Piccoli mondi antichi

Nel breve spazio in cui si svolge questo itinerario, infrangendo le antiche frontiere di granducati, marchesati e altre signorie, convergono ora tre regioni: Umbria, Toscana e Lazio. Una natura rigogliosa e una singolare miscela di culture custodiscono i molti segni che la storia vi ha lasciato. Come in tutte le terre di confine. Per gustarne il meglio, niente si addice più di un viaggio pleinair, ad andatura lenta e senza vincoli di programma, girovagando tra le tante piccole cose che, ancora come sempre e qui come altrove, fanno più degna l'esistenza.

Indice dell'itinerario

Il nostro viaggio inizia all’apice del Lazio, ad Acquapendente, nel cui territorio ricade la bella Riserva Naturale di Monte Rufeno. La Cassia corre da tempo esterna alle mura, e il turista frettoloso difficilmente si rende conto del ruolo che il paese ebbe nei secoli in cui la strada si chiamava Francigena e di essa si servivano papi, pellegrini, viaggiatori d’ogni estrazione. Un punto significativo di quel percorso si trova tra la merlata torre Julia de Jacopo e la basilica del Santo Sepolcro, accanto al torrentello Quintaluna. La bizzarra denominazione del corso d’acqua farebbe secondo qualcuno riferimento al fatto che, risalendo da Roma, i pellegrini toccavano il ponte che segna l’ingresso in Acquapendente alla fine del quinto giorno.
Più concreti riferimenti all’itinerario dei pellegrini sono dati dalla basilica del Santo Sepolcro, dovuta alla devozione di quella grande fondatrice di abbazie e monasteri che fu nel decimo secolo Matilde di Canossa. All’epoca il paese era infatti pertinenza del marchesato di Toscana. L’insolita facciata settecentesca dai due bassi campanili è preceduta da un bel piazzale di parcheggio dove avremo tutta la calma per sostare. La parte più antica e interessante della chiesa è la cripta, che dette nome alla basilica con la sua precisa riproduzione del sepolcro di Cristo, a edificazione dei tanti che non potevano aspirare al viaggio a Gerusalemme. In chiesa si possono ammirare i famosi “pugnaloni” (grandi quadri a tema ottenuti incollando su tavola petali di fiori di ogni colore): vengono rinnovati ogni anno e fatti sfilare per le vie cittadine la terza domenica di maggio, in una grande festa che rammenta la liberazione del comune dalla tirannia del Barbarossa.
Nella basilica si officia solo di domenica mattina, negli altri giorni ci si rivolgerà per la visita alla vicina torre Julia de Jacopo, sede del locale ufficio informazioni e della cooperativa giovanile Elce, addetta al centro visite della Riserva Naturale di Monte Rumeno. Questa torre fu uno dei nodi della cinta muraria e prende nome da un episodio del 1550. Vedendo arrivare gli armati del conte di Pitigliano, il responsabile della porta, adiacente alla torre, fu preso da grande ansia: credendo di aver serrato i battenti, lasciò invece aperta la serratura e corse a dare l’allarme ai compaesani. Sarebbe finita in disastro se certa Julia de Jacopo, accortasi del pericolo, non fosse animosamente intervenuta riuscendo in extremis a sbarrare la porta.
Che viaggiate in camper o con altri mezzi, posteggiateli pure sul piazzale della basilica perché proprio qui sbuca l’antico tracciato urbano fino alla Porta Fiorentina. Ma tre chilometri prima, venendo da Viterbo, una sosta meno transitoria si raccomanda presso l’azienda agrituristica ll Buonumore, provvista anche di camper service, piscina e ristorante (tel. 0763/733508).
Nei secoli il passaggio di tanti viaggiatori dovette certo influire sullo sviluppo dei commerci di Acquapendente, dove delle antiche fiere resta più importante quella detta dei campanelli (in ceramica) che invade completamente l’abitato la domenica dopo Pasqua. Il carattere di importante nodo di transito è confermato dalla fondazione fin dal Quattrocento dell’ospedale, che mantiene l’antica collocazione e che era allora gestito da istituzioni senesi. Proprio di fronte, nel chiostro della chiesa di San Francesco, gotica di origine, abbiamo avuto occasione di incontrare frate Alberto, classe 1912, volto rubizzo e occhi vivaci dietro spesse lenti. Ci ha raccontato dell’opera di restauro compiuta personalmente su quattordici statue in legno del ‘700, all’epoca ricoperte da una micidiale crosta di stucchi. Undici anni di lavoro duro e paziente per riportare apostoli e altri santi all’originaria bellezza dell’intaglio nel castagno: un francescano, insomma, con la vocazione del certosino. Le statue si trovano nella chiesa, andate a vederle perché ne vale la pena.
A pochi passi da lì la Cassia d’una volta transita sotto Porta Fiorentina per proseguire lungo l’antico percorso campestre, verso il Paglia. Qui lasciamo la statale per dirigerci a Proceno. Il paese collinare è ancora nel Lazio e dispone al suo ingresso di uno spazio di sosta invitante per tranquillità e panorama. Poco a valle funziona d’estate una piscina comunale. Nella piazza prossima al parcheggio sorprende l’imponenza, sproporzionata al piccolo abitato, di Palazzo Sforza (portale, sembra, del Sangallo). L’edificio fu voluto nella metà del Cinquecento dal cardinale Ascanio Sforza, uomo di cultura, amico di artisti e letterati. Alla stessa famiglia va riferita la bella e compatta rocca, adibita dagli attuali proprietari ad un garbato riuso come struttura d’ospitalità.Lembi di Toscana
Nello spazio di qualche chilometro percorso tra colli di esuberante vegetazione, eccoci in Toscana diretti a Castell’Azzara, visibile da molto lontano a mezza costa del suo gruppo montuoso nettamente distaccato dal massiccio amiatino. Il cospicuo abitato, già colpito dallo spegnersi delle antiche attività minerarie, ha vedute amplissime a 180 gradi, da godere al meglio raggiungendone la parte alta e lasciando eventualmente il mezzo per continuare a piedi o in bici. Dopo qualche chilometro di rotabile e poco prima del piazzaletto e della fresca fonte di Radipopoli (proseguendo si raggiunge l’agriturismo Il Cornacchino, tel. 0564/951582: vedi articolo di Giorgio Ciancio su PleinAir n. 288/289), ad una torretta Enel si stacca sulla destra l’erta ma breve stradina di servizio che conduce a un gruppo di antenne. Di lassù si distinguono il cratere di Bolsena, il Tirreno, l’Argentario distante sessanta chilometri in linea d’aria e addirittura Talamone. Ma nel retrocedere, se si imbocca il viottolo incontrato al primo tornante dello stradello di servizio, la passeggiata si trasforma in escursione tra magnifici ambienti a bosco misto che si infiammano in autunno di differenti specie di aceri. Deviando all’area picnic e lasciando qui le bici, si può salire alla riserva naturale del Monte Penna. Ridiscesi, si può arrivare agevolmente via bosco all’asfalto della provinciale che riporta a Castell’Azzara per il versante opposto a quello dell’andata.
Il comprensorio di Castell’Azzara, prodigo di escursioni, merita tra l’altro la sosta anche per la visita della grotta carsica di Bacheca (il gruppo presieduto dal professor Papalini, che svolge anche didattica speleologica, risponde allo 0564/951032).
Il paese dispone di piscina, mentre un’area di parcheggio comoda e spaziosa si trova appena al bordo dell’abitato, direzione Cassia.
Ora, in un paesaggio che è già quello delle crete, è appunto verso la Cassia che ci portano nuovamente le nostre quattro ruote. Poco prima della statale, però, colpisce l’attenzione un decaduto vasto fabbricato al quale il recupero in corso va restituendo l’antica nobiltà. Il nome “la Sforzesca” ci porta nuovamente ai discendenti di Francesco Sforza, signore di Milano, che tra ‘400 e ‘500 possedevano questi territori. Il nostro si chiamava Alessandro ed era cardinale. La Villa Sforzesca (progetto attribuito ai Fontana) fu il disegno, se vogliamo il capriccio, di un uomo coerente con la moda dell’epoca per le fastose dimore di campagna in cui ricevere artisti e potenti personaggi. Il momento culminante dei suoi fasti fu quando papa Gregorio XIII vi venne ospite da Roma con gran seguito di dignitari. Per il pontefice il transito sul traballante ponticello con cui la Cassia superava il Paglia dovette essere un’esperienza da ricordare. In precedenza non si passava che con traghetti a pedaggio gestiti dagli Acquensi ed ogni anno qualche sfortunato viaggiatore annegava nelle piene del fiume. Papa Gregorio non tardò a disporre la costruzione di un vero ponte a sei arcate che fu terminato nel giro di un paio d’anni.
La Sforzesca, allora immersa tra macchia e bosco, esaudiva fra l’altro l’amore per la caccia dei suoi frequentatori. Ma i luoghi restavano infidi per il brigantaggio se un Mario Sforza, successore di Alessandro, nel comunicare al Granduca di Toscana di aver fatto consegna a Siena della testa di un bandito gli proponeva anche una regolare battuta di caccia: non a fagiani o starne ma appunto ai briganti che infestavano la zona. Decadenza e riuso agricolo, con la conversione a stalle e depositi, arrivarono per la villa molto più presto di quanto il suo fondatore avesse potuto immaginare.
Un rapido uscire-entrare-riuscire fra Toscana e Lazio ed eccoci prendere in direzione di Celle sul Rigo, strada che offre anche la possibilità di una breve deviazione (non segnalata) al lago artificiale di San Casciano. Celle sul Rigo vale la sosta per il suo centro urbano d’epoca, fatto di vie regolari che sfociano nell’antica spaziosa piazza turrita purtroppo adibita… a parcheggio. Di qui la strada corre per belle vedute fino a San Casciano dei Bagni, nostra prossima tappa.
Di fronte al castello neogotico di imitazione novecentesca, fate caso alla caserma dei carabinieri: nel secolo scorso era dogana granducale verso il Lazio. La camminata in paese introduce, al di là dell’ampio piazzale belvedere, ad un centro storico ben tenuto, fatto di stradette in pendio che si aprono ad amene vedute sulla campagna. La chiesa madre, dal portale gotico tutto scolpito in foglie d’edera, risale al Duecento. Proprio di fronte, forse non ci si pentirà di una visita alla piccola pasticceria Il Campanile.
Che San Casciano dei Bagni abbia sue terme lo racconta già il nome, e sono acque calde dal largo campo d’impiego, fruibili in uno stabilimento d’ascendenza medicea e in un’ampia piscina funzionante da maggio a novembre. Meno noto, forse, che tutt’intorno sgorgano le sorgenti termali più copiose d’Italia, qualcosa come 8 milioni di litri al giorno. Ma fuori stagione? Se vi attira una breve immersione, potreste parcheggiare alle soglie del paese e chiedere del viottolo per “i vasconi”. Da non trascurare anche una visita alla deliziosa pieve sorta sull’area di un tempietto pagano dedicato sembra alla dea della salute. Ci si arriva per il vialetto a cipressi che parte dal portico mediceo delle terme. Passeggiata ben più impegnativa (lo sterrato è rotabile ma ha pendenze fino al 15%) i cinque chilometri che conducono a Fighine, castello esistente già nel Mille, la porta, le antiche mura, un borgo semiabbandonato dai totali silenzi.
Ora il nostro percorso punta in direzione dell’Umbria per una strada che, sfiorando il vertice delle tre regioni, permette di penetrare fra le appartate casette di Trevignano (Lazio), dalle ampie vedute di borgo di crinale. Degni qui di citazione i sapori del casareccio bar-trattoria. Ma citazione d’altro genere merita quel Pietro Muzzi, malfattore del posto che in un pungente gennaio dell’Ottocento, sul patibolo eretto in Acquapendente, andando i preparativi per le lunghe sbottò nelle storiche parole: “E sbrigatevi che ci ho freddo!”.Selve d’Umbria
Ad Allerona, esiguo e silente abitato medioevale di collina, siamo in Umbria.
Se non temete gli sterrati, prendete appena a monte del paese la rotabile di fronte al cimitero, che s’interna nel bosco per giungere dopo tre chilometri ad una sella orlata da un prato ombreggiato dalle chiome di grandi pini domestici. Il posto è molto invitante per fermarsi con un camper ma chiedetene il permesso alla casa gialla del Corpo Forestale. Siamo infatti nella Selva di Meana, i vasti boschi costituenti né più né meno che il proseguimento della Riserva naturale di Monte Rufeno. Intanto, lasciato il mezzo alla sella (molto ventosa con cattivo tempo), ci attende oltre la sbarra una passeggiata di un chilometro. Il cancello principale è chiuso ma un cancelletto laterale sempre aperto dà accesso alla villa della Selva di Meana. Si attraversa un ampio parco che, pur coi suoi acciacchi, lascia ben capire la magnificenza di quanto il demanio dello Stato acquistò nel 1970 da privati proprietari. Gli alberi sono splendidi. Il semicerchio dei giardini ha il suo centro in una villa di inizio secolo di sobrio buon gusto, con una spianata belvedere dalla veduta unica: le ininterrotte fitte selve del Rufeno e di Meana che ricoprono a perdita d’occhio i fianchi della valle del Paglia, un mare di verde tra Umbria e Lazio, paradiso ambientale nel quale solo segno visibile dell’uomo restano le lontane merlature di un castello sull’opposto margine della vallata. Allerona è un piccolo e silenzioso paese murato (buone le possibilità di sosta) che ha dato il nome all’abitato moderno di fondovalle, Allerona Scalo, dove passiamo prima di risalire le colline in direzione di Castel Viscardo, dominato dal grande Palazzo Spada.
Ancora qualche chilometro ed eccoci nuovamente nel Lazio per dirigere su Torre Alfina. In pratica, volendo chiudere il cerchio ad Acquapendente, basterebbe proseguire per una decina di chilometri di gentili paesaggi campestri. Ma la deviazione a Torre Alfina è di quelle che meritano.

Torre di confine
Il nome di “Turris ad fines” non potrebbe essere più coerente con gli spazi di antichi confini tra i quali non abbiamo smesso di aggirarci per tutto l’itinerario. Svettava qui infatti a controllare vastissime estensioni un castello dei Monaldeschi della Cervara che, ormai cadente, cedette a fine Ottocento le proprie strategiche visuali ad una nuova grande costruzione merlata. Ben più antico del merlato castello odierno, il compatto borgo adiacente ha stradine e gradinate dagli scorci non banali, cui dà forte carattere la variabile colorazione di una pietra vulcanica lasciata di solito priva di intonaci. Inoltrandosi a caso nel labirinto delle viuzze, si arriverà in un modo o nell’altro alla panoramica spianata del castello (privato, interni di regola non visitabili). Quanto alla sosta, un ampio e libero parcheggio di recente costruzione nella parte bassa dell’abitato può ospitare anche un cospicuo gruppo di v.r. (nel vicino bar Sarchioni, un po’ il centro della vita del borgo, i gelati di produzione propria sono meritevoli del massimo dei voti).
La quiete e la piacevolezza del luogo dipendono tra l’altro dall’assenza di strade di transito, insomma dal fatto che Torre Alfina bisogna andare a cercarsela carte alla mano. Ma la deviazione ha altri motivi d’interesse e in primo luogo la passeggiata al bosco del Sasseto. Occorre prendere la strada (diventa presto bianca) che si dirama nei paraggi della chiesa e proseguire per forse un chilometro e mezzo fino ad una curva, con un casale abbandonato sulla sinistra. Il sentiero sul lato opposto conduce al magnifico bosco che fu in passato pertinenza del castello, folto di specie patriarcali, grandi roveri, lecci, incredibili agrifogli arborei, fra tronchi ormai morti rovinati al suolo.
In un’ampia radura sorprende il mausoleo neogotico che il castellano marchese Cahen volle costruirsi per l’eterno riposo. Qua e là, sorgendo da singolari roccioni facenti parte dei materiali eruttati nella preistoria dal sistema vulcanico di Bolsena, alberi di differenti specie compongono qualcosa di paragonabile a colossali ikebana.
La strada bianca per la camminata al Sasseto è praticabile alle auto, un po’ meno ai v.r. Chi tuttavia vi si inoltri a motore, lasciata a 3 chilometri e mezzo Torre Alfina, troverà in bella posizione su uno sperone l’isolata azienda agrituristica Monte Crocione, che insieme alla rustica cucina ha spazio per la sosta di cortesia di tre o quattro camper. Oltre, ma solo a piedi o in mountain bike, si entra in una sezione della Riserva Naturale di Monte Rufeno che il Paglia, in mancanza di ponti, separa integralmente dall’area principale conosciuta all’inizio del giro. In circa quattro chilometri si scende ad uno dei punti più suggestivi del solitario corso del fiume, dove si intravedono i resti del ponte che in altri tempi univa le due sponde.
Sempre da Torre Alfina, un’altra stradetta bianca di 2 chilometri e mezzo conduce, ancora entro la sua parte di riserva, all’ex fabbricato rurale ospitante un Museo del Fiore raccomandabile a ogni età. Biologia ed ecologia dei fiori e degli insetti, anche in rapporto alle attività dell’uomo, sono esposti con efficacia per mezzo di un erbario dedicato alle specie della riserva e di apparecchi multimediali. C’è anche un singolare marchingegno che è una specie di archivio odoroso: basta premere un pulsante per far scaturire il profumo del fiore desiderato (aperto sabato, festivi e prefestivi, ore 10-13 e 15-19, oppure per appuntamento telefonando allo 0763/711060).

PleinAir 307 – febbraio 1998

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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