Nata due volte

Fondata nel XIII secolo, divenuta residenza reale nel 1596, rasa al suolo nella Seconda Guerra Mondiale, fedelmente ricostruita negli ultimi decenni sino a riportarla agli splendori di un tempo: in visita a Varsavia, ricca e vivace metropoli di oggi con tutto il bello di ieri.

Indice dell'itinerario

Al centro di Varsavia c’è un monumento impressionante: un carro ferroviario coperto di croci, che simboleggia la deportazione e la strage. E’ lì per ricordare un episodio della Seconda Guerra Mondiale che le guide turistiche spesso non riportano, venuto alla conoscenza del grande pubblico solo in questi ultimi anni per merito di un film diretto dal grande regista polacco Andrzej Wajda. I libri di storia ci raccontano che con il patto Molotov-Ribbentropp, un trattato di non aggressione fra l’Unione Sovietica e la Germania nazista stipulato a pochi giorni dall’inizio del conflitto, i due paesi si spartirono la Polonia. Il 1° settembre 1939 ci viene continuamente riproposto con due immagini emblematiche: i nazisti che rimuovono la sbarra di confine e la patetica carica suicida della cavalleria polacca contro i Panzer. Ma dall’altra parte, il 17 settembre, i sovietici compivano l’invasione dei territori orientali facendo migliaia di prigionieri tra militari e civili, specialmente laureati che, per la legge di coscrizione polacca, erano arruolati in qualità di ufficiali della riserva. Dal 3 aprile al 19 maggio 1940 circa 22.000 uomini (fra cui il padre dello stesso Wajda) vennero assassinati e molti di loro seppelliti nella foresta di Katyn, la località che ha dato il titolo al film. Quando vennero alla luce le fosse comuni Stalin negò ogni responsabilità, e fino al 1989 le stesse autorità polacche, in accordo con la propaganda sovietica, censurarono la verità a cui oggi è stata resa giustizia: non fu possibile erigere una sola lapide alla memoria dei caduti finché la Polonia fu uno stato satellite dell’Unione Sovietica.
Sembrerà curioso iniziare la visita della capitale polacca da queste tragiche memorie; ma la storia di Varsavia, praticamente rasa al suolo nel corso della guerra, si può ricostruire proprio attraverso quei monumenti che costituiscono un percorso obbligato per il turista desideroso non soltanto di divertirsi, ma anche di informarsi e capire. In proposito, per fare qualche altro esempio, non si possono ignorare il dramma del ghetto ebraico e la disperata insurrezione cittadina del 1944, su cui lo stesso Wajda aveva girato, cinquant’anni prima di Katyn, uno dei suoi capolavori, Kanal (uscito in Italia col titolo I dannati di Varsavia), che racconta l’inutile fuga dei rivoltosi attraverso le fogne: c’è chi si trova sbarrata l’uscita verso la Vistola da una grata mentre il livello dell’acqua cresce inesorabilmente perché i nazisti hanno allagato le condutture, c’è chi risale da un tombino ma trova ad attenderlo il nemico, e la drammatica scena è riprodotta in un’emblematica composizione scultorea in Ogród Krasinskich. Guardando la spianata di quello che fu il ghetto, e poi le foto esposte su una bacheca lì di fronte, l’irreale silenzio dei turisti giunti qui in gruppo suona come un doveroso e sincero raccoglimento, in cui le spiegazioni delle solerti guide suonano quasi di troppo. In Ulica Podwale, presso le ricostruite mura quattrocentesche, un’altra statua sconvolgente raffigura un bambino che ha in testa un elmetto troppo grande, a ricordare tutti i minori che furono coinvolti nell’insurrezione.
Terminato il rievocativo pellegrinaggio, si può passare con maggior cognizione di causa alla classica visita del centro. E’ l’occasione per ricordare che i tanti bei palazzi andati distrutti durante il conflitto furono ricostruiti, in mancanza di una documentazione fotografica delle antiche e nobili facciate, grazie alle vedute del pittore veneziano Bernardo Bellotto (1721-1780), soprannominato Canaletto nel suo soggiorno a Varsavia in quanto nipote e allievo del più famoso Giovanni Antonio Canal, con il quale viene spesso confuso (l’equivoco permane, e si ritrova anche sulle pagine di una prestigiosa guida nostrana…).
Comunque sia, il nucleo storico è ormai tornato agli antichi splendori e nell’affollamento domenicale vi si respira una grande distensione, sottolineata dalle note delle orchestrine che rallegrano i passanti e gli avventori seduti ai tavolini dei caffè. La splendida Stare Miasto, la città vecchia d’età medioevale fondata nel XIII secolo e dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, è risorta preservandone l’impianto originario attorno alle rovine del castello reale, riedificato a partire dal 1971. Qui inizia la cosiddetta Royal Route, il Percorso Reale, su cui si incontrano decine di edifici e monumenti di grande pregio. Il tratto più suggestivo è la Krakowskie Przedmiecie, della quale basti menzionare i palazzi Koniecpolski, Potocki, Czapski, Tyszkiewicz, Kasimir, Uruski e Staszic, oltre alle chiese della Santa Croce, di Sant’Anna, di San Giuseppe e dell’Assunzione di Maria. Al centro dell’antico quartiere si trova invece la splendida piazza del Rynek, simbolo della città, animata da locali e gallerie d’arte ma anche dalle carrozze a cavalli destinate ai giri turistici. L’elenco delle attrazioni e dei siti di interesse sarebbe ancora molto lungo (i quartieri del XIV secolo, la Varsavia di Chopin, le testimonianze del socialismo reale…) e non vogliamo tediare il lettore, invitandolo a ricorrere ad una buona guida: ma assolutamente da non perdere sono le passeggiate nei parchi, in particolare quello che circonda la residenza reale di Wilanów e soprattutto il Lazienki, che conserva eleganti costruzioni neoclassiche come il Palac na Wodzie, un ricchissimo giardino botanico e un teatro romaneggiante che ha la particolarità di avere la cavea e la scena separate dalle acque di un laghetto artificiale.
L’impressione finale è che Varsavia – come del resto molte altre città dell’Europa centrale e orientale – debba ringraziare la caduta del Muro per quel che è diventata negli ultimi anni: e il turista non può che ringraziare a propria volta, magari progettando la prossima visita.

Testo Luigi Alberto Pucci
foto dell’autore e di Ivana Ricci

PleinAir 447 – Ottobre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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