Qualcosa di sorprendente

Le aree interne ignorate dai grandi percorsi turistici sono un serbatoio di proposte a cui attingere senza riserve per gli itinerari pleinair, con la certezza di scoprire motivi di pregio resi ancora più godibili dalla freschezza con cui si propongono. E' il caso delle sorgenti del Volturno e dei paesi molisani che presidiano il primo tratto del suo corso: un piccolo comprensorio dalla lunga storia, con tradizioni popolari tenacemente conservate e testimonianze architettoniche e artistiche del tutto degne del confronto con località ben più famose.

Indice dell'itinerario

Anche i fiumi, come gli esseri umani, vengono solitamente ricordati per la loro importanza; e come accade per gli uomini, dei grandi corsi d’acqua spesso dimentichiamo le origini, quelle piccole sorgenti da cui sgorgano le prime gocce. Prendiamo ad esempio il Volturno, il principale fiume dell’Italia meridionale sia per lunghezza sia per portata. Molti sanno che sfocia nel Tirreno fra Gaeta e Napoli, a Castel Volturno, perché il paese porta il suo nome, ed è noto altresì che durante il Risorgimento la sua valle fu teatro di un’importantissima battaglia, nella quale Garibaldi e i suoi uomini bloccarono l’offensiva dell’esercito borbonico ricostituitosi tra le mura di Capua.
Ma quanti sanno che il Volturno nasce in Molise, sui Monti della Meta? I primi rivoli stillano dalle rocce di questa piccola catena a ridosso del confine tra Lazio, Abruzzo e Molise, non lontano dal paese di Castel San Vincenzo; da qui il fiume, pur con un andamento sinuoso che cambia spesso direzione, punta decisamente a sud andando a segnare il limite con la Campania. L’alta valle è un territorio quasi sconosciuto al turismo, nonostante i motivi di interesse rappresentati dalle località della zona: come dire che la sua più naturale modalità di scoperta è il pleinair.
Individuare la sorgente di Capo Volturno non è semplicissimo, ma c’è qualche indicazione nella parte bassa del territorio di Rocchetta a Volturno, dove si trova un piccolo impianto dell’Enel con un laghetto artificiale circondato da salici e pioppi, molto frequentato dalle anatre durante le migrazioni: se nel periodo autunnale si concentrano soprattutto folaghe, moriglioni e tuffetti, in primavera sarà la volta di marzaiole, alzavole e gallinelle d’acqua. Essendo circondato da una rete il piccolo specchio d’acqua non è molto fruibile, ma proprio di fronte, sempre sotto la mole del Monte della Rocchetta, c’è ampia possibilità di sostare con il veicolo ricreazionale e si presume che la fontana offra acqua di sorgente. Un breve tragitto, percorribile anche a piedi o in bicicletta, conduce all’abbazia di San Vincenzo al Volturno, la cui storia risale all’anno 703 quando tre nobili beneventani, dai curiosi nomi di Paldo, Tato e Taso, fondarono il primo cenobio per poter fare vita di penitenza secondo la regola benedettina. Nel periodo di maggior splendore il complesso abbaziale occupava un’area di circa 5 ettari su entrambe le sponde del Volturno: una vera cittadina con refettorio, officine, altri edifici di servizio e ben otto chiese. Nell’881 la struttura venne distrutta dai Saraceni e nell’incendio morirono 700 monaci, come racconta il codice miniato Chronicon Vulturnense (oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana). La chiesa e il monastero sono stati ampiamente ricostruiti dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e il convento è oggi abitato da monache di clausura provenienti dagli Stati Uniti. Sono assai interessanti gli antichi resti del complesso di San Vincenzo Minore, con la Cripta di Epifanio (aperta su prenotazione) ornata da bellissimi affreschi. Di fronte all’abbazia si può sostare ma non pernottare, motivo in più per scegliere le due ruote o le gambe lasciando il veicolo in prossimità delle sorgenti.

Note di tradizione
Il fiume si ingrossa quasi subito, ricevendo il Rio dell’Omero, e bagna Cerro al Volturno, il cui nome deriva naturalmente dalla quercia più comune nella zona, il cerro. La parte vecchia dell’abitato è scenograficamente disposta a semicerchio intorno al castello, visibile a grande distanza per l’impressionante mole quadrangolare con tre alte torri che ne difendono i lati più esposti, mentre è una ripida scarpata a proteggere il versante orientale. Risalente all’anno 989, come documenta un atto di cessione dei terreni sottoscritto dall’abate di San Vincenzo, si può però ammirare solo dall’esterno, a meno di non sedersi ai tavoli del ristorante annesso o di alloggiare nel bed&breakfast ricavato all’interno del maestoso edificio. Di poco posteriore al castello è l’adiacente chiesa di Santa Maria Assunta, con campanile a vela e due cippi funerari romani praticamente intatti, mentre nella parte bassa del paese si trova la chiesa di San Pietro Apostolo, del XIV secolo, con torre campanaria angolare e un altare in marmo policromo.
Da Cerro il fiume scende a lambire Colli a Volturno, ricevendo molti altri piccoli tributari che ne accrescono sensibilmente la portata. Noi invece, ripreso il veicolo, ci dirigiamo verso Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta che si aggrappa al massiccio montuoso delle Mainarde, frontiera del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Il paese ospitò il pittore e naturalista francese Charles Moulin, un curioso personaggio che vi giunse nel 1911 perché uno zampognaro del posto da lui ritratto lo aveva ammaliato con i suoi racconti sulla bellezza dei luoghi. L’intenzione era di rimanere qualche giorno e invece vi restò per tutta la vita, a eccezione di brevi viaggi che compì in Francia e Stati Uniti per partecipare a esposizioni e ritirare premi. Moulin si costruì una casetta di pietra, dove viveva modestamente con la sola compagnia dei suoi dipinti e di una bambola di pezza di dimensioni umane, che presentava divertito come “la sua signora”, passando le giornate a dipingere e a preparare intrugli di erbe medicinali con le quali alleviare i disagi dei nuovi compaesani, che storpiando il suo nome lo chiamavano Mussié Mulà. Un tipo originale, insomma, che trovò in questo borghetto molisano la sua dimensione ideale. Adattissimo alla visita è il periodo del Carnevale quando, sul manto di neve che d’inverno ricopre queste alture nonostante le quote relativamente basse, va in scena il rito dell’uomo cervo, che risale addirittura ai Lupercali degli antichi Romani.
Il Molise è una regione attenta a conservare le tradizioni, e ci sono numerosi altri esempi di come le varie località riescano a valorizzare il proprio patrimonio culturale. E’ il caso del vicinissimo paese di Scapoli, che raggiungiamo percorrendo una strada immersa nei boschi con il massiccio delle Mainarde a fare da cortina. I musicisti di mezzo mondo e gli appassionati di musica popolare hanno eletto Scapoli a capitale della zampogna, strumento pastorale per eccellenza che nei ricordi di molti è ancora fortemente legato alle festività natalizie: negli ultimi anni, però, sta conoscendo una nuova notorietà grazie alla crescente diffusione del suo impiego in ambiti culturali più vasti (memorabile l’esibizione dello zampognaro molisano Piero Ricci alla Scala, nell’opera Nina del Paisiello, sotto la direzione di Riccardo Muti). E’ con queste premesse che ci rechiamo in Via Vico Santa Maria per visitare il Museo della Zampogna, nel quale sono in mostra esemplari provenienti dalle più diverse tradizioni ed epoche: una vera sorpresa per chi ha in mente solo le cornamuse scozzesi o le pive dell’Appennino Emiliano. Alle sale espositive, distribuite su tre piani, si aggiungono una cineteca, un’audioteca e la ricostruzione di una bottega artigiana, senza dimenticare che sono ben quattro in paese i maestri tuttora specializzati nella costruzione di zampogne. A pochi passi dal museo, è invece dedicato all’intarsio del legno il laboratorio di Giovanni Di Falco, che non si sottrae al compito di insegnare ai più giovani quest’altra forma di arte popolare e non solo.
Nonostante le trasformazioni architettoniche (un’antica chiesa è oggi un’abitazione privata e il palazzo marchesale dei Battiloro è stato frazionato), il centro storico ha conservato l’impianto originario: imboccando un passaggio coperto detto Scarupato, ci si porta sull’antico cammino di ronda che abbraccia il borgo vecchio dominando la chiesa di San Giorgio, di fronte alla quale troneggia un’impressionante quercia secolare.

Andar per castelli
Da Scapoli riprendiamo la strada panoramica che ci porta verso Colli a Volturno, dove ci immettiamo sulla statale 158; superate Montaquila e Roccaravindola, prendiamo la superstrada in direzione Isernia e attraversiamo il Volturno sul Ponte Venticinque Archi, dove il fiume segna il confine con la Campania. Questo importante snodo era servito da un ponte di età romana, il Latrone, il cui crollo obbligò a servirsi di una zattera a corda (la scafa) per passare da una sponda all’altra; quello che abbiamo appena percorso fu invece realizzato per volontà di Gioacchino Murat, che visitò la zona nel 1810 quando era re di Napoli, e ancora oggi è una delle più scenografiche opere architettoniche del genere, pur se ricostruito dopo i danni dell’ultima guerra.
A Monteroduni troviamo ad accoglierci una delle poche aree attrezzate della provincia di Isernia, in strategica posizione per la visita del circondario e a meno di un chilometro dal paese, che si raggiunge facilmente a piedi. L’abitato si addensa su un colle tappezzato da vigneti e oliveti intorno al magnifico castello di origine longobarda: chiedendo del vigile urbano ci si faranno aprire le porte di questa rocca giustamente considerata tra le più belle del Molise, anche grazie all’eccellente stato di conservazione. Se ne hanno notizie certe fin dal XII secolo quando Enrico VI di Hohenstaufen, figlio di Federico Barbarossa e sovrano del Sacro Romano Impero, contendeva il Regno di Sicilia al normanno Tancredi.
Non meno affascinante è la storia del castello di Venafro, la cittadina più grande di questo lembo del Molise, che abbiamo scelto come ultima tappa del nostro piccolo viaggio. La parte bassa si distende sui due lati di una provinciale piuttosto trafficata, che porta il nome di Via Colonia Julia in memoria dell’età romana, ma non lascia intuire le bellezze della parte più antica. Il monumento più rilevante è proprio l’antica residenza dei Pandone, feudatari di Venafro sin dal XV secolo, anche se le sue origini sono in realtà precedenti trattandosi di una rocca longobarda più tardi passata sotto il dominio normanno e quello svevo. Dell’edificio, attualmente interessato da lavori di restauro che presto consentiranno la riapertura di tutte le sale, si può intanto visitare il piano nobile; in via di ripristino anche il fossato difensivo, che nel ‘700 era stato interrato a causa di una frana. Di grande interesse gli affreschi che raffigurano cavalli privi di cavalieri: uno dei padroni di casa, quell’Enrico Pandone che alla fine del ‘400 divenne conte di Venafro e della non lontana Bojano, era un vero appassionato del mondo equino e fece immortalare sulle pareti decine e decine di inquilini delle sue stalle. Purtroppo i proprietari successivi non condividevano questo interesse e fecero ricoprire diversi affreschi, così che oggi è stato possibile riportare alla luce solo il disegno e non i colori.
Dall’alto delle mura merlate la vista spazia sui tetti dai quali emergono i campanili gemelli del Cristo e dell’Annunziata, due delle ben quattordici chiese distribuite nel tessuto urbano. Scendendo verso Piazza Vittorio Veneto troviamo invece la Torre del Mercato, che nel Medioevo era inserita nel sistema difensivo della città, e alle sue spalle un museo di reperti bellici della Seconda Guerra Mondiale, che in questa zona visse alcune delle sue fasi conclusive più drammatiche (come ricorda anche il cimitero militare francese che si trova uscendo dalla città in direzione di Isernia). In posizione defilata rispetto al borgo medioevale sorge il duomo di Santa Maria Assunta, nei pressi del quale è disponibile un ampio spazio per sostare con il camper. Se è attestato che il vescovo Costantino vi risiedeva alla fine del V secolo, le attuali strutture della cattedrale – assai rimaneggiate in seguito – datano all’XI secolo. Da qui parte inoltre un lungo sentiero che sale sulla montagna fra gli olivi: percorrendolo per intero si raggiunge il paese di Conca Casale, ma per apprezzare la suggestione del paesaggio bastano pochi passi fra gli splendidi alberi secolari, per la cui tutela è stato creato il Parco Regionale Storico Agricolo dell’Olivo di Venafro. Al momento l’iniziativa sembra più sulla carta che effettivamente avviata, ma si tratta di un ottimo strumento per dare corpo alla tutela di un territorio la cui spiccata vocazione agricola non ha ancora ceduto il passo all’economia di stampo industriale.
E siamo ormai in prossimità dell’incrocio tra i confini di Lazio, Molise e Campania: il Volturno, che scorre ormai a buona distanza, prosegue la sua discesa verso il mare, mentre noi torniamo a riprendere la statale che in pochi chilometri ci ricondurrà sull’Autostrada del Sole.

Testo e foto di Gabriele Salari

PleinAir 461 – dicembre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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