Rock, Sikh e parmigiano

Nobile e "mobile", la geografia umana dell'Emilia Romagna scopre a Novellara un paradigma perfetto. Qui si beve lambrusco e si balla il liscio, ma è anche nato il rock italiano; qui si pedala e si produce parmigiano. Ma se a mungere le vacche non ci fossero gli indiani del Punjab...

Indice dell'itinerario

Giovedì è giorno di mercato a Novellara, paese della Bassa Reggiana: un evento da non perdere in questa cittadina a una manciata di chilometri da Reggio Emilia (12.000 abitanti in crescita demografica, grazie agli immigrati e a una nuova ondata di nascite). Bancarelle e camioncini si schierano sopra il selciato della bella piazza cinquecentesca dedicata all’Unità d’Italia; a fare da nobile sfondo, le mura dell’orgogliosa Rocca dei Gonzaga.
Le biciclette dell’Emilia profonda slittano sui ciottoli di fiume che pavimentano le strade e si intasano fra le strettoie del mercato: qui tutti vanno sulle due ruote, questa è terra di pianura, gli orizzonti sono senza fine e solo i grandi cascinali e i pioppeti sembrano interromperli. Fu Cesare Zavattini, nato a Luzzara (a non più di 10 chilometri di distanza), a spiegare che nella Pianura Padana “questi orizzonti sono sempre raggiunti, ma appaiono sempre irraggiungibili”. Qui solo gli argini rialzati riescono a nascondere la fossa del Po e i tanti canali di scolo e d’irrigazione che tagliano campi piatti e perfetti: da queste parti sono talmente abituati a non conoscere né colline, né montagne che provano a chiamare valli perfino i letti di antiche paludi che sprofondano di appena 10 metri rispetto al livello della piana. La campagna, dove pascolano le vacche che danno il latte per il parmigiano, è storia quasi sacra. Dice con orgoglio Giulio Pratissoli, responsabile del caseificio del Castellazzo a Campagnola, paese alle porte di Novellara: «In questa terra c’è davvero qualcosa che rende il formaggio superiore».
E il giorno di mercato è una fotografia mobile dell’Emilia di oggi, una sorta di bel teatro dove si mette in mostra una provincia ricca e multietnica. Gli uomini, i vecchi emiliani, spingono la bicicletta con le mani e indossano il cappello duro; nelle stagioni più calde sfiorano con le dita i cocomeri e i meloni, scrutano le bottiglie di lambrusco, osservano con sguardi circospetti i frammenti di parmigiano reggiano DOC e poi, per antica abitudine, si siedono sotto i portici.
Queste arcate sono l’Emilia profonda e più vera, una quinta scenografica della vecchia piazza e delle diritte vie di Novellara che scorrono per 4 chilometri. D’inverno proteggono dalla pioggia e ostacolano come possono la nebbia; d’estate offrono riparo contro l’afa e il sole a picco. I portici sono i luoghi piacevoli del caffè, dei saluti, delle chiacchiere, delle “vasche”, della passeggiata serale, di ore perditempo. La gente qui ha ancora il piacere del racconto, del parlare e dell’ascoltare, dei crocchi di persone che discutono tutte assieme agitando le mani, delle sedie messe fuori dalla porta quando fa caldo, delle serate al bar della piazza quando cala la nebbia nella pianura. Le chiacchiere sono una felicità, come il lambrusco e i cappelletti. Ricorda il vicesindaco di Novellara, Mattia Mariani: «I nostri nonni andavano in stalla a filos, noi continuiamo a farlo sotto i portici».
L’assessore ai Giovani e all’Ambiente è giovane davvero, ha 27 anni e si chiama Elena Carletti. Anche lei spiega: «Qui non siamo introversi. Ci piace parlare, conoscere, sapere». Il suo è un cognome celebre: suo padre è leggenda del rock padano, è il tastierista dei Nomadi, il complesso più longevo d’Italia nato proprio qui quarant’anni fa, che lo ebbe tra i fondatori assieme ad Augusto Daolio, lui pure nato a Novellara e sepolto qui, nel cimitero del suo paese. La tomba, protetta da una lapide scolpita come fosse una coperta, è meta di un pellegrinaggio incessante di fan d’ogni età, che lasciano il loro messaggio a uno dei più bravi cantori della società italiana.
Dice un altro ragazzo che assomiglia a un D’Artagnan della piana: «Qui c’è un grande rispetto per il tempo fuori dal lavoro. Non lo buttiamo mai via». Si fa chiamare Cisco, ha un prezioso negozio di dischi e musica in uno spigolo della Piazza dell’Unità d’Italia e vive in un cascinale delle valli; la sua voce è quella dei Modena City Ramblers, altro grande gruppo rock che affascina moltitudini di trentenni e non solo.
Straordinaria la concentrazione di gente che fa musica nelle campagne fra Modena e Reggio Emilia, tra i campi coltivati a mais e foraggio e gli argini del Po (Francesco Guccini direbbe “fra la Via Emilia e il West”). A Novellara, raccontano, ha cominciato a cantare quarant’anni fa anche Gianni Morandi. Ligabue vive a un passo da qui, a Correggio. E poi: feste paesane, balli all’aperto, bar e nuovi pub dove si suonano chitarre e fisarmonica. I ragazzi fanno chilometri per andare a sentire nuovi gruppi in locali per tiratardi nascosti sotto i portici delle cittadine emiliane qui attorno. Ritorna la capacità di stare insieme degli emiliani: «Qui siamo felici di ascoltare storie» spiega Rosanna Fantuzzi, la compagna di Augusto Daolio. «La geografia aiuta – aggiunge Cisco – la pianura aiuta: non ci sono ostacoli, la gente viaggia, si muove, le idee circolano. La musica qui è sangue e DNA». Ma altri capitoli della storia di questa cittadina vanno ancora aperti. Lo sguardo di chi si è seduto in un caffè sotto i portici in un giorno di mercato è distratto, a più riprese, da curiose apparizioni: uomini dalle barbe folte e dagli occhi scuri con lucenti turbanti color zafferano o blu cobalto che svettano oltre la linea del cappello, bambini con i capelli raccolti nel nodo di un fazzoletto sacro che sgambettano fra le verdure e gli articoli per la casa, donne dallo sguardo attento e fugace, la testa coperta da un foulard, vestite con un sari leggero che svolazza fino a terra.
Perché l’Emilia è cambiata, e Novellara è l’epicentro di questa rivoluzione silenziosa. Nelle campagne e nelle officine meccaniche di Novellara e del Reggiano (come nelle stalle intorno a Cremona e a Mantova nei campi e nelle fabbriche del Bresciano) sono arrivati i Sikh, gli austeri indiani del Punjab, che hanno riscritto la geografia rurale sostituendo i ragazzi italiani che non ne volevano più sapere, nonostante i buoni salari, di lavorare con le vacche del parmigiano. E con loro muta anche il volto della campagna padana.
Se vi trattenete a Novellara fino alla domenica, in quel giorno lasciate da parte gli itinerari turistici fra i paesi del Po e perdetevi, seguendo il flusso di un traffico improvviso, nella periferia industriale del paese. Dalle parti di Via Tazio Nuvolari (anche lui è nato in questa zona, appena al di là del fiume), oltre il cubo-officina della Emmeplast, sorge un capannone preceduto da un ampio portico su colonne a cui si accede con una doppia scala. Sulla facciata spicca il simbolo di una spada a doppia lama che avvolge un cerchio metallico: è il khanda, segno sacro della fede sikh. E’ il Gurdwara Singh Sabha, il tempio del sikhismo, il più grande d’Italia, il secondo d’Europa. Ogni domenica qui arrivano, dai paesi e dalle campagne di mezza Pianura Padana, i sikh d’Italia, decine e decine di famiglie: i capelli, che i fedeli più rigorosi non possono mai tagliare, nascosti sotto le giravolte della stoffa, le lunghissime barbe degli uomini che rimangono intatte per lo stesso motivo. All’ingresso vengono distribuiti fazzoletti color arancione brillante; nei luoghi coperti si entra senza scarpe, che vengono depositate su lunghe file di mensole. I bambini offrono incessantemente piatti di ceci e verdure in salse speziate che vengono consumate al piano terra del tempio, bevendo tè scaldato con il latte. Al secondo piano le cerimonie scandiscono la mattinata religiosa con sottofondo di canti e preghiere, come nenie dolcissime.
Ramkrishan Singh, 44 anni, sbarcò a Bari più di vent’anni fa e ne passò otto da clandestino prima di approdare nella provincia emiliana al seguito di un circo: e qui trovò lavoro, casa, stabilità. Oggi è impiegato in un’azienda che produce tubi, operaio specializzato conteso tra fabbriche diverse. Ma i Sikh sono soprattutto gli uomini delle stalle: senza di loro non vi sarebbe più il parmigiano, perché nessuno se non loro si alzerebbe a notte fonda per mungere le vacche. Aftar è il capomungitura della Cila, azienda agricola di Novellara, una delle più grandi cooperative italiane (1.200 ettari di terre, 1.000 vacche da latte, 10.000 suini), e la sua è un’altra delle storie semplici di quest’Italia che cambia: arrivato nel 1985 con un visto turistico, prima lavorò nel Milanese, anche lui da clandestino; poi la regolarizzazione e la scoperta delle fattorie dell’Emilia.
Torniamo a Novellara sotto le mura possenti della Rocca dei Gonzaga, testimonianza di una fiera storia medioevale. Per quattro secoli, fra il 1335 e il 1728, questa minuscola cittadina fu signoria indipendente che arrivò persino a battere moneta; un ramo cadetto della signoria di Mantova (che è appena al di là del Po) riuscì per quattrocento anni a difendere l’autonomia di un principato fragile, in un equilibrio di diplomazie e di alleanze. E la rocca, che si dice sia ancora abitata dai fantasmi, è stata rifugio rinascimentale di artisti e poeti, pittori e architetti.
Il sindaco Stefano Calzari ci dice sorridendo: «Novellara è stata davvero capace di sopravvivere alla morsa di papi e imperatori. Ho come una sensazione, che questa abilità a resistere a potenti vicini abbia prodotto una rete di solidarietà fra la gente che è arrivata fino a noi. Il principe, per regnare, aveva bisogno che i suoi sudditi fossero ben trattati e non vessati: l’assistenza era un dovere. Più vicino a noi, il socialismo in queste terre è stato un ideale vero, profondo. E così, quando sono arrivati gli immigrati hanno trovato porte aperte e disponibilità. Qui c’era lavoro e loro avevano bisogno di lavorare». Bella e dolce, Novellara. Come una canzone di Augusto Daolio da ascoltare, bevendo lambrusco, sotto i portici.

PleinAir 377 – dicembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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