Piccolo mondo antico

Ottana, Mamoiada, Ovodda: nel magico paesaggio invernale della Sardegna, tre Carnevali dell'entroterra barbaricino per riscoprire un folklore vecchio di millenni, con travestimenti che mettono a nudo le profonde radici della cultura agropastorale mediterranea.

Indice dell'itinerario

E’ l’ora di pranzo dell’ultima domenica di Carnevale quando nelle case, nei garage, nelle cantine di Ottana ha inizio la vestizione delle maschere. Tra un pasto frettoloso, un sorso di vino e gli ultimi ritocchi a colpi di forbice o alla macchina da cucire, boes, merdules e gli altri personaggi del Carnevale ottanese si preparano all’uscita. L’intero paese della valle del Tirso, 2.700 abitanti, viene coinvolto in questo rito collettivo dalle radici millenarie, che si tramanda ancora oggi alle nuove generazioni perché il fascino misterioso delle arcane maschere barbaricine possa continuare a vivere. Franco Maritato, giovane artigiano locale, ne crea di splendide incidendo il legno con perizia, seduto su uno sgabello sotto i murales della sua casa-laboratorio in Piazza San Nicola: è qui che potrete acquistare una maschera il giorno stesso del corteo, a meno di non voler fare visita ad Angelo Denti, Ignazio Porcu o Mario Cossu che da anni realizzano esemplari di grandissimo pregio con abilità sopraffina e sperimentata pazienza, rappresentanti di una piccola schiera che comprende attualmente una ventina di artigiani.
Alle tre del pomeriggio le maschere, radunate alla periferia del paese, sono pronte a dar vita a una sfilata indimenticabile (che si è tenuta anche il 16 gennaio intorno ai fuochi accesi per la festa di Sant’Antonio Abate e si ripeterà due giorni dopo, il Martedì Grasso, per sancire la fine del Carnevale). Il corteo, tra due ali di folla, inizia a spostarsi verso il centro proponendo scenette legate alla tradizione agropastorale, così come il campionario dei volti lignei che ne celano le fattezze: sos porcos, i maiali dal caratteristico grugno allungato, sas baccas, le vacche, sos crappolos, i cervi dalle lunghe corna ramificate, sos molentes, i somari, e poi sa filonzana, un uomo travestito da vedova che fila la lana e, se qualcuno tra il pubblico non le garba, taglia il filo (simbolo della vita) come augurio di cattiva sorte al malcapitato.
Ma i veri protagonisti del corteo sono sos boes, i buoi, e sos merdules, nome quest’ultimo di origine incerta per indicare coloro che accompagnano gli animali. I boes, che sono muti, si distinguono per le corna, il simbolo della croce tracciato fra gli occhi e il vestito formato da bianche pelli di pecora con un’alta cinta di cuoio alla quale vengono fissati brunzos o sonazzas, ovvero campanacci e sonagli, il cui peso può raggiungere svariate decine di chili. Parlano invece con voce stridula i merdules, la cui maschera di colore nero è completata da un fazzoletto dello stesso colore sul capo (a volte sono travestiti da donna, pur essendo sempre gli uomini a mascherarsi); spesso portano sa taschedda, la tipica sacca in cui i pastori tenevano il cibo per la giornata. Le due figure rappresentano l’eterno conflitto tra l’animale e l’uomo, con quest’ultimo che tiene la bestia legata ed essa che ogni tanto si ribella al suo potere, buttandosi a terra o correndo fra la gente divertita.
Finalmente il corteo arriva in Piazza San Nicola dove le maschere continuano le loro pantomime per poi unirsi alla folla, intrecciando balli tipici ottanesi fino a sera, mentre il vino scorre a fiumi e tutti si scatenano nell’allegria carnevalesca. Fra un passo di danza e un brindisi, approfittatene per dare un’occhiata alla splendida chiesa di San Nicola (1140-1160): all’interno, oltre a un organo napoletano del ‘700, è conservato anche un prezioso polittico del 1344, di nuovo visibile dopo lunghi anni di restauro, attribuito a Mariano IV d’Arborea o, secondo altri, alla scuola toscana del Lorenzetti.

I due volti della storia
Nessuno può assistere alla vestizione dei mamuthones, inquietanti maschere della tradizione di Mamoiada la cui natura sembra quasi avvolta da un velo di sacralità. Ogni presenza estranea viene da sempre interpretata come contaminazione di un momento in cui il mamuthone è solo con sé stesso, e solo deve restare perché a nessun altro deve rendere conto. Con la sua indefinibile espressione scolpita nel legno scuro, sfila silenzioso al passo cadenzato degli usinzos, grossi scarponi di pelle, avvolto in un fazzoletto da donna di color marrone, il muncadore, mentre rimbomba il lugubre rintocco delle carrigas, i campanacci che porta indosso, e il pedde in vello di montone si gonfia all’aria gelida dell’inverno. Maschera bianca dalle fattezze raffinate, camicia candida e il rosso giubbetto chiamato curittu caratterizzano invece l’issohadore, che porta campanelli intorno alla spalla e una corda di giunco, sa soha, per prendere al lazo qualche malcapitato, intrecciando spesso con la sua preda un divertente scambio di battute.
La contrapposizione fra i due personaggi è evidente, ma il significato storico-antropologico delle maschere è tuttora poco chiaro. Secondo alcuni i mamuthones rappresenterebbero il popolo sardo ridotto in schiavitù, secondo altri i mori fatti prigionieri dagli stessi sardi rappresentati in questo caso dagli issohadores, mentre altri sostengono che le loro origini si perderebbero in una remota festa bizantina, la maiumada, o avrebbero uno scopo apotropaico legato al mondo agropastorale. Questa attribuzione, comunque stiano le cose, trova una possibile conferma nel fatto che anche qui a Mamoiada la prima uscita delle maschere avviene il 17 gennaio, inizio ideale dell’anno agricolo con decine di falò purificatori per propiziarsi salute e raccolti abbondanti.
Un’ottima introduzione all’evento è senz’altro la visita all’interessante Museo delle Maschere Mediterranee dove, oltre a quelle della tradizione locale, sono esposte alcune delle più interessanti maschere arcaiche d’Europa, da quelle alpine di Sappada a quelle dell’isola greca di Skiros, fino ai personaggi sloveni, croati e bulgari. Suggestivo anche il video in multivisione che ripropone, con l’effetto dei rumori ambientali, le atmosfere del corteo carnevalesco.
Nessun filmato, però, può eguagliare l’emozione della sfilata dal vivo, nel pomeriggio del Martedì Grasso, con i mamuthones che procedono saltellando e dando potenti spallate in aria per far meglio risuonare i campanacci, mentre gli issohadores aprono e chiudono la marcia segnando il ritmo con ordini perentori. A sera fatta, trascinato su un baldacchino, arriva a Piazza Santa Croce il fantoccio del moribondo Juvanne Martis Sero, Giovanni Martedì Sera, scortato da un manipolo di personaggi che lo piangono con gran chiasso: tutti cercano di rianimarlo, persino con trasfusioni di buon vinu nigheddu, ma non c’è nulla da fare e neppure un medico che accorre trafelato al suo capezzale riesce a salvarlo. Juvanne Martis Sero muore fra la disperazione di tutti, e con lui il Carnevale: ma l’epilogo è un’allegra scorpacciata a base di fave con lardo bollite in capienti pentoloni, offerte a tutti i presenti e seguite dal suono dell’organetto che accompagna i tradizionali balli locali, il passu torrau e il sartiu.

Un giorno senza regole
Giunti cosi all’alba della Quaresima, si potrebbe prendere la via del ritorno se non fosse che poco lontano da qui, a Ovodda, uno dei Carnevali più pazzi e trasgressivi d’Italia si celebra proprio il Mercoledì delle Ceneri, sa die de meuris de lessia. Difficile spiegare per filo e per segno cosa succede nel paese in questa giornata, certo è che i vecchi si fanno il segno della croce e i commercianti chiudono i negozi dietro robuste saracinesche. Conviene dunque lasciare il camper o l’auto parcheggiati a buona distanza dal centro, poiché il rischio di vederli danneggiati è tutt’altro che remoto, e farsi un bel tratto a piedi.
Una volta arrivati verrete subito sottoposti al rito di iniziazione dai gruppi degli intintos, che vagano per il paese annerendo il volto di chi si para loro davanti con una miscela di olio d’oliva e sughero bruciato: la fuliggine si attacca alla pelle con una tenacia inaspettata e bisognerà trascorrere un bel po’ di tempo davanti al lavabo, con una buona dose di sapone, per riuscire a mandarla via.
La festa ha inizio nel primo pomeriggio, più o meno intorno alle 15; le maschere, di ogni aspetto e materiale, arrivano alla spicciolata in sintonia con la regola principale che è la completa assenza di ogni regola, perché qui ognuno fa ciò che vuole. Si incendiano copertoni d’auto annerendo di fumi le strade, si tracanna vino a quattro palmenti, si agitano spauracchi d’ogni genere (abbiamo visto perfino corvi morti e insegne metalliche di stazioni di servizio) o si portano in giro muli infiocchettati, il tutto in una sfrenata baldoria collettiva che sembra evocare riti dionisiaci. A queste selvagge esibizioni partecipano, insieme alla folla dei paesani, più o meno duecento figuranti agghindati nelle fogge più strane, ed è difficile immaginare che altrove, quasi dappertutto, questa sia una giornata che si vuole dedicata al digiuno e alla penitenza.
Pur nel caos che regna sovrano, c’è però un filo conduttore della festa: il personaggio di Don Conte Forru, un mostruoso fantoccio con l’intelaiatura metallica imbottita di stracci, che raffigura un crudele feudatario il quale perseguitò per lungo tempo la popolazione. Ora viene messo alla berlina per le strade del paese su un carro traballante tirato da un mulo impaurito, e verso sera sarà dato alle fiamme e gettato dal ponte. Più tardi, calato di nuovo il silenzio, si torna a casa, le maschere finiscono nei bauli o vengono distrutte, ricomincia la vita di tutti i giorni: ma lo scatenato Mercoledì delle Ceneri di Ovodda ha voluto ricordare di nuovo che semel in anno, come dice il proverbio, licet insanire.

PleinAir 426 – gennaio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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