Sono forti questi romani

Dopo il Monte Bianco e l'Alta Via dello Stubai, ecco una nuova avventura dell'ormai noto gruppo degli escursionisti formato famiglia (o quasi): cinque ragazzi - di cui due un po' più cresciuti - e dieci scarponi intorno al Monviso.

Indice dell'itinerario

L’avvicinarsi dell’estate 2003 aveva portato con sé una serie di crucci nella nostra piccola comunità di sedicenti escursionisti della domenica. Anzitutto, il pessimo campionato della Roma e i risultati di un fiammeggiante Milan – sciagurata congiuntura che sconsigliava di addentrarsi in remote valli alpine in compagnia di un milanista sfegatato come Federico. Poi un clima decisamente imprevedibile, con un caldo torrido già da maggio.
Ma tant’è: i grandi uomini si riconoscono nei momenti di crisi. E così, fedeli al motto “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo” ci troviamo all’alba di uno dei primi giorni di luglio sul treno diretto a Torino, dove abbiamo appuntamento con i nostri compagni d’avventura. Destinazione il Monviso, una misteriosa montagna triangolare che sorge nelle plaghe più occidentali delle Alpi, circondata da valli dove testimoni attendibili danno per certa la presenza di sette eretiche e di oscuri riti di origine celtica.
Il nostro dream team, stavolta, è al gran completo: oltre allo scrivano, i ragazzi ci sono tutti e tre (oramai trasformati, da quei simpatici, paffuti e timidi bimbetti di appena tre anni prima, in energumeni pelosi e dai piedi enormi) e, ad alleviare gli acciacchi morali del più anziano, si è unito al gruppo un componente ancora più in età portando il totale a cinque.
Da Torino, sotto una canicola ancora più terribile che a Roma, un trenuccio di pendolari ci porta a Pinerolo, dove la gloriosa ferrovia delle valli termina oggi tragicamente contro un muro; nuova sosta nel caldo e poi via in pullman per Bobbio Pellice, nel cuore delle valli valdesi. Solo una dozzina di chilometri di asfalto (e ben più di 1.000 metri di dislivello) separano questo ridente borgo dal rifugio Barbara Lowrie, punto di partenza del tour. Nessun dubbio increspa la nostra granitica volontà di sportivi: un taxi, dopo lunghe trattative sul prezzo, ci porta – finalmente al fresco – proprio davanti alla meta, adagiata nel cuore di una splendida valle popolata di mucche e pecore al pascolo. Il rifugio, tutto nostro sul far della sera, è veramente un luogo incantevole, con una cucina degna di nota ingentilita dalla cortesia dei gestori.

PRIMO GIORNO
Dal rifugio Barbara Lowrie (1.753 m) al rifugio Willy Jervis (1.750 m), 3 ore e mezzo
La mattina, quasi di buon’ora, dopo aver ripassato in fretta e furia come si fa uno zaino, il sentiero inizia a scorrere sotto i nostri piedi prima in un bosco, poi su un crinale che, a causa del caldo ancora afoso, scompare di colpo in un romantico nebbione scozzese. Al punto che quasi non vediamo – dopo 650 metri di dislivello – la porta del rifugio Barant, aperto da poco tempo sul colle che collega la Comba del Pis, da dove eravamo partiti, alla Conca del Prà, ultima propaggine della Val Pellice. Zuppi di sudore, nebbia e pioggia, ci consoliamo con vari interessanti particolari su questo approdo (che si dice offra una splendida vista sul Monviso, circostanza che non siamo in grado di confermare): è pieno di cose da leggere, ha una splendida stufa di ghisa, che peraltro non tira, e offre a tutte le ore del giorno ottimi pizzoccheri al sugo e vino rosso. Dopo uno spuntino e un riposino, gli sgraziati tentativi di Federico e Gaetano di suonare chissà quale nenia dei Modena City Ramblers con due chitarre abbandonate sul posto ci spingono velocemente all’aperto. Sotto una piacevole pioggia battente iniziamo la nostra discesa verso la Conca del Prà, invisibile nella nuvolaglia 550 metri più in basso.
Il primo giorno di cammino, si sa, può riservare brutte sorprese: non si è abituati alla fatica, lo zaino pesa, la vista fa strani scherzi. Uscendo dalle nuvole, oramai vicini al fondo della grande valle e con la rassicurante mole del rifugio Willy Jervis a portata di mano, indicare ai miei compari una colonna di lama carichi di esotiche mercanzie. «Già, e mo’ arrivano gli elefanti» è una delle risposte più civili che riesco a ottenere. Ma la realtà si conferma quella: un gruppo di francesi sta compiendo un suo tour du Viso accompagnato da un piccolo branco di sputacchianti animali andini (che, in tre, trasportano molto meno bagaglio di un simpatico e banale somaro parcheggiato a brucare fuori dalla porta del rifugio). Grande e ben gestito, lo Jervis offre camerate piacevoli, docce mediocri e un’ottima cena in un paesaggio veramente eccezionale. Davanti a noi si allunga la valle del Prà fino ai costoni che, di colpo, iniziano la salita verso il rifugio Granero e il lontano Col Seillière, più di un migliaio di metri sopra le nostre stanche teste.

SECONDO GIORNO
Dal rifugio Willy Jervis (1.750 m) al rifugio Battaglione Alpini Monte Granero (2.377 m), 2 ore e mezzo
Notte serena, anche se funestata da qualche capocciata contro il soffitto a forma di microscopica mansarda e dal gruppo francese lamatrasportato che, alle 6 di mattina, inizia a far scrocchiare le sue buste di plastica rigida. Colazione con il sole che fa capolino dalle finestre, poi una splendida camminata in piano lungo il fondovalle, verso i tornanti del sentiero che si intravvedono all’inizio di un bosco.
Sulla salita, ecco immediatamente la nostra formazione standard: Giacomo per primo, seguito da Federico con il suo cappellino multicolore giamaicano, poi Gaetano, io e, a guardarci le spalle, Sandro che dà sicurezza al gruppo (anche se talvolta scompare per lunghi periodi). Procediamo sbuffando, in un silenzio rotto solo dallo scampanio di un gregge che si precipita a valle sul versante opposto della conca, fino ai piedi della morena su cui si trova, illusoriamente vicino, il nostro prossimo alloggio. Mentre ci affatichiamo lungo la traccia che segue il filo della cresta della morena, un ronzio scoppiettante sale di tono alle nostre spalle: è il gestore del rifugio che, con la sua moto da trial, porta su uno zaino carico di pane e salami. Giunti sul piazzale li assaggiamo immediatamente, finché tre paia di occhi si posano su una serie di giubbotti salvagente e di pagaie nascosti in un angolo. Questo posto si chiama, ben a ragione, Lago Lungo: e poco dopo, mentre con Sandro ci alleniamo a far rimbalzare dei sassi sulle acque turchesi del lago, i ragazzi navigano avanti e indietro tra urla e risate a bordo di una splendida canoa gialla (intimoriti solamente dai tuffi di due bambinette olandesi che sguazzano allegre nell’acqua a 5 gradi).
Dopo aver affrontato con il giusto impegno tutti i giochi possibili – compresa un’accanita partita di bocce con il figlio del gestore del rifugio – e ammirato doverosamente il tramonto, andiamo finalmente a dormire per essere svegliati dal frastuono spaventoso di una delle bimbe olandesi che precipita da un letto a castello. Poverina, non fa neanche in tempo a piangere: la madre, bionda e sportiva, le tappa la bocca con la mano e la infila di corsa a testa in giù sotto le coperte.

TERZO GIORNO
Dal rifugio Battaglione Alpini Monte Granero (2.377 m) al rifugio Vallanta (2.450 m), 4 ore e mezzo
Anche se il sole è appena sorto, fa caldo lungo i 500 metri di salita che portano al Col Seillière da dove, per la prima volta, il panorama si allarga verso le montagne vicine. Mentre alcuni divorano cioccolata in quantità, ci affacciamo per vedere chi arriva: è un gruppo olandese di signori di mezz’età che, con la loro guida, arrancano tra pietre e chiazze di neve.
Per arrivare al Viso, da qui ci tocca scendere nel vallone francese del Guil dove vediamo in lontananza il Refuge CAF du Viso, di cui ci è stato raccontato ogni bene (per il cibo) e ogni male (per la crudeltà dei gestori): noi, saggiamente, decidiamo di fermarci solo un po’ e di non rischiare una notte tra queste mura straniere. Il rifugio, appena ristrutturato, è in realtà molto bello anche se, già che «è mattina», non si può usare il bagno, riempire la borraccia o sedersi all’ombra. Giacomo, forte del suo francese, chiede «une toilette, s’il vous plait» e viene spedito in malo modo in una specie di garitta di latta che, in pieno sole, sfiora i 70 gradi. Oramai fa veramente caldo, e seguiamo quasi in piano la valle fino allo specchio blu del Lac Lestio, dove ci bagniamo il più possibile prima dei pietrosi 400 metri di salita fino al Passo di Vallanta che finalmente – dopo esserci accasciati fra le pietre – la vista del Monviso con a fianco il Visolotto. Nerissimi, in questa estate priva di neve, dominano il vallone di Vallanta che scende maestoso verso una serie di laghetti, appena intuibili dall’alto.
Sulla discesa la conversazione si fa decisamente più piacevole: si parla di cinema, di musica (quest’anno vanno fortissimo il beffardo Aragorn e gli irriverenti spagnoli Ska-P) e incontriamo a varie riprese escursionisti che parlano con un sorprendente accento calabro-piemontese e si aggirano in cerca di sentieri sconosciuti. Lasciamo sulla sinistra i laghetti di Vallanta – la mia idea di una deviazione per andarli a vedere non viene neanche presa in considerazione – e poi, sulle rive del suo lago, appare lui, il rifugio più curioso che abbia mai visto. “Costruito con un’ardita architettura che ricorda il profilo del gigante delle Alpi” diceva un opuscolo che avevo letto prima di partire: in realtà si tratta di una sorta di strana piramide dalla sommità metallica. Il dormitorio al secondo piano sembra disegnato da Escher, con otto livelli di letti a castello ad angolo retto tra loro, e mentre prendiamo posto sento la voce di Giacomo che filtra fioca da 6 metri al di sopra del mio letto e chiede se qualcuno ha visto i suoi calzini, svaniti per sempre nel baratro tra un giaciglio e l’altro.
Qui la gestione è un po’ troppo alberghiera, con gettoni doccia che ti danno giusto il tempo di insaponarti prima di chiudere l’acqua calda e una certa freddezza nel trattare gli ospiti. La nebbia sale e inizia a bagnare un po’ tutto, mentre all’esterno operiamo con maestria i piedi di Giacomo coperti di vesciche. Verso le dieci di sera compaiono alla spicciolata degli scout disperati che sono saliti da Pontechianale trasportando le loro eccezionali tende canadesi a 8 posti da 50 chili l’una. Dormiranno vicino al vecchio rifugio Gagliardone, dalle forme decisamente più ragionevoli della nostra dimora.

QUARTO GIORNO
Dal rifugio Vallanta (2.450 m) all’albergo di Pian del Re (2.020 m), 7 ore e mezzo
La giornata si annuncia dura e ci sforziamo di partire presto, battuti però dai nonnetti olandesi che partono a tutta velocità in discesa per il vallone: li seguiamo, al lento passo di Giacomo che in salita corre e in discesa soffre; fino a che, dopo una mezz’ora di cammino, si accorgono di aver sbagliato strada e tornano su al rifugio Vallanta. Ci permettiamo di guardar male la loro guida, che cammina a occhi bassi. Dopo aver sceso quasi 500 metri, incontriamo due allegre ragazze scout che ci chiedono se abbiamo visto qualcuno dei loro: li hanno persi ieri sera e sono, guarda un po’, i capi del gruppo.
La discesa continua da qui verso Pontechianale, ma noi dobbiamo seguire il sentiero che, dalle case della Grange Gheit, inizia a salire verso il Passo di San Chiaffredo, 800 metri abbondanti più su. Dopo la prima oretta di cammino, il buonumore dei giovani partecipanti alla gita sembra svanire come neve al sole, anche per via di qualche incontro francamente un po’ fastidioso: ad esempio una ragazza francese che, tutte le volte che ci vede, gorgheggia «Buon appetito» e ridacchia, fino a che Giacomo non inizia a ringhiarle contro e poi, interiorizzata la sua furia, parte come un missile verso il valico, staccandoci tutti in con uno sprint impressionante.
Quando arrivo al colle trovo i ragazzi seduti su un mucchio di sassi (inizio a pensare che il Monviso sia tutto un po’ pietroso) e una nuvolona chiara che inghiotte rapidamente noi e i laghi Lungo e Bertin proprio mentre stavo per fotografarli. Con una falcata non più elastica arriva anche Sandro e possiamo partire per il nostro prossimo colle, il Passo Gallarino, dove oramai non si vede più nulla. Scendiamo per un sentiero, pure quello invisibile, verso la valle dove ogni tanto appare qualche lago tra le nuvole e poi finalmente il rifugio Sella. Qui l’umore è oramai nerissimo, e beviamo un tè rallegrati solo dal cicaleccio di un gruppo di prosperose figliole che sono appena arrivate per un corso d’alpinismo. Poi comunichiamo ai giovani che dobbiamo scendere per ben 650 metri fino a Pian del Re: già che camminiamo da più di 5 ore, l’idea di altre due ore di cammino non ci sorride. Anche perché scopriamo che, perlomeno nella prima ora, si sguazza tra sassi e pietroni, per la gioia delle ginocchia di Gaetano e mie e delle bolle strepitose che decorano i piedi di Giacomo.
E’ sabato, e una massa enorme di escursionisti sta salendo verso il rifugio Sella che infatti, anche dopo aver riempito tutte le sue dépendance di latta, non aveva avuto posto per noi. Finiscono le pietre, superiamo una lastra di roccia su cui qualche buontempone di una fantasiosa pro loco ha scolpito la frase “Il Monviso vi saluta e vi ringrazia” e ci affacciamo su uno splendido paesaggio fatto di laghi – Chiaretto, Superiore e Fiorenza – per poi calare finalmente nella piana delle sorgenti del Po. Qui, invece dei fumanti accampamenti delle tribù celtiche, incontriamo decine di tende, camper, barbecue e centinaia di macchine prima di scivolare in camera nello storico e accogliente albergo di Pian del Re (lasciando calze e scarpe sul pianerottolo ad eterno monito per i passanti).
La sera passa tra una discussione su che fare dell’acqua del Po (berla? Portarla a Roma? Lasciare alla sorgente una lapide dedicata a Francesco Totti?) e il gestore, dopo aver scoperto che siamo “di giù” ci dice che, se per una persona normale la tappa di domani richiederebbe 4 ore, «per dei romani almeno il doppio». Mortalmente offesi, lo puniamo finendo tutti i piatti e vassoi di polenta, spuntature e spezzatino che osano avvicinarsi al nostro tavolo e poi andiamo a dormire un po’ appesantiti, cullati da padani sogni di gloria.

QUINTO GIORNO
Dall’albergo di Pian del Re (2.020 m) al rifugio Barbara Lowrie (1.753 m), 4 ore
La mattina inizia con sinistri scricchiolii: sono le nostre giunture e la gola di Gaetano, che non si sente molto bene. Assisto strabiliato al gesto eroico di Giacomo e Federico che gli svuotano lo zaino per non farlo faticare, mentre io e Sandro – fieri dei nostri ragazzi – ci carichiamo di una maglietta a testa, con un gesto di grande valore simbolico. Salutiamo il gestore, che non perde occasione per dirci che è la prima volta che vede un gruppo di romani che camminano, e cerchiamo di uscire velocemente dal mostruoso parcheggio domenicale che si sta allargando a vista d’occhio sul Pian del Re.
Dopo un lungo pezzo su una strada sterrata saliamo decisamente verso destra in direzione del Col d’Armoine, che cerchiamo un po’ tra pascoli quasi verticali (perché, come al solito, siamo finiti dentro una nuvolona imponente). Lo troviamo, quasi 700 metri più in alto di Pian del Re, e ci concediamo una lunga sosta con allegro festeggiamento. Con questo colle le nostre salite sono finite, non resta che scendere: lo facciamo tranquillamente, diretti verso i laghetti e la ripida discesa che porta al Lowrie. Il rifugio – è sempre domenica – è assediato da una folla gigantesca che ovunque mangia, frigge, cucina e si arrossa al sole. Ci creiamo uno spazio vitale con il semplice e vecchio trucco di togliere gli scarponi e mettere i piedi nel ruscello; poi si legge, si ascolta musica, si gioca a carte. La signora del rifugio ci riconosce immediatamente e si scusa per la confusione ma, d’altronde, sono le giornate così che fanno andare avanti l’economia.
La sera, pian piano, tutti vanno via e rimaniamo soli, a guardare il tramonto sulle montagne. Domani, tristemente, il viaggio sarà lungo, con le sue tante tappe verso Torino e poi verso casa dove, implacabile, ci aspetta di nuovo la canicola.

PleinAir 384/385 – luglio/agosto 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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