Paese dalle ombre lunghe

Una nuova tappa nel giro del mondo di Cesare ed Elizabeth Pastore a bordo del loro motorhome: un sogno a lungo rimandato ma ora finalmente portato a compimento, raggiungendo le terre artiche del Canada. Un'esperienza di viaggio intensa e difficile, immersi una natura di ostica grandiosità e a confronto con un popolo profondamente cambiato da una controversa assimilazione.

Indice dell'itinerario

Sono trascorsi quasi due mesi da quando il nostro camper è approdato ad Halifax, sulla costa orientale del Canada. Abbiamo percorso oltre 12.000 chilometri attraverso la grandi pianure, giorni monotoni di guida senza grandi diversivi, sempre in direzione ovest. Raggiunta la metropoli di Calgary abbiamo puntato a nord dove la strada si snoda attraverso fitte foreste, costeggia grandi fiumi e impetuose cascate, supera alte montagne. Seguendo il corso sinuoso dello Yukon siamo giunti nella cittadina di Dawson, che alla fine dell’800 conobbe fama e ricchezza con la scoperta delle sabbie aurifere lungo le rive del Bonanza Creek, un affluente del Klondike. Decine di migliaia di cercatori si mossero allora da ogni angolo del mondo per dare inizio alla famosa corsa all’oro, anche se la loro epopea era destinata ad esaurirsi nel giro di un decennio o poco più.
Dawson è il nostro campo base per una deviazione che volevamo effettuare già dieci anni fa, quando venimmo per la prima volta con il camper in Alaska, ma a quell’epoca la stagione era già troppo avanzata: quello di raggiungere l’estremo nord del Canada rimase dunque un sogno, non realizzato ma mai dimenticato. Questa volta, invece, abbiamo imbarcato il nostro motorhome dalla Germania nel mese di maggio e abbiamo a disposizione tutto il tempo necessario essendo arrivati a Dawson nei primi giorni di luglio, quindi in perfetta combinazione per iniziare il nostro viaggio ai confini settentrionali del paese. La destinazione finale è Inuvik, un piccolo villaggio abitato da eschimesi alla foce del MacKenzie e a 90 chilometri dall’Oceano Artico: è l’end of the road, uno dei punti estremi che si possano toccare con un veicolo stradale a motore. Cercare di percorrere i 1.500 chilometri di pista e di sterrato con un camper di normale serie e non attrezzato per il fuoristrada è un vero azzardo, ce ne rendiamo conto, ma ci sentiamo fortemente motivati a tentare: in fondo il nostro Vagator ha affrontato le strade più impervie dei cinque continenti e ne è sempre venuto fuori dignitosamente.

Attraverso la tundra
Dopo il breve periodo estivo i due grandi fiumi, l’Artic Red River e l’imponente MacKenzie, che noi attraverseremo invece con un traghetto, a metà ottobre sono già ricoperti da uno strato di ghiaccio così spesso da sostenere anche il peso dei camion. Trascorriamo qualche giorno a Dawson per le ultime operazioni di manutenzione al camper e per fare scorte di alimentari sufficienti per un paio di settimane. Riempiamo anche la tanica di benzina perché lungo il tragitto l’unico punto di rifornimento si trova ad Eagle Plane, una primitiva stazione di servizio con annesso motel situata esattamente a metà percorso. Si incontra poi un solo centro abitato che si chiama Fort MacPherson, costituito da un paio di baracche abitate da indiani e un minuscolo cimitero.Da Dawson si devia sulla Dempster Highway, che non ha nulla a che vedere con le grandi autostrade americane. Fu costruita negli anni ’70, quando nell’Artico vennero scoperti grandi giacimenti di petrolio e di gas naturale, quindi ancora oggi è soprattutto una strada di servizio per i campi petroliferi. Ci basta percorrere qualche decina di chilometri per capire che le condizioni del fondo stradale sono peggiori di quanto avessimo immaginato: è piovuto molto nei giorni precedenti e le buche sulla carreggiata sono ricolme d’acqua al punto tale da rendere difficile capire quanto siano profonde, quindi siamo costretti a procedere quasi a passo d’uomo su una distesa di acqua e fango. Le giornate sono lunghissime e il sole resta sempre alto sull’orizzonte, ma nonostante le molte ore di luce a disposizione riusciamo a malapena a percorrere 200 chilometri in un giorno intero di guida; quanto al necessario riposo, le notti non sono mai sufficientemente buie ed è difficile prendere sonno anche schermando con cura le finestre.
In compenso la natura artica è in pieno rigoglio, il terreno sassoso è ricoperto di licheni argentei, bassi cespugli color porpora, distese di salmon berry, simili ai nostri mirtilli ma più grandi e di un brillante colore rosato. Ci fermiamo per la notte nel campeggio di un parco nazionale e andiamo con la ranger a raccogliere lamponi. Prima di partire si mette il revolver al fianco, infila una bomboletta spray nella cintura e calza alla caviglia un anello con delle campanelle: ci spiega che nella zona vivono molti orsi ed è necessaria la massima prudenza. Dopo un paio d’ore torniamo con un secchio pieno di squisiti lamponi, ma di orsi non ne abbiamo vista neppure l’ombra. Pensiamo che la nostra guida abbia esagerato per rendere un po’ più avventurosa l’uscita, ma dobbiamo ricrederci la mattina seguente quando una mamma orsa e i suoi tre piccoli ci attraversano la pista e si mettono tranquillamente a mangiare bacche ed erbe proprio accanto al camper. L’orsa non sembra preoccupata della nostra presenza, ogni tanto alza il testone verso di noi che ci spintoniamo al finestrino della cucina per fotografarla, annusa l’aria e così rassicurata riprende a mangiare con i suoi cuccioli. Sulla strada non mancano altri incontri ravvicinati con gli animali: lunghe colonne di caribù che attraversano la tundra nella loro migrazione estiva, volpi che si avvicinano al veicolo attratte dall’odore del cibo mentre siamo in sosta per mangiare, un alce solitario che pascola fra i giunchi di uno stagno e poi, nelle acque impetuose dei fiumi, centinaia e centinaia di salmoni che risalgono la corrente. Ci fermiamo a pescare e pur non essendo degli esperti in materia riusciamo a catturarne a dozzine, tanto che i filetti, dal sapore assolutamente unico, finiscono nella cella del freezer.
Continuando verso nord il paesaggio diventa sempre più brullo e inospitale: nella tundra artica, che occupa più di un quarto del territorio canadese, non cresce un albero o un cespuglio, e sull’atlante queste regioni sono contrassegnate da un fondo beige che sfuma nel bianco dei ghiacci, con spazi enormi e pochissimi circoletti ad indicare le località. Il traffico è praticamente inesistente, in una giornata incrociamo solo un paio di veicoli. Giungiamo al Circolo Polare segnato da un cartello piantato in uno spiazzo coperto di melma: il senso di isolamento è tangibile, e se pensiamo all’eventualità di un guasto meccanico ci prende il panico. Per questo guidiamo molto lentamente cercando di maltrattare il meno possibile il mezzo; alcune saldature del sottoscocca sono saltate, così come il sostegno del cofano e dei fari, ma ci possiamo accontentare di come stiamo procedendo.

Non più nomadi
E’ un pomeriggio ventoso quando arriviamo finalmente a Inuvik, un piccolo villaggio di case prefabbricate erette su palafitte saldamente piantate nel permafrost. Le costruzioni, in verità più simili a baracche, sono dipinte in colori sgargianti, giallo, rosso, arancione, quasi a compensare il grigiore del paesaggio oltre che a rendersi ben visibili. L’unica strada che taglia l’abitato è piena di buche e fango, ma lungo i marciapiedi di tavolato troviamo un emporio, l’ospedale, una stazione radio e il campeggio, tutte strutture realizzate dalle compagnie petrolifere; esiste anche un piccolo aeroporto dal quale si effettuano ogni giorno voli per Whitehorse, all’estremità sud-occidentale dei Northwest Territories.
Gli abitanti, poche centinaia di persone, sono in maggioranza inuit o nativi del nord, come vengono chiamati oggi gli eschimesi. Si tratta di un popolo nomade che nel corso degli ultimi decenni è divenuto stanziale dopo essere stato sottoposto a un’assimilazione forzata; la gente vive dei generosi sussidi dello Stato e ha ormai abbandonato i modelli culturali tradizionali, ma nello stesso tempo non ha accettato quello dei bianchi adattandosi a un’esistenza che non le appartiene, e i risultati sono la diffusione dell’alcolismo e l’emarginazione. La domenica andiamo a messa nella chiesa cattolica del villaggio, costruita a forma di igloo, e qui facciamo conoscenza con il parroco che al termine della funzione si intrattiene a scambiare due parole con i fedeli: scopriamo così che si tratta di un laico, sposato e con due figli. Ci spiega che qui la parrocchia, per mancanza di vocazioni non meno che per le enormi distanze, riesce a sopravvivere solo perché è amministrata dai laici: ogni paio d’anni arriva un sacerdote, benedice le ostie e se ne va. Il resto è lasciato alla comunità, che a noi peraltro è sembrata molto attiva e numerosa, anche se mantiene ancora vivi i culti ancestrali a fianco di quello cattolico.
Ci fermiamo a Inuvik per diversi giorni anche se non c’è molto da fare, ma ci trattiene il pensiero di dover affrontare nuovamente la Dempster Highway; l’unica attrattiva è passeggiare sulla via principale o lungo il fiume, cercando di ripararsi dalla furia del vento. Una sera entriamo nell’unico bar e lo troviamo pieno di uomini e donne ubriachi fradici. Lo stereotipo degli eschimesi impellicciati nel loro parka in mezzo ai ghiacci, che magari si baciano strofinando la punta del naso davanti all’igloo, non ha niente a che vedere con la realtà che abbiamo sotto gli occhi.
Ma la grande emergenza di Inuvik in questo momento sono gli orsi bianchi. Ne parlano i quotidiani locali, sono stati pubblicati lunghi reportage sulla stampa nazionale e l’argomento è motivo di conversazione non meno che di preoccupazione. Da quando la banchisa si è allontanata dalla costa gli orsi hanno perduto le loro comode piattaforme, dalle quali davano la caccia alle foche intrappolate fra i ghiacci, e hanno invaso la terraferma seguendo l’odore del cibo che li attira verso l’abitato. La radio trasmette notizie allarmanti, ad esempio che un orso è stato catturato vicino a Fort MacPherson, e ciò significa che ha risalito il fiume per 600 chilometri seguendo la migrazione dei salmoni; gli è stato messo un collare ed è stato riportato sulla banchisa, ma dopo un paio di settimane è ritornato nello stesso punto della cattura e questa volta è stato abbattuto. Una rivista ha pubblicato la foto di un esemplare ucciso nella tundra: la forma del cranio era quella tipica dell’orso bianco così come la taglia, mentre il mantello era color marrone chiaro, rivelando che si trattava dell’incrocio fra un orso polare e un grizzly. Questi casi, sempre più frequenti, rappresentano il segno evidente dei cambiamenti climatici in corso e del modo in cui gli animali si stanno adeguando.
Le giornate diventano rapidamente più fredde, soffia un secco vento gelido e presto potrebbe anche nevicare. I lunghi tramonti boreali si fanno più brevi ed è tempo ormai di riprendere la via del ritorno: ora ci attendono altri 12.000 chilometri di strada per raggiungere il sole della California, ma il sogno di raggiungere l’Artico a bordo del nostro Vagator, anche se con dieci anni di ritardo, si è finalmente avverato.

PleinAir 438 – gennaio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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