Pace tra le vigne

I celebri vini di Cormons, anche in edizione speciale per farne dono ai capi di stato e al Papa. Le preziose bottiglie della cantina di Livio Felluga, patriarca della viticoltura friulana. Il castello di Spessa, dove bevve e amò Giacomo Casanova. A zonzo nel Collio per scoprire le storie e i segreti dell'arte di fare il vino.

Indice dell'itinerario

«Chiudi gli occhi e dimmi cosa senti». Mando giù un piccolo sorso di vino bianco fresco e frizzantino dopo averlo girato in bocca per un po’, come mi hanno insegnato. «E’ salato, un leggero gusto di sale». «Bene, ora annusalo. Puoi fare di meglio». Faccio prendere aria alla bevanda, ruotando dolcemente il bicchiere. A dire la verità, il mio movimento non assomiglia per nulla a quello preciso e aristocratico che mi ha mostrato Elda, la giovane titolare della cantina Livio Felluga, effervescente figlia del creatore del marchio e primo piantatore dei vigneti. Lo stelo del calice dondola convulso, come se vivesse di vita propria, senza seguire gli ordini della mia mano, mentre la bocca del bicchiere non fa il bel cerchio rotondo che dovrebbe. Desisto e annuso. «Pensa ai sapori mediterranei, ai profumi del mare» mi consiglia Elda, che mi vede titubante. «Fieno – mi lancio – anzi no, l’odore dell’erba bagnata dopo la pioggia». «Ottimo. Prova ancora, non c’è mai un solo sapore. Il vino di prima era appena stappato, ora si è ossigenato e poi di nuovo riposato. Vedrai che sarà diverso». Assaggio di nuovo e, rassicurata dai successi, mi lascio un po’ andare con la fantasia. «Basilico, l’odore delle piante di pomodoro, forse timo e… cedro». «Bene! Cominci a entrare nel gioco! Niente più del vino fa sciogliere la lingua e niente come il vino vive di parole. Descrivere un gusto che per ognuno è diverso è come scrivere una poesia. Devi esprimere la sensazione, rendere l’emozione, non svelare una verità assoluta. Si può fare a gara ad avvertire i sentori più diversi e, se si è bravi, si riesce persino a convincere gli altri che la strana fragranza c’è davvero. Il bosso ad esempio, non lo senti il bosso?». Corrugo la fronte con aria interrogativa, bevo un altro sorso e mi guardo intorno per prendere tempo.
La sala di degustazione è un capolavoro di architettura postmoderna: semplice all’estremo, minimal chic si direbbe, lontanissimo dall’idea classica che ci si potrebbe fare di una delle più vecchie cantine friulane. Pavimento di rovere bianchissimo e non trattato, pareti di grafite nera, pochi ed essenziali mobili in ebano o palma, un bancone in travertino bianco e mensole in vetro satinato illuminate dal neon. Un ambiente ideale per concentrarsi solo sul vino, niente distrazioni, niente fronzoli, come in una gioielleria o in una mostra d’arte.
Elda mi richiama all’ordine della mia piccola lezione da sommelier. Con nonchalance, versando il vino nella sputacchiera e lavando il calice come si deve fare ogni volta che si usa un bicchiere nuovo, ripete la domanda: «Allora, lo senti il bosso?… La pipì di gatto?… Ogni buon Pinot deve avere questo leggero retrogusto che i profani scambiano per l’odore del felino in calore, ma che è il profumo di un arbusto mediterraneo inconfondibile». Cerco il sapore tra gli altri, tra le gocce, sulle labbra, nell’aria che respiro con il naso dentro il bicchiere: se qualcosa c’è, per me in effetti rimane più simile alla pipì di gatto. Ma il gusto d’insieme è sconvolgente. Una volta che lo hai scomposto in mille fragranze, ti riempie la bocca e conquista la mente che lo ha pensato e immaginato. E non si scorda facilmente. Lasciamo il fresco futurista della cantina di Livio Felluga e raggiungiamo le terre della Tenuta Russiz Superiore per un giro nelle vigne a “imparare il mestiere”, ma in realtà possiamo solo ammirare gli sforzi e l’arte sapiente del vignaiolo e del cantiniere. Non si diventa certo wine maker con una passeggiata tra le colline: solo anni di esperienza e passione insegnano come e quando potare i tralci, in che modo esporre i nuovi cloni (cioè le piantine create in vivai altamente tecnologici dalla varietà madre), se innaffiare i delicati innesti. E poi assaggiare il grappolo per decidere le vendemmia e predisporre la giusta combinazione di ogni vitigno per ottenere il miglior uvaggio, come il Collio appunto, bianco ricavato dal mescolamento di varie qualità di uva, diverso per ogni cantina che tiene segreta la sua composizione.
Con Marco Felluga, uno dei figli del fondatore dell’industria enologica, e Roberta, vulcanica accompagnatrice, seguiamo gli sterrati dei trattori e scopriamo che non tutti gli impianti sono esposti a sud: è lo sbalzo fra le temperature notturne e diurne, infatti, ad accrescere la quantità e la raffinatezza degli aromi del vino, e da ciò deriva che per alcuni tipi si scelgano esposizioni con notevoli differenze termiche. Scopriamo anche la funzione dei piccoli roseti che così spesso si vedono piantati all’inizio di ogni filare: la peronospora, terribile malattia della vite arrivata dopo la scoperta dell’America che portò quasi all’estinzione i vitigni europei autoctoni, attacca voracemente anche la rosa, ancora più sensibile e delicata dell’uva. Così, soprattutto un tempo, quando mancavano più sofisticati meccanismi di controllo, un fiore malato indicava l’inizio di un’epidemia e la necessità di effettuare un trattamento.
Salutiamo le vigne in collina per una visita al castello di Spessa, e non appena arriviamo al romantico maniero il nostro interesse per grappoli e bottiglie si affievolisce un po’. L’edificio è un incanto, una fortezza medioevale sfarzosamente restaurata nel XIX secolo, con i giardini all’italiana perfettamente curati, i vialetti di siepe, il laghetto in stile inglese con i cigni sullo sfondo, le terrazze in marmo bianco e travertino ornate di scalinate barocche. E poi qui fu ospite Giacomo Casanova in fuga da Venezia: ce lo ricorda un piccolo museo allestito proprio in una delle ali del palazzo, dove possiamo ammirare il lusso della vita quotidiana di una famiglia nobile del Settecento, evidente soprattutto nel corredo da pranzo. Tovaglie di seta, un numero sterminato di posate d’argento, bicchieri di cristallo dimostravano infatti potere e ricchezza in quei momenti di festa, incontro e intrigo politico che erano i ricevimenti.
Usciamo in giardino a passeggiare sotto le volte dei roseti, tra gazebi e capanni di caccia in cui immaginiamo il famoso amatore irretire giovani servette e leggiadre dame, e visitiamo la cappellina dove ancora oggi si celebrano matrimoni. Ma alla fine la suggestione della cantina ci riporta al nostro tema centrale: il vino. Nel castello la degustazione si svolge tra le secolari pareti della taverna originale, tra lunghi tavoli e poltrone in stile, con il lampadario in ferro battuto su cui è stata tessuta qualche ragnatela. Una scalinata di settanta gradini conduce direttamente alla zona d’invecchiamento, un bunker scavato negli anni ’30 sotto il palazzo e utilizzato in tempo di guerra come rifugio. Qui, sotto metri di terra, la temperatura di 14°C è sempre costante, un regalo impareggiabile per la barriqueria.
Con Erica, la guida del Movimento Turismo del Vino che ha organizzato il nostro piccolo tour (solo uno dei numerosissimi possibili), raggiungiamo la nostra ultima meta, la tenuta e azienda agrituristica Venica e Venica. «Il volto umano del vino» come ci spiega Ornella, uno dei titolari che ci accoglie. La scelta della cantina è rivolta a un’accoglienza familiare in totale relax: camere arredate con gusto e colazione abbondante sotto il portico, dove edera e lavanda profumano l’ombra fresca. Sono momenti ideali per imparare quanto influiscono i microclimi dei pendii e la composizione del terreno su ogni vitigno, con la spiegazione paziente di Ornella che ci insegna a dare a ogni vino il nome e il carattere del vignaiolo. E sul bordo della piscina, nel cestello del ghiaccio, ci aspetta per l’ultima degustazione una bottiglia di Ronco delle Mele.

PleinAir 387 – ottobre 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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