Principi, vescovi e minatori

Fra Bolzano e il Brennero, in poche decine di chilometri, l'alta valle dell'Isarco ospita alcune delle più affascinanti località dell'Alto Adige. Scendiamo dunque lungo il fiume per visitare animate cittadine storiche, antichi luoghi di culto e roccaforti costruite su arditi picchi rocciosi, in un solenne paesaggio di montagne da sempre meta di escursioni e nelle cui viscere si celano ancora le gallerie minerarie della piccola Val Ridanna.

Indice dell'itinerario

Nel 1534 Philippus Theophrastus Aureolus Bombastus von Hohenheim, meglio noto come Paracelso, soggiornò presso l’albergo Schwarzer Adler di Sterzing. Il celebre medico, filosofo e alchimista era stato chiamato per aiutare la popolazione a fronteggiare un’epidemia di peste, e infatti si presentò al consiglio comunale con un libretto in cui erano elencate le precauzioni per far fronte alla Morte Nera. Sembra quasi di vederlo mentre, avvolto in un largo mantello, passa sotto la quattrocentesca Torre delle Dodici, che ancora oggi mostra l’antico orologio e la meridiana sulla facciata: da sempre, a mezzogiorno in punto, la campana suona dodici rintocchi.
Si dovette aspettare l’annessione dell’Alto Adige all’Italia, nel 1919, perché la cittadina assumesse di nuovo il nome della mansio romana di Vipiteno. Fondata nel 15 a.C., non se ne hanno però altre notizie certe fino al 1180, quando viene citata in un documento come Stercengum. Lo sviluppo toccò il suo apice tra il XV e il XVI secolo: le case di quel periodo mostrano vivaci colori e i caratteristici Erker, finestre sporgenti che aumentano la luminosità delle stanze, e alla stessa epoca risale il Palazzo Comunale dove Paracelso consegnò alle autorità il suo vademecum. L’edificio conserva una bella Stube in stile gotico e un lampadario in legno della prima metà del ‘500, rara opera d’intarsio montata su due corna di stambecco, con lo stemma della città e la raffigurazione della matrona romana Lucrezia nell’atto di conficcarsi il pugnale nel cuore dopo essere stata costretta a cedere alle voglie del principe Sesto Tarquinio. La corte ospita invece la copia di una stele raffigurante Mitra, una divinità cara ai legionari dell’Urbe (l’originale si trova a Bolzano, presso il Museo Archeologico dell’Alto Adige).
Spostiamoci nella parrocchiale di Nostra Signora delle Paludi per ammirare le cinque statue lignee che facevano parte di un altare scolpito alla metà del ‘400 da Hans Multscher, a quel tempo uno degli artisti più famosi nei paesi germanici. A lui è intitolato anche un museo che espone altre sue opere, tra cui le pale raffiguranti scene della vita di Maria e della Passione di Cristo. Una breve passeggiata e si varca la soglia della chiesa di Santo Spirito dove gli inquietanti affreschi di Giovanni da Brunico, dei primi del ‘400, mostrano con vivezza di particolari le anime dannate tra le fiamme degli inferi, legate e circondate da diavoli che le spingono tra le fauci di un mostro dai denti acuminati.
Una leggenda locale narra che secoli addietro, quando Vipiteno era circondata da una malsana palude, orribili vecchie si dibattessero nella melma con lamenti inquietanti, spaventando coloro che si trovavano a passare in quei luoghi durante la notte. La tradizione vuole che in gioventù fossero state ragazze di grande avvenenza che, abbagliate dalla vanità, avevano rifiutato le proposte di ogni spasimante: ma quando la bellezza svanì furono esiliate nel pantano, dove si aggiravano ripetendo all’infinito «hätt’ i’s gwaggt, hätt’ i’s gwaggt!» (l’avessi fatto, l’avessi fatto!). E guai, come fanno i turisti, a scambiare quei lamenti per il gracidio delle rane…
Leggende a parte, la vallata è da tempo bonificata e nella bella stagione risplende di campi verdi, sorvegliati da due castelli che si fronteggiano a un tiro di balestra. Il primo, Castel Pietra, si raggiunge da Prati di Vizze ed è appartenuto a nobili famiglie del passato. Più volte restaurato, soprattutto dopo i bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, ha conservato intatto il fascino di una volta, specialmente quando lo si osserva dal basso, mentre si passeggia lungo le rive dell’Isarco. Quanto all’interno, bisogna accontentarsi di immaginarlo perché il maniero è di proprietà privata.
Ancora più intense le suggestioni che suscita il prospiciente Castel Tasso, arroccato fin dal XII secolo su uno sperone roccioso all’estremità opposta della valle, dietro un formidabile sistema difensivo di possenti mura e cammini di ronda che lo hanno reso inviolabile e hanno contribuito a mantenerlo in perfetto stato di conservazione. Entrati da un antico portale con le insegne dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico, sotto volte scandite da possenti travi lignee giungiamo alla Sala Verde, dove una porta intagliata in stile gotico si apre su una cappella in miniatura. Conclusa la visita, un sentierino porta in un paio di minuti alla chiesetta seicentesca di San Zeno (non visitabile) da cui si gode di una bella vista sul castello, chiudendo però un occhio sull’insediamento industriale che si profila durante la salita sulla collinetta.

A forza di braccia
Il secolo d’oro di Vipiteno fu anche quello in cui fiorì un’intensa attività mineraria: il più antico documento al riguardo fa riferimento all’Argentum Bonum de Sneberch ed è datato 1237, ma recenti studi dell’Università di Innsbruck riconducono l’attività estrattiva addirittura alla preistoria.
A Monteneve, nella vicina Val Ridanna, si lavorava tra i 2.000 e i 2.500 metri d’altitudine, e sulle rocce prive di vegetazione si rintracciavano facilmente i vari minerali: ma estrarli non era semplice, visto che a quei tempi si poteva contare solo su pochi attrezzi e sui muscoli degli uomini e dei muli, i quali trasportavano i sacchi carichi di pietre. L’attività proseguì fra alterne vicende anche nei secoli successivi, e le miniere sono state chiuse solo alla fine degli anni ’80 a causa dei costi troppo elevati, ma quel che resta di questo duro mondo e del suo prezioso patrimonio di archeologia industriale è oggi uno dei principali motivi di interesse del territorio. A Masseria, dove si trova il Museo Provinciale delle Miniere, una galleria didattica illustra l’evoluzione delle diverse tecniche estrattive a partire dal Medioevo, quando i minatori indossavano il batticulo (una lunga veste con una coda di cuoio per proteggere la schiena dall’umidità, poiché stavano quasi sempre seduti a martellare le rocce) e un cappello a punta imbottito di paglia. All’esterno sono ancora visibili gli impianti di arricchimento del minerale e un tratto del formidabile sistema di trasporto su rotaia costruito a cielo aperto nel 1871: un’opera di ben 27 chilometri che partiva dal fondo delle gallerie di Monteneve e percorreva la Val Ridanna arrivando alla stazione di Vipiteno. La visita prosegue con i macchinari, mostrandone il funzionamento in un terribile fracasso di ingranaggi, e non stupisce che parecchi operai diventassero sordi. Il percorso turistico dura circa un’ora e mezzo, ma chi vuole conoscere ancora meglio la realtà del mondo minerario d’alta montagna può affrontare i due tour più impegnativi (non adatti a chi soffre di claustrofobia o di allergia alle muffe): il più lungo dura addirittura 10 ore, nelle quali si cammina e si viaggia a bordo del vecchio trenino della miniera tra buie gallerie, pozzi e stretti cunicoli.
Presso il museo allestito nell’ex dormitorio dei minatori una sezione è dedicata a Maria Faßnauer, la gigantessa di Ridanna: alta 228 centimetri, nacque nel 1879 e morì nel 1917 a soli 38 anni. Quest’umile contadina, che portava il 58 di scarpe e mangiava ogni mattina diciotto uova per colazione, non ha nulla che vedere con le miniere, ma la sua vita sembra davvero un romanzo: nata e vissuta con i genitori in un maso della valle, per aiutare la famiglia a risollevarsi dalla miseria accettò l’ingaggio di alcuni imprenditori senza scrupoli che per sette anni la portarono in giro per l’Europa, mostrandola negli spettacoli come un fenomeno da baraccone.
Sulla via del ritorno ci dedichiamo alle altre mete della piccola valle, cominciando dalla solitaria chiesa di Santa Maddalena, che sorge isolata su una collinetta e fu ricostruita dai lavoranti di Monteneve nel 1480. Al suo interno si trova l’altare cinquecentesco a portello raffigurante la santa e due minatori, opera del maestro Matheis Stöberl (per la visita è necessario prendere accordi con il Museo Provinciale delle Miniere). Ancora una manciata di chilometri fino a Mareta ed ecco la sagoma del fiabesco Castel Wolfsthurn, unico esempio di maniero barocco dell’Alto Adige, con la facciata in un caldo color rosa nella quale si aprono ben 365 finestre. Al primo piano è ospitato un museo dedicato alla caccia e alla pesca, mentre in quello superiore si trovano gli ambienti signorili con gli arredi d’antiquariato. Ormai tornati in prossimità di Vipiteno, quasi all’imbocco della strada che sale verso Racines, parte un itinerario escursionistico che costeggia il rio Racines fino alle cascate di Stanghe. In meno di un’ora si percorre un sentiero attrezzato con ponti e passerelle, che segue il corso del torrente fino alla spettacolare gola dove l’acqua si getta fra le altissime pareti che ha scavato.

Lo spirito della valle
La statale 12 del Brennero scende lungo l’Isarco raggiungendo in una ventina di chilometri il centro di Fortezza, in tedesco Franzensfeste, che si distende intorno a un piccolo specchio d’acqua formato in questo punto dal fiume. Dall’alto di uno sperone affacciato sulla gola troneggiano le possenti mura di una cittadella fortificata voluta nel 1833 dall’imperatore austriaco Francesco I: ci vollero cinque anni di lavoro e 4.500 tra operai e scalpellini per completare l’edificio, uno dei più spettacolari dell’epoca, ma i suoi cannoni non spararono mai un colpo. Servì invece durante la Seconda Guerra Mondiale a nascondere il tesoro della Banca d’Italia trafugato dai nazisti, 127 tonnellate d’oro accatastate in un bunker tra le rocce (in parte ritrovate dopo la Liberazione, in parte sparite oltre confine).
Ancora una manciata di chilometri fino a Varna ed ecco la breve deviazione per uno dei monumenti più rimarchevoli dell’Alto Adige, l’abbazia di Novacella, eretta nel 1142 e più volte ricostruita. Superate le merlature che ornano la facciata dell’Engelsburg, la cappella di San Michele in cui trovavano accoglienza viandanti e pellegrini, un portale immette in un cortile interno: al centro è collocato il cosiddetto Pozzo delle Meraviglie, mentre sui lati si trovano la torre campanaria della chiesa dell’Assunta e l’antica biblioteca, che conta circa 76.000 volumi tra cui incunaboli, codici e manoscritti dall’XI al XVIII secolo. Per chi ama il buon vino, poi, da non perdere una visita all’enoteca dove acquistare le etichette invecchiate nelle storiche cantine dell’abbazia.

Affreschi rivelatori
Siamo ormai alle porte di Bressanone, la Brixen dei principi-vescovi che ne ressero le sorti fino al 1803, quando l’ultimo di loro perse il potere temporale. Di quelle lontane vicende resta il Palazzo Vescovile, edificato nel 1265 e ristrutturato in forme rinascimentali alla fine del ‘500: all’interno vi sono ospitati il Museo Diocesano, ricco di tesori d’arte religiosa, e una collezione di presepi dal ‘700 ai giorni nostri. All’ombra del duomo di Santa Maria Assunta e San Cassiano si possono trascorrere piacevolmente intere giornate passeggiando sotto i portici della storica Via Bastioni Maggiori, visitando il Museo della Farmacia o lasciandosi incuriosire dalle tre inquietanti teste lignee dell’Uomo Selvaggio, insegna quattrocentesca di una scomparsa locanda dove soggiornò anche Mozart. Sulla Torre Bianca, alta 72 metri, fino al 1902 abitò un guardiano che suonava la campana in caso di allarme: tra i suoi compiti c’era quello di controllare che fosse sempre accesa la fiamma nella lanterna funeraria al centro del grande cortile tra il duomo e la parrocchiale di San Michele, camposanto della città fino al 1792. E’ in quest’intimo luogo di silenzio che si trovano antiche lapidi funerarie, compresa quella del celebre poeta e cantore medioevale Oswald von Wolkenstein (vedi servizio successivo).
Un discorso a parte merita il ciclo di affreschi del ‘400 – uno dei più importanti dell’arco alpino – che ricopre interamente le volte del chiostro del duomo, e al quale è legata una singolare usanza. Sino a non molto tempo fa gli abitanti visitavano la chiesa anche come… stazione meteorologica: negli anni ’30 del secolo scorso, infatti, le pitture erano state ricoperte con uno strato di paraffina (poi rimosso) con l’intenzione di proteggerle, ma si ottenne il risultato contrario perché gli intonaci non respiravano più. Il malaccorto intervento le rese però una sorta di barometro, perché quando l’aria diventava umida e il tempo volgeva al peggio i colori degli affreschi cominciavano a offuscarsi, quando invece erano brillanti il bel tempo era garantito. In un angolo del chiostro, inoltre, nel 1460 venne raffigurato un animale esotico di colore bianco, con le orecchie piccole, la coda mozzata e una sorta di proboscide a tromba. Si tratta forse di un elefante, peraltro mai visto prima in città? Ad ogni modo, c’è chi interpreta quel dipinto come un segno premonitore: quasi un secolo dopo, il 20 dicembre 1550, sfilò per la città un gigantesco pachiderma diretto a Vienna, ingombrante dono di Giovanni III del Portogallo per Ferdinando I d’Asburgo, futuro monarca del Sacro Romano Impero. Per due settimane, davanti a un’incessante processione di curiosi, il bestione fu accudito nella stalla di una locanda, che da allora mutò il proprio nome in Albergo dell’Elefante.
Da Bressanone deviamo ora in salita fino a Velturno, in tedesco Feldthurns, dove un castello della fine del ‘500 era la residenza estiva dei principi-vescovi, con una sontuosa stanza dai rivestimenti lignei decorati e una bella stufa in maiolica raffigurante scene del Vecchio Testamento. Dopo uno sguardo al campanile pendente della chiesa all’uscita dell’abitato vale la pena fermarsi all’Archeoparc, complesso funerario dell’Età del Rame protetto da una moderna struttura.
Tornati sulla statale del Brennero, in pochi minuti si è a Chiusa, la tedesca Klausen, vegliata dalla sagoma del millenario monastero di Sabiona, la cui posizione arroccata ricorda una sorta di acropoli. Il più illustre visitatore della cittadina fu Albrecht Dürer, che arrivò in città nell’autunno del 1494 e vi rimase per qualche tempo, affascinato dalla bellezza dei luoghi: peccato che gli studi realizzati dal grande pittore e incisore siano andati quasi tutti perduti.
Ci si può consolare facendo un’ultima tappa a Barbiano, un villaggio di poche anime noto per le insolite Tre Chiese: dedicate ai santi Nicola, Geltrude e Maddalena, furono costruite tra il XII e il XV secolo addossate l’una all’altra. Si raggiungono parcheggiando il veicolo presso il campo sportivo e percorrendo attraverso un bosco il sentiero 11, che in una ventina di minuti conduce alla meta. Il complesso, circondato da un paesaggio di serena bellezza, ebbe tra i suoi frequentatori anche Sigmund Freud, che ne amava la tranquilla atmosfera. Trovando chiuso ci si può rivolgere al vicino Messnerhof, un piccolo albergo tra i campi: la signora Michaela sarà ben felice di mostrare le antiche sculture lignee e gli affreschi duecenteschi conservati nelle cappelle. Dopo la visita non resta che accomodarsi a tavola per assaggiare alcune delle specialità preparate dalla padrona di casa, come i canederli alle rape rosse, la frittatina dolce, la zuppa d’orzo o il krapfen tirolese: energie per riprendere il cammino fra le vette dell’Alto Adige. l

Testo e foto di Paolo Simoncelli

PleinAir 454 – maggio 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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