Ritorno alle origini

Dopo il giro del mondo in camper durato sette anni, trasportando da un continente all'altro il loro motorhome, Cesare ed Elisabeth Pastore non hanno ancora dato fondo al loro desiderio di abitar viaggiando: e continuano – da navigati ambasciatori di un turismo di vera scoperta – a regalarsi esperienze sempre nuove in terre spesso lontane e difficili. Dal loro viaggio dello scorso inverno attraverso l'Africa Occidentale, ecco una piccola rassegna di incontri ed emozioni.

Indice dell'itinerario

Un amico francese mi spedisce un articolo apparso su una rivista di viaggi. Resto fulminato dal titolo: “La Transsaharienne, le mirage devient réalité”. Leggo l’articolo due volte per essere certo di aver ben compreso il contenuto: non ci sono dubbi, il sogno di tanti appassionati di viaggi è diventato realtà, il tratto di strada in Mauritania compreso tra il confine con il Marocco e il Senegal è stato asfaltato ed è percorribile da ogni tipo di veicolo. La via per i paesi dell’Africa Occidentale è finalmente aperta, e immediatamente programmiamo un viaggio per l’inverno 2010.
Più che sull’itinerario e sulla parte burocratica, i preparativi si concentrano sulla sistemazione del camper, il fedele Vagator vecchio di vent’anni e con il contachilometri che segna quasi 350.000. Pensiamo di andare oltre la Mauritania: dove esattamente, lo decideremo strada facendo.

C’est l’Afrique
Sbarcati a Tangeri, troviamo freddo e pioggia battente. La nostra prima tappa è Rabat, dove dobbiamo fare il visto per la Mauritania; ci accampiamo per tre giorni davanti all‘ambasciata, perché dal venerdì al lunedì successivo è tutto chiuso. Ci troviamo in una zona residenziale che pian piano si riempie di auto e furgoni scassatissimi condotti da francesi e anche da qualche tedesco: sono i famosi peugeotisti, che iniziarono alla fine degli anni ‘70 a portare vecchie Peugeot 504 dall‘Europa ai paesi del Sahel. Tutti aspettano impazienti l‘apertura degli uffici per ottenere il visto e proseguire il viaggio.
Alle 7 di mattina sono tra i primi a mettermi in fila. Pian piano la gente arriva in massa, e quando alle 9 viene aperta la porta dell’ufficio visti si scatena una lotta selvaggia con spinte e gomitate per infilarsi nello stretto pertugio. «C’est l’Afrique» commenta, con un fazzoletto sotto il naso, un francese pressato come me da una folla di neri in una stanzetta.

Profughi e migranti
Superate Agadir e Goulemine, proseguiamo verso sud mentre il paesaggio si fa sempre più pietroso e desertico. Un’ottantina di chilometri dopo Tan Tan inizia quello che era una volta il Sahara Spagnolo: nel 1975, dopo il ritiro della Spagna, i Saharawi, invece di giungere all’agognata indipendenza, si trovarono ad essere invasi da nord dal Marocco e da sud dalla Mauritania, che si erano accordati per spartirsi le ingenti risorse del territorio. Il Marocco cercò di spacciare l’invasione per una migrazione spontanea, la cosiddetta Marcia Verde, e il Fronte Polisario organizzò la resistenza per proteggere la fuga di migliaia di persone che si mettevano in salvo varcando il confine algerino. La Mauritania venne sconfitta e nel 1979 fu costretta a ritirarsi, mentre il Marocco occupò l’intero territorio. Questa guerra non è ancora ufficialmente conclusa, e la strada costiera è pattugliata da camionette dell’Onu che garantiscono l’armistizio.
A Dakhla, l’ultima ventosa cittadina prima del confine, c’è anche un campeggio, ma la maggioranza dei camper staziona lungo la costa. Sono centinaia i mezzi provenienti da tutta Europa, in maggioranza francesi ma anche molti italiani. Al mattino il mercato è affollato di turisti che acquistano soprattutto pesce, venduto a prezzi irrisori: per Dakhla costituiscono una risorsa non indifferente.

Lavoro da schiavi
La strada per la Mauritania è un nastro d’asfalto che si perde diritto nel deserto. Superata la frontiera marocchina inizia la “terra di nessuno“, una striscia sminata di 7 chilometri per 2, dove non esistono tracce di strade o piste: è uno degli esempi più tangibili della guerra dimenticata, una delle tante. Tra massi enormi e spaccature profonde che metterebbero a dura prova anche il più robusto dei fuoristrada, il povero Vagator geme e ondeggia tra carcasse di auto abbandonate, ma dopo vari tentativi riusciamo a trovare una via d’uscita e finalmente ci portiamo sulla Transsaharienne. Costruita dai cinesi in cambio di minerale di ferro e fosfati, è moderna, ben asfaltata e abbastanza larga: attraversa il nulla assoluto per oltre 500 chilometri, con un unico distributore a metà percorso. Procediamo spediti verso la capitale mauritana quando, a metà mattina, il cielo si rabbuia improvvisamente e si scatena una tempesta di hamattan, il vento caldo del Sahara che nei mesi invernali porta polvere e sabbia. La visibilità si riduce a pochi metri e avanziamo con grandissima fatica, ma poi cominciamo a scorgere, attraverso quella nuvola polverosa, pezzi di plastica volanti e spazzatura ai lati della strada: Nouakchott non è lontana.
La città è sorta nel 1960 in pieno deserto, a 5 chilometri dal mare; ancora oggi solo poche strade sono asfaltate e forse è l’unica capitale al mondo dove ci si può insabbiare in pieno centro. Popolare punto d’incontro dei viaggiatori è la locanda Menata, nel cui giardino è possibile parcheggiare. L’unica attrattiva di Nouakchott è il porto peschereccio dove centinaia di imbarcazioni arrivano nel tardo pomeriggio cariche fino all’orlo di pesce, che squadre di portatori trasportano di corsa in pesanti ceste dalle barche ai camion in attesa: un lavoro da schiavi.
Ci accordiamo con due peugeotisti tedeschi diretti in Gambia per formare un piccolo convoglio sino al confine di Rosso, sul fiume Senegal: la strada è sempre stata sicura, ma qualche settimana fa proprio qui sono spariti tre operatori della cooperazione spagnola. Tra tutte le frontiere che ci aspettano, questa gode della fama peggiore per la voracità dei funzionari e la corruzione che regna fra poliziotti e doganieri. Lo scopriremo ben presto, catturati da una lunghissima e complicata trafila di snervanti pratiche burocratiche per le quali ingaggiamo un ragazzotto dall’aria sveglia. Riusciremo a passare dopo otto ore, sborsando 10 euro al poliziotto che presidia l’imbarco e altri 50 euro, una volta traghettati sulla sponda senegalese del fiume, al sedicente cugino di uno dei funzionari doganali, che però ci fa restituire i passaporti timbrati in pochi minuti. Da quello che abbiamo sentito da altri viaggiatori, non ci è andata poi tanto male.

Il parco dei pellicani
Saint Louis è la seconda città del paese dopo Dakar e ha conservato, almeno in un paio di strade del centro, una certa atmosfera coloniale francese. C’è un campeggio proprio sulla spiaggia e la sera i viaggiatori si riuniscono intorno al fuoco per bere una birra fresca e raccontarsi le loro esperienze di viaggio; si parla degli africani, tema d’obbligo per tutti gli europei, e delle angherie e dei soprusi subiti dalla polizia. Ad ogni buon conto, come ci hanno consigliato, compriamo un secondo triangolo che al primo posto di blocco ci viene puntualmente richiesto insieme a ogni altro possibile documento, compresa la patente internazionale. Il poliziotto con aria maligna ci fa tirar fuori tutto l’immaginabile, e noi con aria altrettanto maligna glielo porgiamo: niente da fare, ogni cosa è in regola, alla fine fa il broncio come un bambino e ci fa proseguire.
Leggiamo sulla nostra guida che nel parco nazionale dei Dijobu vengono a nidificare durante l’inverno centinaia di migliaia di pellicani. Dopo una decina di chilometri la pista lascia il posto a solchi polverosi che si perdono tra i sassi, e impieghiamo un intero pomeriggio ad arrivare: il premio è un giro in barca nel dedalo di canali e acquitrini per ammirare uno spettacolo che è dato vedere solo nei documentari naturalistici.

Assistenza su strada
Proseguendo verso sud il paesaggio perde il carattere desertico ed inizia la savana, un’arida distesa di erba gialla e arbusti stenti fra cui spiccano rari baobab sotto un cielo lattiginoso e pieno di polvere. Passiamo il confine con il Mali senza eccessivi problemi e ci dirigiamo verso la capitale Bamako, una delle città più caotiche e miserevoli dell’Africa Occidentale. Ad ogni rallentamento del traffico siamo attorniati da gruppi di ragazzi vestiti di stracci che portano legato al collo un barattolo: sono quelli che qui chiamano garçon à boite, e che elemosinano qualche centesimo o un tozzo di pane dagli automobilisti in transito.
Verso il centro del paese la strada peggiora sensibilmente, l’asfalto sulle banchine è letteralmente in frantumi e pieno di buche profonde, la guida è lenta e faticosa. Da qualche giorno stiamo seguendo il corso del Niger che è la linfa vitale del Mali, l’unica vera risorsa idrica di questo paese desolatamente arido. Attraversiamo villaggi poverissimi e ci fermiamo a fare rifornimento d’acqua dove c’è una cisterna; ma la gente, appena vede il nostro camper, lo scambia per un’ambulanza e lo prende d’assalto. Arrivano mamme con i loro piccoli, anziani malati, infortunati con ferite infette e piaghe purulente piene di mosche: non possiamo fare altro che distribuire medicinali della nostra scorta. Quello che stiamo vivendo è ormai un penoso pellegrinaggio attraverso le miserie dell’Africa; e sarà solo a Segou, con la sua atmosfera tranquilla, le strade polverose lungo il fiume, l’antico quartiere dei pescatori con le case di fango rosso che riusciremo a riconciliarci con questa terra.

Auguri, Maestà
Arriviamo alle porte di Djenné, una delle località più interessanti e suggestive del paese, dove sorge la famosa moschea costruita interamente con fango e paglia. Poiché la città sorge su un’isola del fiume Bani, un affluente del Niger, dovremmo imbarcarci per raggiungerla; ma la rampa del traghetto è troppo alta per il camper, e così ci accampiamo in uno spiazzo sabbioso sulla riva del fiume (ci resteremo tre giorni, il sito è tranquillissimo). L’indomani prendiamo un taxi per visitare Djenné, la moschea e l’adiacente mercato, il più grande e il più ricco di quelli che abbiamo visto in tutto il viaggio.
Attraverso ampie risaie lungo una fertile striscia tra il Niger e il Bani arriviamo a Mopti, tappa obbligata di un viaggio in Mali: il suo porto fluviale è il più importante del paese, ma il trambusto e il sudiciume lungo le scalinate che formano le banchine superano ogni immaginazione.
Ci attende ora un tratto di duro sterrato sino al confine con il Burkina Faso, attraverso l’arida savana che si confonde con la linea piatta dell‘orizzonte. Il posto di frontiera è una baracca sgangherata, ma le pratiche sono sorprendentemente veloci e corrette. Il Burkina Faso è uno dei paese più poveri del mondo e vive soprattutto grazie agli aiuti internazionali e alle numerose iniziative di volontariato, fra cui numerose sono quelle italiane: noi siamo diretti al villaggio di Nanoro, dove sono attive organizzazioni piemontesi e toscane che contribuiscono non poco alla vita civile del posto. Da anni ormai esistono un ospedale modernamente attrezzato dei Camilliani, un asilo e varie scuole, compresa una di agraria.
Entrando in paese vediamo un’elegante costruzione e intorno ad essa un gran numero di lussuosi fuoristrada con i finestrini oscurati. Pensiamo che si tratti di un albergo e ci fermiamo incuriositi, ma si avvicina un signore vestito con la tunica tradizionale e ci chiede se siamo venuti a rendere omaggio a Nana Tiger, il monarca, che oggi compie novant’anni. «Certo, siamo qui apposta» replichiamo, e subito veniamo introdotti in una grande sala dove su un trono siede il sovrano, avviluppato in un manto candido e con in testa un copricapo circolare ricamato. In un francese perfetto si informa del nostro viaggio, ci dice che ha molti amici in Italia e ha curato personalmente il gemellaggio con numerose località del nostro paese. Ci viene offerto un rinfresco e poi ci congediamo, lasciando il passo a una fila di personalità altolocate che sono venute fin qui da Ouagadougou, la capitale, a fare gli auguri al re.

Amici volontari
A Nanoro e facciamo conoscenza con Gino e Enrico, che passano qui i mesi invernali per conto di un’associazione piemontese per controllare che le donazioni vengano utilizzate in modo corretto. Con le loro moto enduro ci portano in giro a visitare le scuole e i villaggi nella savana e ovunque siamo accolti con manifestazioni di ossequio che ci mettono in sincero imbarazzo; in vita nostra nessuno ci si era mai prostrato davanti.
La miseria intorno a noi è come sempre uno spettacolo che intristisce, ma anche in questi angoli sperduti è arrivato l’aiuto dei volontari: nell’ospedale si alternano a rotazione medici e chirurghi provenienti dall’Italia, che rimangono in media una decina di giorni ed eseguono ogni tipo di operazione. Un lodevole esempio di come si possa creare opportunità di lavoro aiutando la gente nei paesi d’origine è invece quello della Coop Toscana, che ha fondato diverse cooperative agricole specializzate nella coltivazione di primizie, in particolare fagiolini: l’attività è seguita da agronomi italiani e assicura un utile non indifferente alle famiglie dei contadini.
Le visite con i nostri accompagnatori ci aprono gli occhi su una realtà per noi sconosciuta, e questa sarà l’esperienza più umanamente coinvolgente di tutto il viaggio. Ovviamente non tutto è perfetto e, com’è facile immaginare, quando un’ingente quantità di denaro si riversa in questi paesi è inevitabile che ci siano episodi di disonestà e ruberie varie: tutto questo però non scoraggia l’impegno e la dedizione di tanti operatori laici e religiosi, a conferma che la cooperazione non è, come ha sostenuto qualcuno, un circo che tiene in vita una miriade di organizzazioni che vivono e ingrassano sull’industria degli aiuti umanitari.

Quasi a casa
Ouagadougou è la più vivibile e ospitale delle capitali che abbiamo visitato; campeggiamo presso il Centro Shalom, dove operano diversi toscani. La temperatura, giorno dopo giorno, diventa sempre più insopportabile e le parti in metallo all’interno del camper diventano così calde da non poterle toccare.
A Bobo-Dioulasso è il momento di iniziare la lunga risalita verso lo Stretto di Gibilterra, ma questa volta siamo decisi ad evitare il Senegal e preferiamo percorrere la famigerata strada del deserto, entrando direttamente dal Mali in Mauritania. Ripassiamo per Bamako e ci dirigiamo verso il confine di Kobenni, nei cui pressi sono stati rapiti pochi mesi fa i due italiani. Seguiamo come programmato la nostra tabella di marcia in tre tappe, Ayoun, Kiffa e Aleg: la strada è tutta asfaltata e solo un tratto di 130 chilometri prima di Kiffa è completamente distrutto dalle inondazioni dell’estate passata.
Dopo Aleg viaggiamo attraverso un deserto di un colore rosso dorato, dove la sabbia spinta dal vento assume forme morbide con grandi onde a perdita d’occhio. E’ uno spettacolo splendido, al di là delle parole, il più bello da quando siamo in Africa. Sull’asfalto il tremolio dell’onda di calore crea dei miraggi, ci sembra di scorgere all’orizzonte laghi circondati da alberi e di vedere la strada trasformarsi in un fiume luccicante. Arrivati a Nouakchott, abbiamo quasi l’impressione di essere a casa: e dire che all’imbarco mancano ancora 4.000 chilometri.

Testo e foto di Cesare Pastore

PleinAir 459 – ottobre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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