Sabbie di seta

Ieri i mercanti con i loro preziosi carichi, oggi i camperisti a ripercorrere vecchie piste che l'asfalto rende via via ben praticabili. E Samarcanda non è più un sogno per pochi ma una meta possibile per molti, se non per tutti.

Indice dell'itinerario

E’ la quarta volta in venticinque anni che la prua del nostro camper varca il confine della Turchia: un paese con un piede in Europa, ma che per i viaggiatori del Vecchio Continente è il primo approccio all’Islam. Benché lo Stato sia dichiaratamente laico, la religione ha una grande influenza sullo stile di vita nella maggioranza della popolazione; osserviamo però con piacere il notevole cambiamento nei costumi, avvenuto soprattutto tra le nuove generazioni, confrontandolo con i nostri ricordi della prima visita.
Attraversando il Bosforo sul nuovo ponte costruito a nord della città, si gode di un’eccezionale veduta della parte vecchia di Istanbul con le sue più imponenti e famose moschee. Poi procediamo spediti superando Ankara ed Erzurum, finché la vetta dell’altissimo cono dell’Ararat segnala l’avvicinarsi della frontiera iraniana, che attraverseremo a Bazargan. E’ giunto il momento per mia moglie di utilizzare il lungo mantello nero, il chador, approntato per questa parte del viaggio: la dovrà ricoprire completamente ad esclusione delle mani, dei piedi e del volto, e anche i capelli dovranno essere nascosti da un grande fazzoletto scuro.
L’ingresso in Iran
è breve e cordiale, ben diverso dai diffidenti e scrupolosi controlli frontalieri di cui eravamo stati oggetto nel 1993. La strada fino a Tabriz, perfettamente asfaltata e di scarso traffico, attraversa un territorio montagnoso dove la principale risorsa degli abitanti è la tessitura dei tappeti, insieme all’agricoltura e alla pastorizia. La città che Marco Polo cita nel Milione come Tauris era celebre per l’oreficeria e la lavorazione delle pietre preziose, i tappeti e soprattutto le sete che venivano vendute nel bazar (ancora adesso vale una visita quello del XV secolo): oggi è una metropoli che conta un milione di abitanti, con un traffico davvero caotico e stressante in cui ci si deve presto adattare a capire che il braccio sinistro del conducente, sporto dal finestrino e variamente agitato, indica l’intenzione di svoltare. Mentre giriamo nel centro con prudente determinazione alla ricerca di un hotel che dovrebbe ospitarci nel suo parcheggio per la notte, un’auto si accosta e l’autista in inglese ci chiede se può aiutarci in qualche modo: dopo una breve spiegazione veniamo invitati a pernottare nel cortile della sua abitazione, protetto come d’uso da un alto muro di cinta a difesa di sguardi indiscreti. La stessa opportunità ci era capitata nel viaggio precedente, con un esito assai positivo, e siamo ben contenti di ripetere l’esperienza. Sistemato e scrupolosamente osservato con curiosità l’interno del nostro pick-up, veniamo invitati in casa per un tè che diventerà l’occasione per un lungo scambio d’opinioni sull’attuale modo di vivere di due mondi così diversi. E’ evidente, soprattutto nei giovani, una grande voglia d’Occidente e constatiamo con piacere che l’integralismo religioso imposto nel paese si è notevolmente addolcito, soprattutto sulla condizione femminile; la famiglia possiede inoltre un’antenna per la ricezione tv satellitare ben mimetizzata in giardino (pratica che sarebbe proibita ma, ci dicono, molto diffusa) ed è così al corrente di tutto quello che succede nel mondo.
Procedendo verso est, giunti a Qazvin imbocchiamo una strada secondaria che sale tra le montagne in direzione del nord e del Mar Caspio. Siamo nel territorio dell’Alamut dove dovrebbero trovarsi i resti dei castelli degli Assassini, una setta che per circa tre secoli a partire dal Mille seminò il terrore in un’ampia parte del Medio Oriente e dell’Asia centro-occidentale: si trattava di veri e propri sicari (ai quali veniva dispensato hashish in quantità, da cui il nome) cooptati per uccidere importanti personalità politiche e religiose con la promessa che, dopo la morte, sarebbero andati in paradiso godendo di splendidi festini. A Gazorkhan troviamo le fondamenta di uno di questi castelli, ma in verità ne restiamo delusi.A Teheran, tappa obbligata per il rilascio del visto d’ingresso in Turkmenistan, visitiamo in taxi il museo nazionale, il museo dei gioielli e quello del vetro e della ceramica, per poi riprendere la marcia su strade ben asfaltate e poco frequentate sino alla frontiera di Gumrukana. Il passaggio in Turkmenistan è complicato da diverse e a tratti incomprensibili formalità e richieste di balzelli, ma ce la caviamo in un paio d’ore e proseguiamo verso la capitale Ashgabat, che ci appare in tutta la sua singolarità: nel centro, di un fasto incredibile ma quasi deserto, si susseguono moderni edifici in marmo che celebrano il presidente Nyazov la cui effigie campeggia su gigantografie apposte lungo i viali, in una statua dorata che veglia la città dall’alto di una guglia, sulle banconote e persino sulle etichette della vodka locale.
Percorsi in una sola giornata per ragioni di sicurezza i quasi 600 chilometri del deserto del Karakum su una strada asfaltata ma in pessime condizioni (e con ben quattro controlli di polizia a rallentare la nostra marcia forzata), entriamo finalmente nel territorio dell’antica Corasmia, prima vera tappa nel cuore del nostro itinerario. Urgench, i cui resti risalgono al Medioevo, ci offre un’emozionante immersione nella storia con le sue rovine testimoni del passaggio di Gengis Khan e di Tamerlano: la visita richiede un paio d’ore, essendo i monumenti quasi tutti raccolti nella zona meridionale che comprende alcuni mausolei e un minareto alto quasi 70 metri.
Entrati in Uzbekhistan, ci dedichiamo alla visita di Khiva le cui origini si perdono, è il caso di dirlo, nella notte dei tempi: la sua fondazione risale infatti a un periodo compreso tra 6.000 e 4.000 anni fa. Essendo situata nel vasto e fertile delta dell’Amu Darya, circondata com’è da zone semidesertiche, ha sempre attratto popolazioni che qui trovavano un più facile sostentamento; ma sotto il regime sovietico la coltivazione intensiva del cotone ha causato un forte impoverimento del terreno che ora si sta via via inaridendo. I principali monumenti che oggi si possono ammirare – scuole coraniche, minareti e mausolei, tutti riccamente decorati con piastrelle di ceramica nelle tipiche tonalità del verde e del turchese – risalgono al XVI secolo e sono racchiusi fra gli alti bastioni argillosi della città vecchia.
Una buona strada asfaltata attraversa il deserto di Kyzylkhum: percorriamo circa 450 chilometri fino a Bukhara, anch’essa con una lunga storia; Marco Polo la ricorda come importante luogo di sosta lungo la Via della Seta, ma come per Khiva il periodo più florido fu quello intorno al ‘500. Le costruzioni più antiche, ben restaurate, hanno in questo caso le facciate in mattoni: tra gli edifici più interessanti il minareto Kalan, realizzato nel 1127 con un particolare sistema che prevedeva l’inserimento di strati di canne nella struttura allo scopo di renderla più flessibile contro le scosse sismiche. A una cinquantina di chilometri si trova Shakrisabz, città natale di Tamerlano.
Ed eccoci finalmente a Samarcanda, giro di boa di questo nostro lungo viaggio verso il cuore dell’Islam. Fondata, si dice, cinque o sei secoli prima dell’era cristiana, conobbe il massimo splendore fra il XIV e il XV secolo proprio sotto il regno di Tamerlano e di suo nipote Ulug Beck, che ne fecero la loro capitale per circa ottant’anni; poi il titolo fu di nuovo concesso a Bukhara e Samarcanda fu abbandonata, anche a seguito di terremoti che spinsero la popolazione a trasferirsi. Solo con l’annessione all’impero russo la città riprese a vivere e furono restaurati i tanti monumenti ancora visibili, primo fra tutti lo splendido complesso del Registan che vanta un’armonia architettonica e una dovizia di decorazioni davvero emozionanti. Ne fa parte una rarità dell’arte islamica: la facciata della moschea Sher Dor, ornata dall’effigie di due tigri ruggenti benché sia notoriamente proibita dalla religione musulmana la rappresentazione di animali o esseri umani.E’ l’ora di riprendere la via del rientro di nuovo attraverso il Turkmenistan, su un percorso completamente asfaltato che ci porta a Merv, l’odierna Mary: ma dei 2500 anni di storia di una delle più grandi e importanti città dell’Asia centrale, completamente distrutta dai mongoli di Gengis Khan nel 1218, sono rimaste solo le fondamenta di cinque fortezze risalenti a varie epoche.
Proseguiamo rapidamente verso l’Iran per visitare Mashad “la sacra”, una tappa normalmente ignorata dai classici giri turistici, meta di incessanti pellegrinaggi alla tomba dell’Imam Reza, fondatore della setta degli sciiti, maggioranza religiosa del paese. I non musulmani che si apprestano a questa visita devono affrontarla con rispetto e particolare attenzione a non urtare la suscettibilità dei pellegrini più ferventi, tenendo un atteggiamento impeccabile e vestendosi con la massima sobrietà: per gli uomini sono consigliati pantaloni lunghi e camicie a maniche lunghe in colori neutri. Indispensabile l’assistenza di una guida perché non tutti i luoghi sono accessibili ai non credenti; le foto non sono proibite ma nemmeno incoraggiate, ed è opportuna una valutazione al momento.
Un ambiente particolarmente selvaggio circonda Yazd, nella regione semidesertica del Khorasan, dove le temperature estive sono talmente elevate da aver spinto la popolazione a inventare un ingegnoso sistema di condizionamento naturale: le cosiddette torri del vento, costruite in modo da convogliare all’interno anche la brezza più lieve che viene raffreddata dal passaggio su vasche sotterranee colme d’acqua e poi distribuita nuovamente all’esterno. Tutt’altro motivo di interesse è invece offerto da uno degli ultimi templi dello zoroastrismo, una religione monoteista nata nel VI secolo a.C. e oggi a rischio di scomparire: nell’edificio arde un fuoco sacro che si dice sia ininterrottamente acceso dal 470 a.C. Nei dintorni si possono osservare i resti di altre torri, dette del silenzio, che servivano a deporre le salme dei defunti alla mercé degli avvoltoi onde non contaminare la terra e l’acqua con le spoglie (come pure avveniva in Tibet fra i buddisti, secondo la pratica della cosiddetta sepoltura celeste).
La visita delle rovine di Persepoli, voluta da Dario I nel 500 a.C., non rende pienamente l’idea di quale meraviglia dovesse essere la capitale del regno degli Achemenidi, distrutta da Alessandro Magno nel 331 a.C. Veramente eccezionali i rilievi delle scalinate che portano all’immenso Apadana, dove i sovrani davano udienza, con la rappresentazione quasi fotografica dei popoli che recavano i loro omaggi.
Non è da meno, pur se completamente diversa, l’ospitale città di Isfahan: paragonabile a Firenze per il suo patrimonio d’arte e di cultura, conserva magnifici monumenti più o meno coevi al nostro Rinascimento, molti dei quali intorno all’enorme piazza Meidun-e-Emam. Da non perdere anche le fiabesche sale e il cortile dell’Abbasi Hotel, nato come caravanserraglio.
Quasi 1.200 chilometri di ottima strada ci separano dal nostro rientro in Turchia: impiegheremo due giorni, comprese le formalità di frontiera. L’ultimo scorcio del viaggio è dedicato al castello di Hosap, in territorio curdo, e al Nemrut Dagi, la montagna degli dèi, celebre per le colossali teste in pietra fatte erigere da Antioco I che ne decorano la sommità: dai 2.150 metri della cima il re poteva spaziare con lo sguardo su tutti i suoi territori, sentendosi anch’egli una divinità. E a noi – moderni ambasciatori di un turismo intriso del desiderio di conoscere e di capire – rimane l’emozione di pensare che l’Oriente visto da qui sembra veramente un altro mondo, qualunque Dio l’abbia voluto.

PleinAir 413 – dicembre 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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