Ricordando Brigadoon

Brigadoon, villaggio scozzese che appariva per un solo giorno ogni cento anni, rende bene l'immagine di quei posticini fuori dal mondo che ognuno prima o poi ha incontrato, amandoli a prima vista come rifugi dell'anima: luoghi dove di tanto in tanto ritorna la memoria e che si rivelano solo agli amici più cari. Nell'Italia centrale, eccone sei.

Indice dell'itinerario

Al ritorno da una grande città, da un affollato centro d’arte, da un lungomare d’estate, si potrà scoprire un’oasi di insospettata pace: sotto le mura di un borgo fortificato, davanti a una chiesetta di campagna o nella piazza di un sonnolento paese.
Chi per la prima volta si rende conto delle possibilità che offrono l’Italia e l’Europa al di fuori degli itinerari battuti, sarà preso dall’euforia: e andrà a sperimentare qualunque situazione gradevole all’occhio, come il villaggio arroccato su un colle, l’abbazia annunciata dal cartello, la zona archeologica deserta. Il punto di arrivo di questa ricerca non è ritrovarsi nel nulla di uno slargo a fianco della strada, bensì finire in chissà quale sperduta frazione che le carte neppure riportano. Si passano ore tranquille, si scopre il bar dove la sera sono riuniti tutti gli uomini del posto, la mattina si fa la spesa tra le facce stupite di chi, da quelle parti, non ha mai visto un turista. Tornati a casa, si telefona all’amico. Lo sai dove ho dormito? Aspetta, ora prendo l’atlante… Tutto inutile: il posto non c’è. Sembra quasi la storia di Brigadoon, il villaggio scozzese che riappariva ogni cento anni per la durata di un giorno e poi svaniva di nuovo nelle nebbie delle Highlands.

Improvvisamente, Porrona
Per avere la misura delle occasioni che si perdono a programmare tutto, quando si affronta un viaggio sia pure breve, basta percorrere le strade secondarie che dall’Amiata portano a Grosseto. Dove la discesa si stempera tra le prime crete della Maremma, un “miraggio” colpisce i più curiosi, in specie quelli che sullo stesso percorso non s’aspettano nulla degno di nota, stando alle guide e alle carte stradali. Un borgo fortificato appare improvvisamente, isolato nella campagna a tre chilometri da Cinigiano. La segnaletica blu dice Porrona, nient’altro: ma la visione è di quelle che ti fanno girare il volante senza pensarci, e in pochi attimi ti ritrovi sotto un gioiello di architettura militare. Porrona? Mai sentito. Ma già che ci sei lo visiti. E tanto per cominciare scopri che ci si arriva anche in auto, per una stradina invisibile dal basso; che proprio sotto la porta urbica c’è un delizioso parcheggio con tanto di ombra e fontanella; che il borgo è normalmente abitato e ben tenuto. Niente a che fare con residenze private o alberghi esclusivi, come giusto in Toscana è facile incontrare. Cosicché varchi le mura e ti sembra di entrare in una pagina di storia illustrata. Il castello originario, appartenuto agli Aldobrandeschi, era già qui nel 1206; settant’anni dopo sostenne una dura ribellione contro Siena; saccheggiato e distrutto nel 1337, fu ricostruito un secolo dopo, acquistato dai Tolomei e quindi ceduto in parte alla sorella di Papa Pio II Piccolomini. Oggi come allora le abitazioni minori occupano gli spalti esterni delle mura, il castello vero e proprio (residenza dei Tolomei) sorge sul lato nord della grande piazza d’armi, mentre su quello est si trova la Casa Grande (residenza dei Piccolomini); e al centro, in asse prospettico con la porta d’ingresso c’è, neanche a dirlo, la pieve.

Pennabilli, un paese da leggere
Ci sono certi viaggiatori che in un posto nuovo prima d’ogni altra cosa sono colpiti da quanto trovano scritto in lingua comprensibile (magari il greco antico…): dalle lapidi commemorative alle targhe stradali, alle insegne dei negozi, agli orari del cimitero. Per loro abbiamo scovato un paese in cui avranno da accamparsi prima d’aver letto tutto quel che c’è da leggere, e non si tratta del solito villaggio in cui il tizio di turno imbratta i muri. Qui siamo ad un livello notevole, a dimostrazione di come l’iniziativa, il genio e la fantasia di un singolo individuo, nel caso specifico il grande Tonino Guerra (sceneggiatore dei film di Fellini), possa stimolare la collaborazione di altri appassionati fino a trasformare un borgo in un’autentica opera d’arte. Sapevamo solo dell’orto dei frutti perduti, raccolta di piante che le colture industriali hanno fatto sparire dalle nostre campagne; abbiamo trovato il resto. Pennabilli si erge su un picco roccioso dell’alta Val Marecchia; l’orto si trova al centro del paese, ed è un po’ il compendio di tutto l’itinerario, per cui avendo fretta ci si può limitare alla sua visita. Si è accolti da una serie di sculture che vogliono rappresentare la stilizzazione di un bosco (“labirinto dell’anima dove per breve tempo puoi perdere la memoria e trovare soltanto il giorno più bello della tua vita”) e che rimandano al “giardino pietrificato” della vicina torre di Bascio (serie di piramidi di pietra). I “frutti perduti” sono alberelli dal nome dimenticato o mai conosciuto come giuggiolo, bricoccolo, melo popino, azzeruolo giallo e così via. Più in basso, all’interno del grande lavatoio comunale dodici ceramiche portano frasi relative ai rispettivi mesi dell’anno. Ma lo scorrere del tempo è qui segnato soprattutto dall’orologio astronomico orizzontale in cui il visitatore è invitato, posizionandosi sul mese corrente, a fare da stilo. E’ la prima delle tante meridiane che si incontreranno in paese, tutte moderne e tutte originali, come quella che coinvolge San Sebastiano (qui è una freccia a fare da gnomone) o l’altra in cui a una certa ora del pomeriggio l’ombra di un uccellino di latta va a congiungersi col passerotto dell’affresco; identico gioco viene cercato nell’orto, laddove una scultura in ferro ricorda due grandi del cinema recentemente scomparsi: anche qui il sole del pomeriggio disegna sulla pietra bianca le ombre dei colombi in volo riproducendo i profili di Fellini e della Masina. Ma ciò che più colpisce è l’idea che le pietre portino in sé il ricordo di chi vi è vissuto in mezzo: così nell’orto abbiamo una chiesetta ricostruita con frammenti di altre chiese scomparse, mentre in alto nel paese c’è un muro ugualmente composto con i resti di edifici religiosi “nella convinzione che siano in grado di tenere nel loro interno il ricordo pietrificato di voci di canti di speranze di chi è stato protetto dai loro muri”. E dappertutto targhe ricordo di personaggi reali o leggendari che hanno occupato le case o vi sono passati.
Comunque il paese va letto soprattutto per i pensieri depositati un po’ dovunque, dallo specifico santuario costituito da “sette pietre misteriose, sette specchi opachi per la mente, sette confessori muti che aspettano di ascoltare le tue parole belle e le tue parole brutte”, alle sculture alte e strette piantate nel terreno come chiodi: si va da espressioni che fanno meditare tipo “c’è chi non sa dove andare ma sta correndo per andarci subito” oppure “spesso l’orizzonte è alle nostre spalle”, a battute dal sapore di paradosso (“se preparo un pacco finisce che mi ci trovo dentro” e “anch’io potrei diventare noioso se non lo fossi già”) per cui, con tutto il rispetto per Tonino Guerra, sembra che anche Groucho Marx sia passato da Pennabilli. Insomma è tutta una favola che trova l’epicentro nella chiesetta sconsacrata di San Filippo, proprio di fronte all’orto, dove è poeticamente narrata (in dialetto, ma con testo a fronte) la leggenda dell’angelo coi baffi che deriso dai santi del paradiso dava da mangiare agli uccelli impagliati, finché questi un giorno presero il volo e riempirono di canti il cielo.
In un paese del genere sarebbe assurdo non trovare ospitalità, così fra il grande parcheggio del municipio e la piazza del mercato (ove comodissima è la presa d’acqua) si potrà fare (in camper) un’esperienza migliore del “grande poeta Ezra Pound” che, come recita l’ennesima targa sull’ex Albergo Malatesta, “dormì una notte agitata per aver sostato con amore in mezzo ai ruderi del castello della Penna”.Loretello: ciak, si gira!
Ci si aspetta che da un momento all’altro arrivi il camion con gli attrezzisti a smontare la scena: invece qui il film si gira tutto l’anno, solo che il set è stranamente deserto. Si tratta di uno dei tanti borghi fortificati o castelli più o meno manipolati che punteggiano il paesaggio marchigiano, ma con la particolarità di essere minuscolo, forse il più piccolo in assoluto, tanto da sembrare una ricostruzione da film. Integro, con la scarpa e il giro di ronda, e dei vicoli talmente stretti che le auto degli abitanti (peraltro pochi) rimangono parcheggiate in fila nel viale d’ingresso. Ma il nostro posto per la notte (assolutamente tranquilla e silenziosa, non passa neanche un cane) lo ritroviamo per uno sterrato che scende sotto le mura, proprio in faccia alla poderosa scala da cui si accede agli spalti, così ben conservata da sembrare rifatta e invece basta calpestare l’acciottolato sconnesso per saggiarne l’antichità. Lo ritroviamo perché il sito, così vicino a casa, è stato più volte meta delle nostre spedizioni. Situato in posizione strategica sul crinale che divide la valle del Cesano da quella del Nevola, praticamente a cavallo fra le province di Ancona e Pesaro, dai suoi spalti si gode la classica vista a 360° e una volta decidemmo di trascorrere qui la notte di Capodanno, in assoluta solitudine ma circondati, all’ora fatidica, da un’autentica cortina di fuochi d’artificio provenienti da tutti i paesi della zona visibili fino all’orizzonte. Che dire di più? Frazione del comune di Arcevia, Loretello fa parte di un antico sistema di difesa. Se nello stesso capoluogo, storico centro di villeggiatura estiva (prediletto da una nutrita colonia di romani), si rintracciano resti di mura e alcune significative porte, nei colli tutt’attorno quasi ogni borgo corrisponde a una rocca di cui restano ancora importanti vestigia. Così, visitato Loretello (e non ci vuole davvero molto tempo!), armati di una buona mappa ci si può spingere ad Avacelli, Castiglioni, Caudino, Montale, Palazzo e Piticchio se non altro per confermare che l’impianto di Loretello, per stato di conservazione e dimensioni, è davvero unico.

Spelonga, legno e pietra
Me l’hanno consigliato gli amici, questo paesino dell’Ascolano quasi ai confini del Lazio: «tu che cerchi posti fuori dal mondo, vedrai che sorprese ti riserva!».
Spelonga, nell’alta valle del Tronto, si raggiunge lasciando la Salaria all’altezza di Arquata e arrampicandosi, per una strada piuttosto stretta, in un bosco di castagni. A prima vista è il solito villaggio di montagna, abitato da pastori e boscaioli: qui un gregge che taglia la strada, là un rimorchio con dei tronchi. E anche le case, almeno quelle non rifatte, sono tipiche dell’Appennino, con muri in pietra, scale esterne e piccoli loggiati: alcune cadenti, altre addirittura puntellate. Ed ecco la sorpresa preannunciata: sulla porta di un vecchio edificio c’è un’architrave scolpita, poco più in là un’altra, e girando ancora per il paese si continuano a trovare questi bassorilievi un po’ primitivi il cui tema prevalente è l’angelo in volo. Ma le sorprese non sono finite: entrando nella parrocchiale di Sant’Agata si scopre un pregevole ciclo di affreschi quattrocenteschi e poi, in una bacheca, uno stendardo malconcio. Apparteneva, è scritto, a una nave turca e costituisce il locale trofeo della battaglia di Lepanto, cui parteciparono ben 150 abitanti di Spelonga in funzione di carpentieri: per celebrare l’evento, ogni quattro anni viene ricostruita in piazza un’imbarcazione con il legname proveniente dai vicini boschi. Di più non è dato di sapere: però ti accorgi che c’è un’aria strana in giro. Se ti accingi a fotografare le architravi, subito c’è chi vuol sapere se per caso non stai facendo rilievi per la Sovrintendenza, oppure se sei un giornalista. Qualunque sia la tua risposta, è l’occasione per una sequela di lamentazioni: gli edifici più antichi (quelli per l’appunto decorati dai bassorilievi) sono vincolati e ai proprietari non è consentito metterci mano, neppure per la manutenzione ordinaria; il promesso intervento pubblico non arriva… Di questo, gli amici non ti avevano avvertito. Non è la prima volta che ti trovi a girare per posti fuori dal mondo dove non passa quasi mai un turista, fra gli sguardi della gente che studia il tuo abbigliamento, l’attrezzatura fotografica, il semplice rituale di muoversi, fermarsi, puntare l’occhio su un dettaglio, ma raramente hai provato il disagio di fare il turista spensierato laddove gravano problemi veri o presunti. Lasciandoti alle spalle le probabili frustrazioni di chi non può pesantemente manipolare la bella seppur cadente antica casa per trasformarla in una brutta anonima casa moderna, come ha fatto il vicino, ti defili in punta di piedi verso il mezzo, lasciato nel primo spiazzo all’ingresso del paese nella previsione (poi confermata) che per tutto il lungo anello a senso unico tra le case, fino alla strada per il fondovalle, non ci sarebbe stato altro modo di parcheggiare.

Poggio Perugino, ma nel Lazio
E’ così lontana Perugia che le indicazioni stradali fanno un certo effetto; anche a me che in queste contrade ho trascorso l’infanzia. Poggio Perugino? Ma se siamo nel comune di Rieti, sopra un cocuzzolo dei Monti Sabini! Il toponimo è in effetti un relitto storico: di quando la giurisdizione amministrativa del capoluogo umbro comprendeva gran parte della stessa provincia reatina. Anche per questo, transitando lungo la valle del Canera e guardandolo dal basso si direbbe un posto dimenticato, non soltanto fuori dal mondo. Ma ci arriva anche una strada asfaltata, persino comoda, che si conclude in uno slargo, utile per le manovre della corriera e sufficiente per la sistemazione di due o tre camper. Un’ultima curva e pochi metri più in là l’asfalto si mescola all’acciottolato che lambisce la chiesa, stringendo una coroncina di case intorno ad un acrocoro verde. Sotto, due o tre gradonate sorreggono un grappolo di tetti a sbalzo sul panorama; e davanti, la vista si apre a ventaglio sui Monti Reatini, sul Terminillo, la Valle Santa, i rilievi settentrionali della Sabina. Ben poche persone ormai abitano il paese tutto l’anno; e se proprio non se ne sono andate, hanno preferito rifarsi la casa in piano, con le comodità della macchina. Sulla stessa mulattiera che dallo slargo s’impenna fino ad una cappellina e poi prende a serpeggiare mollemente nel bosco, di muli non ne passano quasi più; ci si incrociano piuttosto qualche trattore o qualche fuoristrada “amante della natura”. Passo passo in meno di due ore si può arrivare in cima al Monte Pizzuto, ovvero al Tancia: senza troppa fatica e con l’aiuto dei segnavia bianco-rossi del CAI. Ma a mezza strada, e in metà tempo, si sbuca sulla radura de Le Prata, un fantastico vallone di pascoli che naviga tra le ultime chiome dei faggi. In questo mare verde “il naufragar” è così dolce che alcuni volenterosi del posto hanno avuto l’idea di organizzarci ogni anno ai primi di agosto una festa campestre, quasi un happening dell’identità locale ritrovata, con grande concorso di pubblico, mangiar sano, canti e balli sull’erba fino a sera. Al solo pensarci mi tornano in mente tutti insieme i momenti corali del vivere in campagna che per poco ho conosciuto e che si sono irrimediabilmente perduti: dalla mietitura a mano alla trebbiatura sull’aia, dalla raccolta del foraggio alla sgranatura del mais. Bisogna proprio uscire dal mondo per recuperarne l’umanità. Motivo di più per ritornare, mi convinco, mentre guadagno il tepore del camper.

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PleinAir 318 – gennaio 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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