Natura new age

Sulle basse colline dell'entroterra di Oristano si riscoprono gare e divertimenti del passato. Ma anche il misterioso lascito di una civiltà neolitica che sembra aver conosciuto il segreto dell'armonia dell'uomo con i luoghi e con l'ambiente.

Indice dell'itinerario

«Maimone Maimone, abba cheret su laore, abba cheret su siccau, Maimone lau, lau». Lungo i vicoli acciottolati del piccolo borgo in pietra di Baràdili sembra davvero di sentir parlare un’altra lingua, di essere tornati in chissà quale passato. Vestiti con abiti tradizionali, un gruppo di bambini in allegra processione trasportano sulle spalle una portantina di giunchi ricoperta di pervinca viola, e intanto recitano in sardo la cantilena per l’invocazione dell’antica divinità della pioggia aspettando che le massaie escano dalle case a spruzzare scherzosamente il lettino con l’acqua, in un gioco-rito propiziatorio di origini antichissime per scongiurare la siccità.
E’ questo uno dei pochi momenti tranquilli dell’Olimpiade del Gioco Tradizionale della Sardegna, una manifestazione di recupero dei passatempi dei bimbi di ogni epoca promossa dal Consorzio Due Giare. Con questa iniziativa l’ente, attraverso la preziosa testimonianza degli anziani, ha voluto tutelare e valorizzare in oltre trenta comuni la memoria delle radici e della cultura locale, arrivando alla quarta edizione di quest’anno prevista a settembre in Marmilla, territorio di aspre colline tra il Monte Arci, l’altopiano della Giara di Gesturi e la Giara di Niu Crobu, con oltre quattrocentocinquanta giovani atleti chiamati a partecipare.
Per il resto della giornata la festa è tutto un vociare incalzante di applausi e incitazioni non solo dei più piccini ma soprattutto di adulti, genitori, insegnanti e abitanti del paese che urlano con tutto il fiato i loro consigli, il sostegno, l’emozione di rivivere i giochi e i passatempi che erano soliti allietare la loro infanzia nelle stradine e nelle piazzette di questi centri dell’entroterra sardo. Come durante la corsa della Cadiredda Santa, dove coppie di ragazzine già grandicelle si sfidano in velocità portando in braccio una bimba di pochi anni e rischiando sino all’ultimo di cadere rovinosamente con la piccola avvinghiata al collo. Oppure la gara di Luna Monta, la cavallina, con i giovanissimi concorrenti che diventano paonazzi nello sforzo di reggere il peso dei compagni più alti. O ancora, come il torneo di Cuadeddus de Canna, i cavallini di legno, organizzato a eliminazione.
E non si tratta solo di semplici giochi, come potrebbe sembrare: la corsa con il cerchio o il tiro con l’arco richiedono forza fisica, equilibrio, precisione, mira e costanza di allenamento. Lo dicono gli occhi brillanti del più piccolino del gruppo, che riesce a fare centro con la freccia tendendo un arco fin troppo grande per lui, come si dice facesse Robin Hood (certo non un personaggio di queste parti, ma le conoscenze inevitabilmente si aggiornano). Nel frattempo l’anziano del paese, con piglio da professore esperto, chiama a raccolta i ragazzini che tenacemente provano e riprovano in un angolo per una lezione di lancio della Badruffa, la trottola. Si tratta insomma di attività che stimolano le capacità dei bambini di divertirsi con poco e li aiutano a tenersi in movimento, ma soprattutto permettono di recuperare i vicoli e gli spazi dei borghi alla vita della comunità, che fanno risuonare di risate le antiche mura restaurate, mantenendo viva una lingua che non si può imparare solo nelle scuole. Le bimbe ritornano a correre scalze sul selciato, illuminate dalla gioia quasi primordiale di ruotare su sé stesse, oppure se ne stanno sedute in cerchio per il Biccus, una prova di abilità nella raccolta al volo di sassolini. E poi ci sono giochi di squadra con regole complicate e un’infinità di variabili, come il Su Giogu ‘e su Fusti, una sorta di baseball americano dove due ragazzi cercano di lanciarsi un corto bastoncello tra due buche; la coppia degli avversari difende la buca colpendo il fustigheddu con una lunga mazza e correndo tra le case , mentre gli altri cercano di recuperare il bastone.
Is Sturittus, i falchi, Is Mraxianis, le volpi, Is Caborus, i serpenti: le squadre arrivano da tutta l’isola e hanno i nomi simpatici o aggressivi della fauna locale. E se il paese di provenienza è davvero piccolo si chiama a raccolta tutta la famiglia, come per il gruppo di Assolo, cinque fratelli su dodici partecipanti. Con un certo orgoglio e con aria birichina da monelli di paese i bambini, tutti vestiti con camicie bianche e pantaloni di fustagno, si pavoneggiano per le vie del borgo con le mani sul cropettu, il gilet, sistemandosi il berrettu di lato a imitazione degli adulti. In fondo, ci dice con una simpatica aria saputella uno dei più piccolini, oggi è giorno di festa.La terra parla
Quando arriviamo sulla collina la luce calda del pomeriggio accende i colori della terra, delle rocce e del cielo con un rosso antico, un giallo solare, un verde carico di vita, mentre il soffio dolce del maestrale spande il profumo della campagna bagnata dalla pioggia.
Il menhir si erge isolato sul suo scoglio di pietra, potente e indisturbato da migliaia di anni, mentre la sua ombra disegna una lunga lancia sul basalto levigato dal tempo. Chiudiamo gli occhi e prendiamo un respiro profondo su invito di Salvatore Vacca, che potremmo definire la nostra guida spirituale in questo curioso itinerario ideato dal Consorzio Due Giare alla scoperta del magnetismo megalitico della Marmilla. Sollevate di nuovo le palpebre, qualcosa sembra essere cambiato e il luogo trasmette davvero un senso di magia: una mandria di vacche dal manto rossiccio riposa poco più in là per nulla infastidita dal nostro passaggio, l’aria è tersa come non la vedevamo da chissà quanto, il cielo sembra sorridere e lo sguardo si perde su un orizzonte di colline antiche e altipiani di pietra. Da queste parti il paesaggio non dev’essere molto mutato da quando l’uomo fece la sua comparsa, e non serve un grande sforzo a immaginare perché i popoli neolitici scelsero questo sito per mettere in comunicazione il mondo con l’universo. Ci si sente bene quassù, protetti, sereni, avvolti dall’armonia; e in pochi minuti, senza neppure il fiatone, scaliamo la vetta della montagnola.
Salvatore comincia a illustrarci la sua teoria. Non si tratta soltanto di contemplazione del creato che infonde pace ed equilibrio interiore: secondo i suoi studi, in queste campagne la natura è stata manipolata ad arte dagli antichi abitanti dell’isola per accordare la vibrazione frequenziale terrestre a quella dell’uomo. In realtà, più che spiegare Salvatore ci fa provare sulla pelle quelle sensazioni che lo fecero riflettere quando, gravemente malato, arrivò per la prima volta su queste colline: l’itinerario che ci propone, in un ambiente dove la suggestione è quasi una riscoperta della propria essenza, è tutto fatto di esperimenti, profumi e grandi sorsate d’acqua fresca. Bisogna imparare ad ascoltare il messaggio che la natura ci trasmette, cercare di vedere i simboli che quei nostri antenati sembrano aver lasciato per modulare le frequenze di ogni contesto. Ogni zona ha la sua forza dominante, il suo tema, il suo magnetismo principale: a Nureci è una farfalla scolpita nella pietra, segno del divenire, del nascere, crescere e morire rappresentato anche da una strana dea madre di circa un metro scavata a croce in un granito; a Villa Sant’Antonio è il sesso maschile e femminile con la sua forza creatrice e rigeneratrice, dal grande menhir fallico alle grotte-ventre materno delle domus de janas. Ma ci sono anche solchi profondi e precisi, lunghi anche più chilometri, che riproducono le costellazioni, simboli taurini modellati qua e là, lune, coppelle e piramidi di pietra.
Proseguendo nell’itinerario il nostro esperto accompagnatore ci chiarisce la sua complessa visione del mondo e della storia, parlandoci di una vigoria dell’uomo ottenuta grazie a una migliore conoscenza e a un intimo accordo con le piante, le pietre e le acque, ma anche di misteriosi collegamenti tra gli antichi popoli della terra, dai fenici agli egizi, dai nuragici ai maya sino agli unni, e senza escludere neppure l’esistenza di civiltà extraterrestri. Ma in fondo non importa se ci si crede oppure no, se ci si convince della misteriosa realtà che Salvatore propone: in verità un percorso simile, immersi nella natura più antica, in contemplazione della sua perfezione che si ripete da millenni, è l’occasione di fare un’esperienza nuova, di avvicinarsi a un mondo altrimenti diverso e inesplorato, di aprire la mente, la pelle, il corpo a sensazioni ed emozioni dimenticate. E se davvero alla fine si potrà dire di non aver avvertito niente di sconosciuto si sarà comunque esplorato un territorio incantevole, come sa esserlo questa Sardegna lontana dalla folla e dal chiasso del turismo che passa e va.

PleinAir 408/409 – luglio/agosto 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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