Paradiso selvaggio

Un lungo e paziente lavoro di ripristino e di tutela ambientale ha trasformato il massiccio delle Torres del Paine nel parco più visitato del Cile. E i trekker arrivano da tutto il mondo per vivere lo spettacolo mozzafiato delle sue fantastiche cime.

Indice dell'itinerario

La doccia arriva all’improvviso dal lago. Una raffica più violenta delle altre alza un mulinello dalla superficie del Pehoé, lo trasporta a 80 chilometri all’ora verso la sponda, inzuppa da capo a piedi un gruppo di escursionisti affacciati sulla cascata del Salto Grande, poi va ad esaurire la sua carica di energia sui pascoli. In alto, nuvole nere e veloci giocano a nascondino con i ghiacci del Cerro Bariloche e le pareti di granito rossastro dei Cuernos del Paine, due delle vette più eleganti e più fotografate delle Ande.
Ma l’acqua del lago non arriva fino alla tenda, solidamente piantata sui prati fra il Pehoé e le Torres del Paine. Dopo l’escursione, si può scegliere se aprire la lampo e rimanere a guardare le nuvole o chiudere tutto, infilarsi nel sacco a pelo e lasciarsi cullare dai tenui scricchiolii della paleria, che fanno eco a quelli dei faggi piegati dalle folate a pochi metri di distanza.

Esploratori e alpinisti<F”GARAMOND” />
A un’ora di strada sterrata da qui, il vento che arriva dal Pacifico spinge verso la riva del lago Grey gli iceberg che si staccano dal ghiacciaio omonimo. Nelle valli più riparate il bosco di faggi australi, lenga per cileni e argentini, diventa fitto, intricato, favoloso. Sui pascoli che circondano i bacini si spostano e brucano tranquilli in piccoli branchi i guanachi, che rivelano nell’aspetto la parentela con i lama; tra di loro passano veloci gli ñandú o choique, buffi uccelli simili a dei piccoli struzzi. Dove il terreno è sabbioso si leggono le impronte del puma, in cielo compare il volo planato del condor. E’ un paradiso, ma un paradiso selvaggio.
Il più superbo raggruppamento di picchi e di vette che possegga la Cordigliera patagonica . Così, sessantatré anni fa, descriveva queste cime il salesiano Alberto Maria De Agostini. Nato a Pollone, alle porte di Biella, il religioso italiano trascorse gran parte della vita a Punta Arenas, la città più meridionale del Cile. Per anni si concentrò sui massicci del San Lorenzo e del Fitzroy, e nel 1943 le sue esplorazioni tra monti e ghiacci di quest’altra faccia del pianeta lo portarono al cospetto della formidabile fortezza merlata di pinnacoli, di corna mostruose del massiccio del Paine.
Quello spettacolo straordinario c’è ancora. In alto, incrostati dal gelo perenne, dominano il paesaggio il Paine Grande, l’unica vetta del massiccio a superare i 3.000 metri, e il Cerro Bariloche che gli si affianca da sud: i ghiacciai tormentati, i canaloni battuti dalle valanghe, le creste difese da gigantesche cornici li fanno somigliare, nonostante siano alti la metà, a certi giganti dell’Himalaya o delle Ande peruviane. Verso oriente si stagliano le sagome bizzarre dei Cuernos, poi i ghiacciai del Paine Chico (o Almirante Nieto), oltre il quale la pampa si distende verso il confine argentino.
Le guglie più belle, invece, sembrano giocare a rimpiattino. Ben visibili dalla strada che arriva da Puerto Natales, le tre Torres del Paine scompaiono dietro alle altre cime quando si raggiungono i laghi Sarmiento, Nordenskjöld e Pehoé, accanto ai quali si trova la maggioranza degli alberghi, dei campeggi e dei rifugi del parco nazionale cileno. Dall’Hostería Las Torres, dove la strada finisce, occorrono quattro ore di cammino nella selvaggia valle del Rio Ascensio per scoprire all’improvviso il trio delle cime, affacciate sul lago più solitario di tutti. L’ultimo ripida pietraia mozza il fiato, il vento soffia sempre con violenza: ma davvero poche vette al mondo riescono ad offrire un panorama così emozionante.
Grazie agli scritti di De Agostini, pubblicati sui bollettini del Touring Club, del Club Alpino Italiano e della Società Geografica Italiana e raccolti nel 1949 nel volume Ande Patagoniche, gli alpinisti del nostro paese sono tra i primi a esplorare e salire queste cime. Nel 1957 cinque guide valdostane, Jean Bich, Leonardo Carrel, Toni Gobbi, Camillo Pellissier e Pierino Pession, compiono la prima ascensione del Paine Grande. Patron dell’impresa è l’industriale Guido Monzino, allora proprietario della Standa e organizzatore di una ventina di spedizioni in tutto il mondo.
Sei anni più tardi, nel 1963, gli inglesi Chris Bonington e Don Whillans precedono una spedizione di trentini e lombardi sulla Torre Centrale del Paine, la più slanciata del terzetto. Whillans approfitta delle bufere patagoniche per mettere a punto la Whillans Box, una tenda a forma di parallelepipedo sorretta da grossi pali e con il tetto corazzato per proteggersi dalla caduta di pietre. Un’invenzione che, negli anni successivi, gli alpinisti britannici sfrutteranno sull’Everest, sull’Annapurna e su altri giganti dell’Asia. Qualche settimana dopo la vittoria dei due inglesi il quintetto formato da Armando Aste, Vasco Taldo, Josve Aiazzi, Carlo Casati e Nando Nusdeo si rifà salendo la Torre Sud, che viene dedicata a De Agostini. Poi sarà la volta di argentini, cileni, neozelandesi, americani; come sul Cerro Torre, però, gli italiani restano tra i padroni di casa, tracciando altri percorsi straordinari.
Fra i trekker, invece, le cose sono diverse. Sui sentieri del lago Grey, del Rio Ascensio, della valle del Francès che separa il Paine Grande dai Cuernos camminano escursionisti di tutto il mondo. Agli onnipresenti gringos, agli australiani, ai giapponesi e agli inglesi si affiancano cileni, argentini (le guerre sono finite ma i due popoli non si amano ancora), brasiliani attrezzati di tutto punto che danno del loro paese un’immagine molto diversa dal solito. Parte dei visitatori si limita a brevi passeggiate, al birdwatching, ad attraversare il Pehoé su un aliscafo che a noi ricorda ambienti e climi ben diversi. Solo i più allenati affrontano il giro del Paine, il trekking di una settimana che compie il periplo completo del massiccio, può diventare durissimo quando il tempo si mette al brutto fisso e costringe a portare pesantissimi zaini data la mancanza di rifornimenti e punti di appoggio. Altri risalgono le tre valli che offrono, tra andata e ritorno, energiche sgambate di una ventina di chilometri ognuna: uno splendido percorso noto come “la W”.

Ritorno alle origini<F”GARAMOND” />
Molti visitatori, più che dalla fama delle Torres, sono attratti dalle pagine di Bruce Chatwin che ha dedicato al milodonte, un gigantesco bradipo preistorico scoperto tra Puerto Natales e il Paine, alcune celebri pagine del suo In Patagonia. Per non dire di Charles Darwin, il più celebre naturalista di tutti i tempi, che non vide mai queste cime ma nel 1832 descrisse il guanaco come un animale elegante, con un lungo collo affusolato e delle belle zampe .
Scoperta dall’uomo bianco nell’800 e colonizzata nella prima metà del secolo da gallesi e croati (gli scandinavi si sono fermati prima del confine, in Argentina), la pampa ai piedi delle Torres appartiene oggi allo Stato cileno. Nato nel 1959 su un fazzoletto di terra di appena una ventina di ettari, il Parque Nacional Torres del Paine è cresciuto fino a raggiungere i 242.000 ettari, ed è oggi il più apprezzato e il più visitato del Cile. Non è stato facile riportare allo stato primigenio una terra che era stata danneggiata dal pascolo incontrollato e dai disboscamenti operati dagli allevatori, ma la CONAF, Comisión Nacional de Recursos Naturales Renovables che gestisce le aree protette del Cile, è riuscita nel miracolo. Guardaparco taciturni e cortesi indicano ai visitatori i sentieri, tengono d’occhio chi si accampa, invitano alla prudenza in un ambiente sconfinato e che il maltempo può rendere ostile in pochi minuti. Già prima di entrare nel parco e già dalla strada si iniziano ad avvistare ñandú e guanachi. I condor, sempre in volo in cerca di carogne, planano anche fuori dall’area protetta dove abbondano pecore e vacche, e tutt’altro che rara è la comparsa di rapaci, oche selvatiche, volpi grigie e degli eleganti fenicotteri cileni, dal piumaggio più chiaro di quelli dell’emisfero settentrionale, che sostano imperturbabili sui laghi anche quando il vento soffia con eccezionale violenza.
«La gente chiede sempre del puma e dello huemúl, il piccolo cervo a rischio di estinzione che è tra i simboli dei parchi del Cile» spiega Andrew Hall, argentino di origini australiane che mi accompagna alla scoperta dei sentieri del Paine. «I puma si muovono quasi sempre di notte, ma se hanno fame cacciano in qualunque momento. Accanto al lago Sarmiento ne ho visti quattro in pieno giorno. Gli huemúl sono pochi, si nascondono nel bosco, non conosco nessuno che li abbia incontrati».
E’ proprio nei boschi, però, che occorre spingersi per scoprire la vera magia del Paine. Qui le guglie di granito scompaiono o appaiono solo per qualche momento dalle radure, i sentieri zigzagano fra i tronchi caduti, il vento risparmia quasi sempre chi cammina ma fa scricchiolare e gemere i rami dei faggi australi che ad aprile si tingono dei colori violenti dell’autunno. Chi non è stato nelle foreste cilene non conosce questo pianeta : lo ha scritto un grande cileno, Pablo Neruda.

PleinAir 423 – ottobre 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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