Se queste son Prealpi

Quasi al confine con la Slovenia, una piccola valle remota ci racconta di antichi costumi tutelati con cura, come l'ambiente protetto da un parco in cui il viaggio in libertà si fa esperimento.

Indice dell'itinerario

Arrampicarsi sui monti? Si dice alpinismo. Esiste il Club Alpino, ma non quello prealpino. Esistono e vogliono continuare a esistere – anche senza la naja – gli Alpini, mica i Prealpini. Sarà magari per questo che le Prealpi sono meno considerate e frequentate: montagne modeste, buone solo per gli anziani attenti al cuore e alle giunture. Verde e natura sì, ma senza il grande spettacolo delle Alpi.
I geografi invece usano un metro diverso, diciamo pure letterale, dicendoci che le Prealpi sono i primi monti che sorgono dalla pianura, davanti alla catena maggiore. E’ così per le Giulie, che chiudono l’orizzonte a nord-est e al cui alto profilo, già anticipatore della frescura e del canto dei torrenti, guardano con desiderio quelli di pianura sprofondati nella calura estiva della bassa friulana; e dopo la pioggia, se la visibilità è al meglio, quei monti imponenti si vedono persino dalla Laguna di Venezia. A tutelarne le bellezze, il Parco Regionale delle Prealpi Giulie tracciato intorno alla Val Resia, che scende per 20 chilometri da est a ovest fino al punto il cui il fiume omonimo confluisce nel Fella (che poco più avanti si unisce al Tagliamento); a sud l’area protetta comprende la catena del monte Musi, una serie di vette poco al di sotto dei 2.000 metri ma dalle ripide pareti rocciose, ad oriente il gruppo del monte Canin (2.587 m) culminante nello sloveno Triglav, l’ex italiano Tricorno.
La zona, alquanto isolata perché non attraversata da grandi arterie di collegamento, è anche scarsamente antropizzata – i residenti sono più o meno 1.300 – e il perimetro del parco esclude volutamente i centri abitati, riconoscendo ai resiani un grande senso del paesaggio e la capacità di prendersene cura. Questa gente di origine slava giunse dalle regioni danubiane nel VI e VII secolo riuscendo a mantenere intatto il dialetto arcaico, nonché usanze, costumi e riti antichi come le consegne della cameranza (un gruppo a turno annuale per il sostentamento della chiesa); in occasione di cerimonie e festività gli uomini indossano i tipici abiti neri con cilindri o bombette e le donne, anch’esse in nero, adottano un corpetto decorato e ai piedi gli scarpetti, con tomaia in velluto e suola di stracci pressati e cuciti a mano.
Il traffico qui non esiste, neppure deviando dal fondovalle per la stretta strada che sale al valico di Sella Carnizza e di qui a Uccea, alle porte della Slovenia (il confine è aperto da marzo a ottobre, dalle 9 alle 20). All’estremità opposta, Resiutta è la cerniera con i grandi assi di spostamento fra la Pianura Padana e il nord-est europeo: è lambita dall’autostrada per Tarvisio, ma anche a Ferragosto, quando si concentrano sagre paesane ed eventi, sono più gli emigranti in vacanza che i forestieri. Anche per la vetta del Canin tutti salgono dall’altro versante, quello di Sella Nevea dove la funivia porta a quota 1.850, mentre dalla Val Resia l’approccio è naturale, funivie zero e bisogna farsela a piedi da quota 1.190: più fatica, più solitudine, più soddisfazione.
La poca gente solo nel fondovalle e l’assenza di turisti chiassosi lascia indisturbati scoiattoli, cervi, caprioli, volpi, gatti selvatici, linci, camosci, stambecchi, marmotte, cinghiali; sono stati segnalati orsi provenienti dalla Slovenia, mentre il simbolo del parco è la coturnice, un fagianide dal piumaggio grigio-azzurrino, è il simbolo del parco. Si ha quasi la sensazione – per quanto desiderati e ben accolti dalla Pro Loco – di essere un po’ intrusi in una zona con uno sviluppo turistico minimo dove c’è un alberghetto, qualche tappa per il ristoro, ma non un campeggio né una sosta attrezzata: questi sono percorsi nuovi, sui quali ci si può affidare alle visite guidate dell’ente parco oppure scegliere e godere l’avventura.

Le porte della valle
All’area protetta si può accedere da sud risalendo la statale 13 fino a Venzone, monumento nazionale rifatto pietra su pietra dopo lo scempio del sisma del 1976: chiesette, palazzi, eleganti case borghesi in un insieme di garbata armonia, qua e là solo qualche resto a ricordare il terremoto. Da qui si risale la Valle Venzonassa, modellata dall’ultima lingua del ghiacciaio del Quaternario, dove l’omonimo torrente si fa strada tra detriti morenici; la mulattiera lastricata in pietra reca il solco profondo lasciato dal ferro dei pattini delle slitte da fieno. Grande è la varietà biologica, con un abbassamento di 400 metri dei limiti della vegetazione dovuto alla piovosità e alle caratteristiche delle rocce, mentre i venti caldi della pianura creano l’habitat ideale per piante tipiche dell’area mediterranea e illirico-balcanica, finché tutto cambia salendo ai 1.631 metri della Forcella Slips e ai 1.958 del Plauris.
Altro ingresso, poco a nord di Tarcento nell’alta Val Torre, è Lusevera, chiusa dalla catena del monte Musi, palestra d’alpinismo e involo per il parapendio; ai piedi scorre la suggestiva sorgente del Torre. Vanto della località sono il Museo Etnografico e le tre grotte di Villanova di cui per ora solo una, la Nuova, è attrezzata per la visita (ma non è poco, essendo lunga ben 7 chilometri).
A nord del parco si trova Moggio Udinese, paese di notevolissimo e restaurato lindore, diviso in tre nuclei: Moggio di Sopra sulla destra della valle del Fella, Ponte dove le rive si restringono e regalano alle acque un bel color turchese, e Moggio di Sotto verso il torrente Aupa. A dominio della valle l’abbazia di San Gallo, eretta nel XII secolo sulle rovine di un castello del quale rimane una torre; oggi ospita l’operosa e claustrale povertà delle Clarisse.
Dal lato opposto dell’autostrada, poco a monte, Resiutta fu stazione romana sulla via del Norico. Già paesino di transito, in omaggio alla velocità è rimasto tagliato fuori dalla nuova statale (ma i commercianti l’hanno rallentata ugualmente trasformandola per 200 metri in una sorta di grande mercato-trattoria per chi arriva dall’Est). Imboccando la valle del Resia si nota una fabbrica addossata al ripido monte: vi si producevano oli minerali da materiali estratti sulla montagna sovrastante e portati giù dalla teleferica. Lì il fiume si è aperto un varco, intaccando la roccia che formava la riva sinistra del più potente Fella, e a monte della stretta si allarga in un’ansa bordata da una rude spiaggetta presso il doppio paesino di Povici (di Sotto e di Sopra). Da qui, per due sentieri che più avanti si uniscono, si risale per 4 chilometri il rio Resartico che scende dalla parete esposta a nord per un dislivello di circa 600 metri. A parte un vecchio acquedotto e una miniera abbandonata, nei cui primi anfratti ci si avventura con la torcia, qui l’interesse è per gli appassionati di geologia, fossili e flora.
Altra escursione da Povici, rilevante per il paesaggio e l’architettura degli edifici, è sul sentiero 743 che inizia alla testata del ponticello sospeso sul rio Serai. Per piccoli tornanti si raggiunge a quota 350 il pianoro di Borgo Cros (un gruppo sparso di case contadine abbandonate, mancando la strada, già dagli anni ’50): la visuale coglie d’infilata tutta la Val Resia, ed è ancora meglio dai 719 metri del monte Sflincis da dove si ammira anche un lungo tratto di quella del Fella.

Passeggiate di confine
Per essere una piccola valle del versante meridionale delle Alpi, quella di Resia si presenta di una certa ampiezza: la corrente turchese, bordata di alberi che separano la strada dal fiume, vaga senza salti né rapide nel vasto letto ciottoloso che offre refrigerio ai bagnanti; peccato che in estate il livello sia troppo scarso per una discesa in canoa, ma al disgelo primaverile si può tentare. Ad eccezione di Povici, i villaggi si svilupparono tutti su terrazze erbose lungo la valle dove c’era abbastanza terreno per edificare case con cortile e per la fienagione, mentre le pendici dei monti rimasero coperte dai boschi di faggio e di pino nero.
Il versante esposto a nord, più ampio e comunque soleggiato, è intaccato da vallette trasversali ognuna delle quali è un’escursione: quella di Rio Nero si compie interamente a piedi, mentre sull’altro versante è più comodo l’itinerario lungo il Rio Barmàn perché per i 2 chilometri iniziali si può utilizzare la carrozzabile per Uccea. Poco oltre Borgo Lischiazze si trova un parcheggio in cui lasciare il v.r. per prendere il sentiero 703 (ben tracciato, quasi in piano e ombroso perché si sviluppa sotto un faggeto), che si abbandona dopo circa 500 metri. Ve ne sono altrettanti di percorso, più stretto e scomodo a causa dei massi sul tracciato: ma non è difficile superarli, invogliati dal crescente e gioioso fragore del rio. Si esce allo scoperto davanti a una spettacolare parete verticale di roccia scura, resa lucente dall’acqua, mentre più lontana appare la cascata del Fontanone Barmàn, a quota 758 sul monte Musi.
Gli abitati (anche qui fortemente colpiti da sisma del ’76 e tutti restaurati o ricostruiti con semplice dignità, rinunciando ai modernismi) sono perlopiù concentrati a metà valle, dove una strada si tiene bassa lungo il fiume e un’altra sale. Il primo e maggior centro che s’incontra sulla sinistra è San Giorgio, dal nome della parrocchiale rifatta nel 1763 ma all’origine cristiana della vallata. Le case sono assai vicine tra loro, come a cercare una fraternità montanara; appena fuori paese è allestito il Museo Etnografico.
Poco più avanti è Prato di Resia, sede del centro visitatori del parco, che prende il nome dalla chiesa di Santa Maria del Prato, la pieve in stile settecentesco risalente però all’XI secolo o forse prima. Casa Longhino, del Settecento, è ingentilita da signorili portici sulla facciata, mentre una piccola abside sul retro corrisponde al focolare. All’uscita del paese, verso est, è situato il complesso ottocentesco della chiesa del Calvario con 14 cappelline della Via Crucis. Proseguendo per il gruppo di Case Crusazze, dove la strada finisce, si trova un raro esempio di abitazione contadina resiana in pietra con ballatoio in legno e fienile.
Con qualche tornante si ridiscende sulla strada di fondovalle, passata sulla sponda opposta: le rive qui si fanno alte, ma si può scendere sul greto del fiume per prendere il sole e rinfrescarsi nei punti dove le acque sono più profonde. Ripreso il rettilineo nella valle di nuovo ampia, si lasciano sull’altopiano gli abitati di Gniva e di Oseacco, dove la strada abbandona il corso del Resia, segue un affluente e sale per un paio di tornanti.
Stolvizza è l’ultimo paese che si incontra, abbarbicato su un pendio esposto a sud, diviso in due zone e meno ricostruito (ma talora con minor garbo) rispetto agli altri. A Borgo Ves, oltre un cancello chiuso sotto un arco di pietra, si trova Casa Lettig, settecentesca dimora di prelati che presenta sulla facciata tre archi ribassati su colonne; a Borgo Kikey la chiesa di San Carlo Borromeo e le case a due piani con il fienile e i portali in pietra, alcune ancora con i poggioli in legno, che sorgono su una serie di stretti terrazzamenti di muri a secco collegati da vicoli e scalette. Non è posto di contadini, perché ripide sono le pendici e poco il terreno: ma invece dell’emigrazione permanente gli abitanti scelsero di lavorar viaggiando con il mestiere dell’arrotino, tradizione ricordata da un museo, un monumento e una festa annuale.
Stolvizza è il limite per i camper di maggiori dimensioni: la strada d’ora in avanti è stretta e scende ripida per valicare il Resia, poi risale con secchi tornanti a pochi metri l’uno dall’altro fino a entrare nel bosco, dove il fiume si intuisce appena. Per un’ultima volta se ne attraversa il corso, che d’ora in poi si snoda in territorio selvaggio, e si risale decisamente fino a Coritis, una manciata di case e una chiesa porticata. Da qui la strada prosegue asfaltata, ma sempre più stretta e senza protezione, e la salita si fa dura con sequenze di tornanti e pendenze anche fino al 18%. Un chilometro e mezzo dopo Coritis tocca superare a passo d’uomo alcune profonde cunette per il deflusso dell’acqua, fatte di grossi sassi impastati nel cemento e per giunta oblique rispetto al senso di marcia. Ancora un chilometro e 200 metri per arrivare a un tornante molto largo con una fontana, sosta ideale per radiatori in ebollizione; più avanti si ritrova lo stesso fondo delle cunette finché, qualche centinaio di metri dopo, ci sono spazi all’ombra per sosta e manovra, e qui ci si fermerà dopo aver guadagnato una quota di 550 metri in meno di 4 chilometri.
Ora si procede a piedi nel bosco, ma presto si esce allo scoperto e appare la Malga Coot, antica tappa di uomini e animali verso la valle dell’Isonzo, Nella caseria si producono formaggi da latte ovino e vaccino (qui si allevano anche razze della zona a rischio di scomparire, come la bovina resiana, i caprini e la pecora plezzana); si è inoltre voluto ripristinare pascoli abbandonati e ricostruire l’ambiente di flora e fauna domestica e selvatica. E c’è un agriturismo dove docili cavalli norici e avelignesi, zampe corte da montanari e grande criniera bionda, si lasciano tranquillamente accarezzare, mentre dalla terrazza del ristorante si vede tutta la Val Resia.

PleinAir 384/385 – luglio/agosto 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

________________________________________________________

Tutti gli itinerari, i weekend, i diari di viaggio li puoi leggere sulla rivista digitale da smartphone, tablet o PC. Per gli iscritti al PLEINAIRCLUB l’accesso alla rivista digitale è inclusa.

Con l’abbonamento a PleinAir (11 numeri cartacei) ricevi la rivista e gli inserti speciali comodamente a casa e risparmi!

photo gallery

dove sostare

tag itinerario

cerca altri itinerari

Scegli cosa cercare
Viaggi
Sosta
Eventi

condividi l'articolo

Facebook
WhatsApp

nuove idee di viaggio