Sapori d'Italia

Li chiamano giacimenti gastronomici e sono gli ultimi baluardi degli antichi sapori, da difendere come il panda. Salumi come quadri, latticini come sculture, agrumi e prosciutti come cattedrali del gusto. A farli sopravvivere su un mercato che - tranne alcune eccezioni - tende a sacrificarli, può e deve servire un turismo consapevole. Come il nostro.

Indice dell'itinerario

Altro che cibi transgenici. Una forma di formaggio di fossa? Una bottarga di muggine? Un salame di cinta senese? Un clic sul mouse del computer e tra qualche giorno suonerà il postino: rispettivamente lire cinquantamila, duecentocinquantamila e cinquantamila al chilo. L’ultima frontiera, anche per i giacimenti gastronomici di casa nostra, è naturalmente Internet e sono più d’una nel Web le aziende specializzate nell’offerta di leccornie altrimenti quasi introvabili, a produzione limitatissima. Anche per loro merito la battaglia contro la “globalizzazione dei sapori” trova ogni giorno nuovi adepti, cattura l’interesse dei giornali economici, stimola studiosi del costume e dei comportamenti sociali. L’intenzione, nobile e accorta, è quella di salvare dall’estinzione cibi e bevande tradizionali ma insieme ad essi sistemi di produzione, conoscenze antiche tramandate da generazioni, mestieri, osterie, botteghe.
La cinta senese, ad esempio. Sarà un maiale ma è pur sempre più rara del lupo o del cervo sardo, salvata dall’estinzione grazie all’impegno di alcuni allevatori. E’ piccola di taglia, vive allo stato quasi brado, e ha una fascia bianca attorno al torace e alle spalle che le dà il nome: basta mettere in moto il camper e andarsi a rivedere gli Effetti del buon governo di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico a Siena, in un angolo c’è il suo ritratto. Chiaro che con carni toniche e asciutte come le sue i sapori siano un’altra cosa – e pure i prezzi di salami e finocchione. Oppure prendiamo il formaggio di fossa. E’ pecorino ben maturo di 50-60 giorni, messo ad agosto in antiche fosse tufacee soprattutto a Talamello (Pesaro) e racchiuso in grossi sacchi di tela grezza. Ben imbottite di paglia, le fosse vengono sigillate col gesso e si riaprono solo a novembre, dopo tre mesi durante i quali avviene la rifermentazione del formaggio. Accompagnato al miele o a una confettura di fichi, col suo sapore leggermente piccante è un dessert d’eccezione. Oppure il lardo di Colonnata, sulle Apuane, venduto al prezzo del prosciutto. O le mozzarelle di bufala ma quelle vere, non quelle col latte vaccino dentro. O le celeberrime lenticchie di Castelluccio, piccole e dalla buccia sottile e tenera, che costano il doppio delle altre…
Cosa minaccia tutto questo? Sostanzialmente e semplificando, l’omologazione del gusto tra i consumatori, la grande distribuzione che schiaccia con prezzi competitivi i produttori di qualità (tranne alcune importanti eccezioni, come il parmigiano reggiano, i prosciutti San Daniele e di Parma, il culatello di Zibello), norme e regolamenti iperigienisti. Burocrazia chiama burocrazia ed ecco arrivare nel ’92 da Bruxelles, sulla scorta del successo delle liste di vini DOC, i marchi DOP (denominazione d’origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta) anche per fagioli e radicchi, caciotte e prosciutti. Al nostro Ministero per le Politiche Agricole ne conservano lunghi elenchi, e una nutrita schiera di consorzi, comuni e associazioni di produttori premono per entrarvi. Certo quelle tre lettere possono guidare il consumatore, il problema però sono le etichette sempre più affollate di marchi di qualità , certificazioni e promesse varie. A contare sempre di più sarà allora la consapevolezza del consumatore, e qui può aiutarlo non poco il turista che è in lui (se c’è). Prima viaggiare e guardare, toccare con mano, capire, poi comprare. In fondo è questo lo spirito delle proposte che seguono.
Nei mesi scorsi, al primo assessore alla promozione del tartufo d’Italia (ad Acqualagna) s’è aggiunto – hanno scritto i giornali – l’assessore all’olio extravergine d’oliva (a Loreto Aprutino). Ma la riscoperta dei sapori nazionali non è e non deve essere solo una moda. Contro l’appiattimento del Fast Food riscopriamo la ricchezza e gli aromi delle cucine locali recita il manifesto di Slow Food, movimento fondato nel 1986 col nome di Arcigola. Se la Fast Life in nome della produttività ha modificato la nostra vita e minaccia l’ambiente e il paesaggio, lo Slow Food è oggi la risposta d’avanguardia . Forte dei sessantamila soci in trentacinque paesi, oggi il movimento ha lanciato una campagna concreta centrata sui Presidi Slow Food, per sostenere prodotti e forme di produzione tradizionali che a causa dei costi non riescono a sopravvivere sul mercato. I primi due interventi sono a beneficio del cappone di Morozzo, eccellente per le sue carni e per il tradizionale metodo di allevamento perpetuato dalle donne del paese piemontese (Slow Food ne ha acquistati 400), e dei vigneti dello Schiacchetrà alle Cinque Terre, quasi del tutto in abbandono (due ettari di terrazzamenti stanno per essere acquistati a Riomaggiore, allo scopo di tornare a produrre il pregiato vino passito).
In definitiva, il Bel Paese conta ventimila centri storici e quarantamila castelli? Bene, ci sono pure trecento e passa salumi. I musei da Aosta a Ragusa sono tremila e più? Pure i formaggi non scherzano, 609 per la precisione. Dal Gran Paradiso all’Etna, l’Italia dei parchi allinea centoventi paradisi naturali? Sono di più le conserve a base di frutta, ortaggi e pesce, e cioè 352 (le cifre le ha fornite una recente ricerca della Confartigianato). E proprio come per i parchi, c’è bisogno che anche il turismo si accorga sempre più di quest’altra Italia di lardo e culatelli, zafferano e caciocavalli. Anche alla tavola del camper, apparecchiata coi sapori di una volta, è tutt’un altro mangiare e viaggiare. E ora si parte, buon appetito.

Il tesoro di San Daniele
Storia e segreti di un prosciutto davvero speciale, frutto di un clima particolare, di amorevoli cure e di pochi, naturali ingredienti.

In Italia ci sono paesi famosi per un monumento (Padula piuttosto che San Leo o Calascio), per una grotta (Frasassi, Castellana, Castelcivita), per un prodotto (Lavagna). Oppure, visto il tema di queste pagine, per un ortaggio (Pachino), un vino (Montepulciano), addirittura un lardo (Colonnata). E se dici San Daniele, in terra friulana, dici prosciutto. Più che una produzione, una fede. Solo qui dove l’aria fresca proveniente dalle montagne si incontra con le correnti umide che spirano dall’Adriatico – recitano senza ammettere repliche i dépliant locali – si crea quel particolare microclima che dona al prosciutto un sapore e un aroma inconfondibili, e che ha fatto la fama di San Daniele nel mondo.
E in effetti il San Daniele non è un prosciutto qualsiasi. Una legge dello Stato già nel 1970 ne ha riconosciuto l’unicità, dettando anche una serie di regole da rispettare per la tutela del marchio e dei consumatori. I maiali da cui provengono i cosci, ad esempio, devono appartenere alle razze Large White e Landrace e non vanno macellati prima di nove mesi dalla nascita. La loro alimentazione prevede cibi selezionati dallo svezzamento all’ingrasso e, sorpresa, i maiali (che mediamente pesano sui 160 kg) non sono necessariamente locali. Così solo il 10% del totale dei prosciutti San Daniele proviene da suini del Friuli Venezia Giulia, mentre è la Lombardia il principale fornitore. Giunte al prosciuttificio, le cosce fresche (mai più leggere di 11 kg: una coscia troppo piccola non offrirebbe il giusto equilibrio tra parte grassa e parte magra) vengono pesate e quindi passate attraverso otto fasi che si concludono con il compimento della stagionatura, non meno di undici mesi più tardi. In particolare, vengono pressate per far distribuire meglio la parte grassa con quella magra e quindi salate con sale marino. Dopo 3 mesi vengono lavate e “toelettate”, cioè curate anche dal punto di vista estetico, per poi trascorrere almeno altri 8 mesi di stagionatura. Altro processo importante, eseguito tuttora a mano, è la stuccatura che consiste nel coprire la coscia con un impasto naturale di sugna o strutto e derivati di cereali, allo scopo di non far seccare la carne troppo rapidamente. Anche per questo il San Daniele resta così morbido e di gusto ricco. Al contrario di altri prosciutti, come ad esempio quello di Parma, nel coscio viene mantenuta la parte terminale detta ‘zampino’, che consente dunque di distinguere il prosciutto di San Daniele a vista. Le tradizionali prove per verificare la qualità – la puntatura eseguita con un ago di osso di cavallo per il profumo, le battiture per la consistenza, l’occhio per la valutazione d’insieme – vengono oggi integrate da analisi organolettiche. Solo se ha superato tali prove il prosciutto si merita l’ambito marchio, e cioè la rappresentazione stilizzata di un prosciutto con la sigla SD e un numero a due cifre, che rappresentano il codice di identificazione del produttore. Alcuni di questi aprono oggi le porte ai turisti.
Di per sé, in effetti, il paese non offre molto altro ai visitatori. Gravemente danneggiato dal terremoto del 1976, ospita ancora il duomo dalla facciata settecentesca e la chiesa di Sant’Antonio, del ‘500, con affreschi del XVI secolo. Poi gradevoli portici, alcune prosciutterie e nulla più. Ma basta spostarsi di venti chilometri e si è a Udine, splendida città a misura d’uomo dove davvero non mancano chiese e palazzi da ammirare, musei da visitare, strade e piazze dove passeggiare piacevolmente. E anche Cividale è a un tiro di schioppo. Il suo tempietto longobardo a strapiombo sul Natisone, uno dei monumenti dell’alto Medioevo più interessanti che ci siano in Italia, è solo la più nota di una serie di attrattive che annoverano pure il cinquecentesco Palazzo Pretorio, il duomo e il prezioso museo cristiano (all’interno della cattedrale) che conserva pezzi unici, come l’ottagonale battistero di Callisto o l’ara del duca Ratchis. Al di là del Tagliamento invece c’è Spilimbergo, col bel duomo e il complesso del castello e del Palazzo Dipinto.

Sibillini, sublimi salumi
A contatto con la strepitosa natura del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, una visita (con assaggio e apprendistato) ai luoghi di nascita della norcineria.

Ai piedi dei Monti Sibillini e ai margini del parco nazionale, settecento metri più in basso di quei Piani di Castelluccio dove cresce il più noto legume d’Appennino, c’è il tempio della norcineria e anzi il luogo stesso che ha dato il nome all’arte di far salumi: Norcia, la città di San Benedetto.
La tradizione locale sembra risalga alla diaspora degli ebrei intorno al 70 dopo Cristo, quando una colonia in fuga da Israele giunse in Valnerina (dove fino al Settecento sorgevano ben tre sinagoghe) con le sue consolidate usanze di salumeria kosher. Oggi a Norcia e in altri quattro comuni della valle (Cascia, Preci, Monteleone e Poggiodomo) si produce così un prosciutto dal sapore speciale, fregiato un paio d’anni fa del marchio europeo di indicazione geografica protetta (IGP). Ottocentomila sono i prosciutti che vengono prodotti ogni anno, e che giungono in tavola dopo una stagionatura di dodici mesi. Norcia è la romana Nursia, pur se l’attuale centro raccolto entro le mura trecentesche è di fisionomia essenzialmente medioevale. Tra i monumenti da non perdere ci sono, nella piazza centrale, la chiesa dedicata a San Benedetto e la prospiciente Castellina, robusta fortezza quadrilatera eretta dal Vignola. Interessanti pure le chiese di San Giovanni e Sant’Agostino, nonché l’oratorio di Sant’Agostino minore.
Oltre Preci e la sua abbazia di San Eutizio (di tutto il grandioso complesso, ora in restauro, è integra la sola chiesa romanica), a una trentina di chilometri a nord c’è Visso, uno dei più bei centri del parco nazionale. Da vedere ci sono la collegiata romanico-gotica di Santa Maria, dal bellissimo portale a tutto sesto, la chiesa di San Francesco, il quattrocentesco palazzo municipale e numerosi edifici rinascimentali. Proseguendo sulla strada per Camerino, a una decina di chilometri sorge in posizione isolata il santuario di Macereto, eretto nel Cinquecento.
Il protagonista della tavola, meno nobile ma non meno saporito del prosciutto, è qui il ciauscolo, prodotto in un’ampia area a cavallo di Umbria e Marche che comprende le province di Perugia, Ascoli Piceno, Ancona e Macerata. Nella sua preparazione carne di maiale di seconda scelta viene mescolata ad abbondante lardo (oltre che ad aglio, finocchio, buccia d’arancia e pepe), e ciò spiega la sua natura – davvero unica – di “salame da spalmare”. Proprio Visso lo celebra ad agosto con una sagra.
La Valnerina è pure il cuore di produzione della corallina, altro tipico salume umbro, con il grasso tagliato a dadini (a Roma si consuma soprattutto a Pasqua). Per non limitarsi ad ammirare e ad assaggiare, dal 1991 c’è una singolare scuola dove insegnano i segreti del mestiere. Si chiama, manco a dirlo, Accademia del Porco e l’hanno fondata Antonio Baldoni e figli, cioè i dinamici gestori dell’agriturismo “Il Collaccio”, presso Preci. Qui l’ambiente naturale è quello del parco, l’ospitalità di prim’ordine (i camper sono benvenuti) e lo spirito goliardico evidente: i titoli da conseguire, con tanto di diploma, vanno da Porcello Onorario a Grande Verro, passando per Apprendista Porcello e Gran Porcello! Ma a far salumi si impara davvero, seguendo le lezioni di esperti norcini. E, anche qui, la gola chiama lo spirito e la gastronomia si fa scoperta del territorio. Cioè, appunto, turismo.

Le bufale degli antichi dei
Dal latte di esotici bovini, coccolati e vezzeggiati persino nel nome, all’ombra dei restaurati templi di Paestum nascono divine mozzarelle.

“La mattina dopo, per tempissimo, trottammo per vie impraticabili e qua e là paludose fino ai piedi di due belle montagne, attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi selvaggi e iniettati di sangue”. Così Wolfgang Goethe, il grande scrittore tedesco, descriveva la pianura di Paestum e il tragitto a cavallo per raggiungere i suoi splendidi templi, famosi in tutto il mondo. Correva l’anno 1787 e quelle distese acquitrinose, regno incontrastato delle bufale, celavano ancora nel fango le stupende metope del tempio di Hera Argiva che l’archeologo dilettante Umberto Zanotti Bianco – primo presidente di Italia Nostra – scoprirà solo nel 1932.
Oggi Paestum brilla di nuovo splendore, dopo il restauro del tempio di Cerere e la recente sistemazione del museo archeologico annesso agli scavi. La piana è stata da tempo bonificata ma le bufale, pur se meno numerose, ci sono ancora ed anzi sono al centro della produzione giustamente più rinomata della zona: le mozzarelle.
Provenienti dall’India, le bufale giunsero in Italia coi barbari di Agilulfo oppure – sostengono altri – al seguito degli Arabi che risalivano la penisola dalla Sicilia. Oggi la loro diffusione interessa varie aree, come la pianura pontina, ma la regione d’elezione resta la Campania e in particolare le province di Caserta e Salerno. Il latte di questi bovini allevati sin dall’epoca romana, dal colore bianco e dal sapore deciso, dopo la cagliatura si trasforma in una pasta che viene filata in acqua bollente, modellata da mani esperte e successivamente “mozzata”. Nascono così i bocconcini (40-50 grammi), le mozzarelle (200-220 grammi), le aversane (mezzo chilo), le trecce (un chilo) più buone.
Tra le aziende locali, una delle più note nonché l’unica a fregiarsi del marchio AIAB (Associazione Italiana Agricoltura Biologica) è il caseificio Vannulo, sorto agli inizi del 1900, a due chilometri dagli scavi di Paestum. Fondato dal nonno dell’attuale titolare per il solo allevamento delle bufale, nell’88 si è trasformato in una struttura modello dove il latte prodotto in loco viene anche trasformato. I circa 400 capi hanno ciascuno un nome, assegnato dai fattori: e sono tutti fantasiosi, da “Cchiù bella non c’è” a “Bambola” a “Chi vive vede”. E vengono nutriti ciascuno con 15 chili di erba fresca al giorno (in un giusto mix che comprende mais, avena, orzo, grano, erba medica, loietto e sorgo) coltivata nei 90 ettari dell’azienda, senza diserbanti né pesticidi. Non vengono usati ormoni per facilitare o sincronizzare l’estro delle femmine o per stimolare la produzione di latte, e la fecondazione avviene mediante l’accoppiamento naturale. Attrezzi e utensili di uso quotidiano sono raccolti in un piccolo istituendo museo della civiltà contadina. Oggi è possibile visitare l’azienda, vedere da vicino le bufale, assistere alla lavorazione del latte. E mangiare le mozzarelle, naturalmente, presso lo spaccio aziendale. Ma non arrivate tardi, la produzione è limitata e potreste trovare il bancone irrimediabilmente vuoto.

Distillato di sole
Proprio in punta allo Stivale, a Melito di Porto Salvo e soltanto lì, cresce il bergamotto: un agrume dal profumo soave. E dalle proprietà inimitabili.

Ai piedi dell’Aspromonte, nella stretta fascia costiera che va da Villa San Giovanni alle porte di Reggio Calabria, Brancaleone e oltre, qui e soltanto qui il bergamotto cresce con risultati eccellenti, profumato come mai. In particolare, il centro della produzione per quantità e soprattutto qualità si trova nel territorio di Melito di Porto Salvo, una distesa di abitazioni proprio in riva al mare, interrotta qua e là dalle chiazze verdi degli agrumeti. Oltre che l’indiscussa “capitale” del bergamotto, Melito è pure la cittadina dove per due volte sbarcò Garibaldi, nel 1860 e nel ’62, rispettivamente per affrancare la Calabria dalla dominazione borbonica e per tentare una spedizione su Roma (invece fu ferito in Aspromonte e l’operazione sfumò). Nell’immediato entroterra di Melito merita un’escursione anche il pittoresco paesino abbandonato di Pentedattilo, alla base di una rupe rocciosa dalla forma che ricorda per l’appunto quella di una mano.Parente stretto dei più noti arancio e limone, il bergamotto è un agrume dai frutti arrotondati e gialli e i fiori bianchi, dall’intenso profumo. Non ha nulla a che fare con il nome Bergamo: c’entra piuttosto Berga, città spagnola, da cui sembra che la pianta sia stata importata nel ‘400. Nel ‘600 alcune cronache ne riportano la presenza nel Napoletano: padre Juan Ferrari rinvenne alcune piante nel giardino dei conti di Nola, presso il capoluogo partenopeo. Ma è nel ‘700 che il bergamotto trova definitiva diffusione, affermandosi come profumo dell’acqua di Colonia. Un certo signor Gian Paolo Feminis, abitante di Colonia in Germania ma di chiare origini italiane e anzi calabresi, ne mescolò l’essenza con fiori d’arancio, estratti di lavanda e rosmarino, olio di cedro e limone, con un risultato assai indovinato che incontrò grande favore e si impose col tempo come uno dei profumi più apprezzati e diffusi. La produzione si è andata da allora estendendo fino agli anni Sessanta, raggiungendo quasi i quattromila ettari di coltivi; poi la sintesi dell’essenza, raggiunta con procedimenti chimici e costi più bassi (ma anche risultati più scadenti), ha provocato una crisi che tuttora i coltivatori stentano a superare. Oggi gli ettari coltivati a bergamotto sono 1500-1700, su terreno rigorosamente ad acidità neutra perché questo agrume, al contrario dell’arancio, non tollera variazioni di pH. La produzione è di circa centomila chili all’anno, contro i duecentocinquantamila degli anni Sessanta. E’ pure in atto la conversione ai metodi dell’agricoltura biologica, grazie alle sovvenzioni della Comunità Europea (i contributi sono pari a un milione e settecentomila lire a ettaro), per eliminare i trattamenti con prodotti chimici e migliorare ulteriormente la qualità del prodotto. Si pensi che per produrre un chilogrammo di essenza ci vogliono due quintali di frutti! Oltre che per l’industria cosmetica, il bergamotto viene utilizzato per molti altri scopi. Il succo, ad esempio, miscelato col pompelmo viene usato nella preparazione delle aranciate amare. La polpa serve come mangime per gli animali, oppure tritata e seccata viene esportata in Nordeuropa dove ne ricavano la pectina, una gelatina utilizzata nei prodotti in scatola.
E poi c’è il liquore, ottimo digestivo, naturalmente profumatissimo. C’è chi ci ha puntato tutto, come l’azienda agrituristica “Spina Santa” dei fratelli Autelitano a Bova Marina. In queste settimane di marzo si sta ultimando la raccolta dei frutti, iniziata a novembre, e dopo la sbucciatura il prodotto finale sarà proprio quel nettare dal retrogusto amaro e il penetrante aroma che qui chiamano Bergaspina. Chi si affretta, dunque, parteciperà alla stagione più bella. Quaggiù marzo ha un tepore quasi africano e l’inverno ha soltanto l’immagine di gelo e nebbia che vi portate da casa.

PleinAir 332 – maggio 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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