Rocche di Piacenza

Da sempre terra di confine, la provincia piacentina offre numerosi spunti di storia, cultura e arte. Vi proponiamo un avvincente percorso in camper tra abbazie e castelli, borghi fortificati e leggende dimenticate.

Indice dell'itinerario

Nell’Era Volgare 575, come ebbe a scrivere Cristoforo Poggiali, “fiorivano a questi tempi, per lode di rara, e singolar Santità, due nobili Verginelle, e Sorelle Piacentine, appellate Liberata e Faustina”. Figlie di Giovannate, signore della Rocca d’Algesio (l’odierna Olgisio), le fanciulle erano ben decise a dedicarsi interamente alla religione. Dall’incontro con un corvo parlante, un insidioso essere malvagio, germoglia però in loro il dubbio. Nel magnificare le gioie dell’amore terreno, il nero volatile convince le due giovani a chiedere al padre di emanare un bando per le loro nozze. Giovannate non si fa pregare. Proclama che tra i pretendenti saranno scelti coloro che porteranno in dote i gioielli più preziosi e sfoggeranno il maggior coraggio, battendo sul campo gli avversari. Al torneo si presentano dodici cavalieri, ma all’ultimo momento si aggiunge a loro una presenza oscura che cela le sue sembianze dietro una veste nera e un elmo ben serrato. Il tredicesimo uomo si fa chiamare principe di Montenero, i suoi gioielli brillano più d’ogni altro, il suo coraggio e la sua abilità non conoscono rivali. A lui è destinata Liberata, ma quando il prete si avvicina per la benedizione, la croce sollevata verso l’alto, il principe urla e si dimena tra nubi di vapore e fiamme per poi precipitare in un dirupo, oggi conosciuto come “pozzo del diavolo”. Dopo quello sconcertante episodio, le due sorelle si ritirarono a pregare in un’umida cavità chiamata Grotta delle Sante, rinunciando per sempre alla vita mondana.
Di leggende come questa ne sono fiorite tante intorno alla rocca d’Olgisio, possente fortificazione ancorata a più di 500 metri di quota. Dallo sperone d’arenaria sul quale poggia il castello si domina l’ondulata Val Tidone. Il paesaggio è di quelli che, abbandonata la pianura, s’ingobbiscono sempre più nel tentativo di guadagnare quota. Vista dal basso, la rocca si staglia nell’azzurro fondale del cielo e solo percorrendo la stretta e ripida strada che raggiunge l’edificio se ne percepisce l’imponenza. Il complesso è circondato da diversi ordini di mura e nella cinta difensiva fanno breccia due ingressi cinquecenteschi. Legata alla storia della famiglia Dal Verme, la rocca custodisce al suo interno alcune belle stanze arredate. Addossati alle pareti troneggiano i massicci camini che un tempo assicuravano agli ospiti una’ calorosa accoglienza. Nella piccola cappella si è conservata l’anima religiosa dei signori dell’epoca, mentre il carattere inquieto e battagliero trova riscontro nei sotterranei che custodiscono armature, lance e palle di cannone. Solo aggirando la struttura dall’esterno è però possibile averne un’idea complessiva e valutarne le dimensioni. Un buon punto panoramico è rappresentato da una formazione di arenaria che sovrasta il lato meridionale del castello. Con sorpresa si scorgono tagli, adattamenti artificiali della roccia, fori per palificazioni e vasche di raccolta dell’acqua piovana. Uno stretto sentiero, che corre sul lato più esposto della parete, mostra alcune grotte e scale scolpite.

L’idea del cerchio
Il diaframma che separa realtà e fantasia è spesso assai sottile, ma è l’indispensabile elemento che evita al tempo di cancellare fatti e personaggi entrati nel cuore della gente. Dove l’immaginario e il reale si toccano il cerchio si chiude. Un viaggio nella provincia piacentina è fatto di tanti cerchi che il visitatore può aprire e chiudere a piacimento, abbandonandosi alla suggestione dei luoghi, ai racconti popolari, alla storia dei personaggi o alle dense nebbie padane. In fondo anche il nostro itinerario insegue l’idea di un cerchio: inizia e si chiude nel capoluogo emiliano. La cittadina è da sempre un punto d’incontro tra le maggiori vie di comunicazione ed è proprio percorrendo l’antica Via Postumia in direzione ovest (l’odierna Statale 10 Padana Inferiore) che ha inizio la nostra cavalcata tra abbazie e castelli. Ricalcando le orme di San Rocco, pio pellegrino che a Sarmato fu miracolosamente guarito dalla peste, si giunge a Castel San Giovanni. Nel cuore dell’importante centro di fondazione medioevale si trova la Collegiata, un bell’edificio in stile gotico lombardo abbellito da statue e teste in terracotta. L’interno si propone come una piccola galleria d’arte con belle sculture lignee e un sorprendente polittico intagliato, risalente alla metà del Quattrocento. La Val Tidone
La valle, che prende il nome dal fiume omonimo, è come un solco che guida verso l’Appennino, a tratti smussato e plasmato da belle conche laterali, spesso sorvegliato da rocche e castelli. A Borgonovo Val Tidone è un’altra collegiata ad attirare l’attenzione del visitatore. Lasciato il mezzo nell’ampio piazzale che si apre sulla rocca, si può raggiungere con una piacevole passeggiata la chiesa di Santa Maria Assunta. L’esterno, tutto in mattoni, si colora di rosso al calare del sole, mentre riluce di bagliori dorati lo stupendo polittico che sovrasta l’altare. La struttura è in legno intagliato e le statue collocate al suo interno sembrano animarsi nelle tinte solari con cui sono dipinte. Una breve deviazione alla volta di Tavernago consente di approdare, attraverso piccole strade di campagna, al Castello della Bastardina (900 metri oltre il cartello di fine paese seguendo le indicazioni per l’omonimo Golf Club). La proprietà, dei conti Avogadro Trissino da Lodi, si presenta come una tipica corte rurale francese, residenza castellana ben protetta da un fossato colmo d’acqua e circondata da un parco. Il maniero è preceduto da uno spiazzo erboso sul quale si affacciano i rustici della corte. Gradevole il cortile interno delimitato da un elegante porticato.
Proseguendo lungo la 412 è Pianello Val Tidone che accoglie il visitatore e lo sorprende con le sue antiche tradizioni. Nella notte tra l’ultimo giorno di aprile e il primo di maggio, nei borghi della valle i giovani passavano di casa in casa cantando e suonando la filastrocca della galeina grisa: una divertente nenia che serviva per chiedere, alla “sposa brava” di ogni cascina, un paio d’uova che il giorno dopo si sarebbero trasformate in una gigantesca e conviviale frittata. Meglio in ogni caso non mangiare troppo pesante se s’intende proseguire fino alla già citata Rocca d’Olgisio. La strada, che dal cancello posto alla base della rupe arranca sino alle possenti mura, è decisamente stretta, con rocce sporgenti e una pendenza impegnativa. Nessun problema per chi vi arriva in auto, potendo contare su alcune piccole asole create lungo la salita, scarsi margini di manovra invece per i mezzi lunghi e pesanti. A questi ultimi è consigliato sostare a valle con conseguente messa in moto delle gambe. La rocca, già avamposto difensivo dei monaci di San Savino in Piacenza, è il nostro giro di boa alla volta di Agazzano. Lungo il percorso, un nastro d’asfalto che unisce il torrente Tidone al fiume Trebbia, emerge dalla foschia la sagoma turrita del castello di Boffalora. Ben conservato, l’antico mastio è raggiungibile grazie a una polverosa sterrata. Leggermente in disparte, rispetto alla piazza del paese, quasi a voler sottolineare la sua nobile genesi, è invece il castello di Agazzano. Il fortilizio, la cui origine va ricercata nel tredicesimo secolo, è incorniciato dal verde di un profondo fossato, oggi trasformato in cortile e ingentilito da statue. Un ponte levatoio consente l’accesso a un elegante loggiato cinquecentesco che corre sui tre lati della struttura. Proprietà del principe Gonzaga del Vodice è anche l’annesso palazzo rinascimentale, che al suo interno nasconde uno splendido salone affrescato. Ogni castello della zona è un brandello di storia locale, ma è anche un piccolo viaggio nella fantasia. Coraggiosi cavalieri e dame maliziose si mescolano ad immaginari intrighi di corte, suggestioni alimentate dalla visita al castello di Rezzanello (deviazione a destra subito dopo Agazzano) o da uno sguardo lanciato al castello di Lisignano, indomita sentinella sul tracciato che scivola a Gazzola.

La Val Trebbia
Più di duemila anni fa, nel 218 a.C., l’esercito cartaginese si preparava a dare battaglia alle truppe romane. Tra le ondulate terre di Gazzola Annibale schierava la sua cavalleria e i mastodontici elefanti da combattimento, pronti ad affrontare un esercito debilitato dai rigori dell’inverno e dai guadi nelle gelide acque del fiume Trebbia. I Romani, inutile dirlo, ebbero la peggio. Oggi, su quello stesso corso d’acqua, si specchia il castello di Rivalta. La sua particolare torre cilindrica costituisce la punta di lancia del borgo medioevale fortificato. All’interno delle mura trovano sicuro rifugio le abitazioni, la chiesa e la possente rocca. Nobile residenza dei conti Zanardi Landi, essa conserva tutto il fascino dei secoli passati, umori di un’epoca cristallizzata negli ampi saloni tirati a lucido, nei soffitti a cassettoni e nelle armature che, come spettri metallici, popolano le stanze di ricordi. Di questi ultimi è piena l’intera valle, che ora risaliamo in parte fino a Bobbio. Qui ci attrae il monastero di San Colombano, uno dei più importanti nuclei monastici dell’Italia medioevale, che ci riallaccia ad un altro servizio di queste stesse pagine. E che evoca un’altra leggenda legata al caratteristico Ponte Gobbo della città. L’irregolare sequenza d’arcate pare infatti che sia il frutto di un patto stipulato con il demonio. Quest’ultimo, per correre in aiuto ai monaci che con fatica lavoravano al ponte, si prestò a costruire l’intera opera in una sola notte. In cambio sarebbe stata sua l’anima del primo essere che vi fosse transitato. Ma i frati al momento opportuno spinsero sulle arcate un vecchio orso, beffando in tal modo il Maligno.Castell’Arquato
Nel passato albergano le nostre radici, gli eventi che hanno determinato certe scelte e persino i sapori veri, quelli che sull’odierna tavola paiono appiattirsi e scomparire. Prendete le mele, ad esempio. Le varietà nostrane, quelle defraudate dalle moderne colture, sono quasi scomparse. Eppure il loro gusto era inconfondibilmente unico. Lo sanno bene i proprietari del castello di Paderna, un bell’esempio di corte rurale fortificata, che da anni lavorano al recupero degli antichi sapori. Le coltivazioni biologiche circondano la residenza padronale, a sua volta attorniata da un largo fossato. Oltre il portale si apre un vasto cortile su cui si erge il complesso castrense che ospita la piccola cappella di Santa Maria. Da Carpaneto l’itinerario si lancia verso i contrafforti appenninici e sale fino al sito archeologico di Velleia. Dell’importante municipio romano restano tracce evidenti, rovine ben decifrabili e distribuite su diversi livelli. Scendendo verso la piana è il castello di Gropparello che invita a rallentare (meglio parcheggiare in paese e proseguire a piedi). La sua severa struttura domina un profondo dirupo e il parco che la circonda sembra, per forme e dimensioni, una foresta magica. Tra le piante secolari gli ospiti più piccoli possono rivivere, con l’aiuto di una guida, straordinarie avventure medioevali. Ai più grandi, invece, il nostro cerchio riserva ancora numerose sorprese. Dopo una sbirciata al battistero e alla chiesa romanica di San Giovanni, orgoglio del paese di Vigolo Marchese, le torri merlate sul Colle di Magno danno il benvenuto a Castell’Arquato (area parcheggio alla base del borgo). Proclamata città d’arte, l’antico possedimento vescovile è passato, nel corso dei secoli, nelle mani di nobili famiglie, tra cui quelle degli Sforza e dei Visconti. Le anguste vie s’aprono un varco tra gli austeri palazzi inerpicandosi fino alla Rocca Viscontea, dalla cui sommità lo sguardo punta alle Alpi e scivola fino alla Pianura Padana. Accanto al turrito edificio c’è la romanica Collegiata di Santa Maria, che nel chiostro trecentesco ospita un gradevole museo, mentre il Palazzo Pretorio si affaccia con piglio severo sulla vasta piazza. Ripresa la strada e deviando appena dalla viabilità principale, arriviamo presto a Castelnuovo Fogliani e all’omonimo castello che una lenta metamorfosi ha trasformato in palazzo gentilizio.

La piana delle nebbie
Dell’antica strada dei pellegrini, la Via Francigena, non resta molto sull’odierna e trafficata Via Emilia. Per ritrovare le tracce della fede è consigliabile seguire le indicazioni per Chiaravalle della Colomba. Sul luogo ove il bianco pennuto fece cadere alcuni fili di paglia, la leggenda narra che Bernardo di Chiaravalle edificò l’abbazia cistercense. Trasformato nel corso degli anni, il complesso monastico conserva uno stupendo chiostro disegnato da quasi cento arcate. Queste ultime sono sostenute da piccole colonne di marmo rosa e non mancano di suscitare stupore quelle angolari, che si presentano annodate. La visita è una buona occasione per acquistare i liquori d’erbe e gli altri prodotti naturali che i monaci confezionano seguendo antiche ricette. Altre belle chiese si trovano a Cortemaggiore, il cui nome è spesso associato agli impianti d’estrazione del metano. La Collegiata di Santa Maria delle Grazie domina la piazza principale, mentre in posizione decentrata è la chiesa annessa al monastero di San Francesco che conserva la bella cappella di Sant’Anna, affrescata dal Pordenone. Poco oltre l’abitato s’incontra San Pietro in Cerro con il suo castello, fedele testimonianza di dimora gentilizia del Quattrocento. Prima di chiudere il cerchio, rientrando nel capoluogo, è d’obbligo una visita a Monticelli d’Ongina. Accoglie il visitatore la Collegiata di San Lorenzo, ricca di tele e stucchi, ben apprezzabili appena varcata la soglia aperta sulla facciata neogotica. Cuore dell’abitato resta in ogni caso la Rocca. L’imponente struttura è l’odierna testimone, grazie ai musei che vi trovano ospitalità, del profondo legame che la cittadina ha con il fiume Po, illusionista senza rivali quando si tratta di far scomparire cose e persone nella nebbia. Nella densa coltre bianca il presente si dissolve e lascia il posto ai miti e agli eroi di sempre. La storia li ha resi famosi, la fantasia popolare ne ha decretato l’immortalità.

PleinAir 327 – ottobre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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