Speciale Abbazie/7 - Gemma del bosco

Le foreste del Casentino sono senz'altro più famose e più estese. Ma anche il Pratomagno, la lunga catena tra le province di Firenze e di Arezzo con l'abbazia di Vallombrosa, merita una visita da parte degli appassionati di natura e di storia.

Indice dell'itinerario

Le foreste del Casentino sono senz’altro più famose e più estese. Ma anche il Pratomagno, la lunga catena tra le province di Firenze e di Arezzo, merita una visita da parte degli appassionati di natura e di storia.
I primi possono seguire le strade sterrate e i sentieri che salgono ai 1592 metri della Croce di Pratomagno e ai 1538 del Poggio Uomo di Sasso, passeggiare a primavera lungo ruscelli e cascate, inoltrarsi nei valloni e nei boschi nella speranza di un incontro con cervi, scoiattoli e daini.
I secondi hanno a disposizione piccoli borghi medioevali, splendide e poco conosciute pievi romaniche e soprattutto l’abbazia benedettina di Vallombrosa, una delle mete più frequentate tra i monti a portata di mano da Firenze. Circondato da fitte foreste di abete, castagno e faggio, il primo eremo fu fondato in forme semplicissime nel 1028 da San Giovanni Gualberto, ed ebbe nel 1051 la sua prima chiesa in legno.
Nota per il suo rigore morale, la congregazione vallombrosana fu in prima linea nella lotta contro i vizi della Chiesa medioevale e per il ripristino della purezza della regola benedettina. Tra i suoi protagonisti più noti fu il monaco – da allora ricordato come “l’Igneo” – che sfidò a giudizio di Dio il vescovo simoniaco di Firenze Pietro Mezzabarba e camminò con successo sui carboni ardenti.
Tra il Due e il Quattrocento l’importanza di Vallombrosa si accrebbe, e il monastero fu rapidamente ampliato. Un altro rifacimento avvenne nel corso del Seicento, dopo il saccheggio del 1529 ad opera dell’esercito di Carlo V. Un severo torrione, il solo sopravvissuto all’assalto, ricorda oggi l’aspetto che il complesso aveva alla fine del Medioevo.
All’inizio dell’Ottocento, quando Vallombrosa stava tornando all’originario splendore, il monastero fu abolito dalle leggi napoleoniche. Trasformato in scuola forestale (la prima d’Europa), fu affiancato da un importante arboreto sperimentale esteso su nove ettari, nel quale crescono oltre tremila esemplari di 1300 specie diverse.
Oggi Vallombrosa resta un punto di riferimento importante per chi s’interessa alla gestione dei boschi. L’arboreto c’è ancora, l’eremo del Paradisino ospita gli studenti di Scienze Forestali dell’Università di Firenze, la Riserva Naturale di Stato che circonda l’abbazia, estesa su 1270 ettari, affianca a un bosco da seme di abete bianco appezzamenti a pino domestico e faggio. Il sottobosco include l’agrifoglio, la fauna comprende il capriolo, il tasso, lo scoiattolo e il lupo.
Ma l’abbazia c’è ancora. Progressivamente rioccupata dai religiosi a partire dal 1949, oggi al centro di un vasto programma di restauri che dovrebbero concludersi per l’inizio del Giubileo del 2000, Vallombrosa ospita oggi una dozzina di monaci che alternano la preghiera e lo studio con l’apicoltura e la cura della vicina foresta.
Frequentato come sede di ritiri spirituali, il monastero ha oggi un aspetto severo che ben s’intona al colore scuro delle vicine foreste. Superate una cancellata in ferro e l’imponente facciata completata nel 1640, si traversa il piccolo chiostro del Mascherone e si entra nella chiesa, di origine romanica ma in gran parte rifatta tra il Sei e il Settecento, che contiene intarsi lignei e quadri di notevole valore. La visita si completa con il chiostro, il refettorio e le imponenti cucine del monastero. La conoscenza della zona prosegue con la salita a piedi o in auto verso il Paradisino, dal cui terrazzo si gode un perfetto colpo d’occhio sull’abbazia, il Giogo di Secchieta e il crinale del Pratomagno.
Agli appassionati d’arte e storia, invece, consigliamo senz’altro di costeggiare alla base il versante della catena che digrada verso il Valdarno. La pieve di San Pietro a Reggello, la parrocchiale di Santa Maria a Pian di Scò e soprattutto la pieve di San Pietro a Gropina stupiscono con i loro capitelli e le loro sculture zoomorfe, e mostrano al visitatore un aspetto poco o nulla conosciuto dell’arte medioevale della Toscana.

PleinAir 326 – settembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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