di legno sospesi che danno accesso ad abitazioni rurali. Sulle sue acque turchesi si praticano kayak e rafting, anche per percorsi piuttosto impegnativi, mentre chi ama il parapendio potrà decollare da una postazione non lontana dal rifugio Mangartskemsedlu (1.906 m), ottima base di partenza per la salita al Mangart (vedi PleinAir n. 362).
“Mettiti in cammino per tempo – scriveva Kugy – sali per la via più facile e breve e rimani a lungo su quel largo osservatorio che domina i monti e il mare, e guarda, guarda! Credi a me, è un consiglio buono…”. E arrivati in cima non si potrà che dargli ragione.

PleinAir 372/373 – luglio/agosto 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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