Miseria e nobiltà

Dal Cremlino al Mar di Barents, dalle metropoli storiche alle sconfinate foreste, in un viaggio autogestito con lo zaino in spalla: un invito alla scoperta della Russia più autentica, immergendosi nel fascino e nei contrasti della Grande Madre.

Indice dell'itinerario

Quando nel 1946 Winston Churchill pronunciò il celebre discorso della Cortina di Ferro, definì l’Unione Sovietica “un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma”. Gli anni sono trascorsi, i regimi sono caduti, ma della Russia resta tutto il mistero, una sorta di esotico dietro l’angolo, una terra oscura eppure vicina che esercita il fascino tipico delle cose sconosciute. E la curiosità è accresciuta dalle difficoltà linguistiche, dalle distanze enormi e da una legislazione che, almeno sulla carta, rende difficile muoversi in autonomia se non disponendo prima della partenza di tutte le prenotazioni per alloggi e trasporti, con costi inevitabilmente elevati.
Da queste considerazioni e dal desiderio di verificarle sul campo è nato un viaggio alla scoperta della Grande Madre, da Mosca a San Pietroburgo attraverso la Carelia e la penisola di Kola, avvalendosi della ricettività e delle infrastrutture locali per il soggiorno e gli spostamenti, con poca spesa e, soprattutto, penetrando nel profondo dell’anima russa.

A Mosca, a Mosca!
Così gridavano le tre sorelle di Cechov, eccitate dalla partenza per la capitale. E, a metà strada fra l’Europa e l’Asia, Mosca non tradisce le aspettative. Forse non è elegante come l’europea San Pietroburgo, ma è profondamente russa: una metropoli magica, dalle atmosfere oniriche, da ricercare all’ombra dei grigi palazzoni staliniani di indubbio e imponente fascino fra i quali svettano le Sette Sorelle, gli edifici multipiano simbolo della grandezza sovietica, voluti da Stalin per competere con i grattacieli statunitensi.
Mosca è una città fatta di particolari, di fatiscenti palazzi Art Déco, di giocatori di scacchi sulle panchine, di stazioni ferroviarie brulicanti di vita come un suk mediorientale, di vecchi monumenti comunisti, ammassati ora tutti insieme in un delizioso e sconosciuto giardino all’ombra di Gorky Park. Una città dove sono rimaste poche delle “mille e mille cupole” decantate da Bulgakov e fatte radere al suolo da Stalin per far posto alla moderna Mosca rivoluzionaria, ma dove la profonda religiosità russa si può ancora respirare proprio nei luoghi diventati il simbolo dell’ateismo militante: la Piazza Rossa e il Cremlino, la prima dominata dalla fiabesca e policroma cattedrale di San Basilio, il secondo vero e proprio centro del potere ecclesiastico con ben cinque chiese cinquecentesche sorte al riparo delle poderose mura.

Titoli di viaggio
Con una superficie di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, la Russia è il paese più grande del mondo; la sola parte europea, grosso modo un territorio che va dalla Turchia al Mar di Barents agli Urali, ne conta ben 4 milioni. Ma a dispetto della vastità le strade sono poche e malmesse ed è quindi naturale che il trasporto collettivo, soprattutto il treno, assuma un’importanza strategica anche per il turista. Mosca è anche la capitale ferroviaria, il ganglio in base al cui orario si muove tutto il sistema di trasporti su rotaia di un paese che di fusi orari ne conta ben dieci. Nove le grandi stazioni cittadine, di cui le tre più importanti concentrate nella stessa immensa Komsomolskaya Ploshchad: Leningradsky verso San Pietroburgo, l’Estonia e la Finlandia, Kazansky verso Samarcanda e le Repubbliche dell’Asia Centrale, Jaroslavsky per le destinazioni del nord e la partenza della Transiberiana.
La prima difficoltà del viaggio autonomo in treno è l’acquisto del biglietto, e se non si legge il russo (consigliabile averne un’infarinatura con l’aiuto di un buon manualetto di conversazione) è già un problema capire quale sia lo sportello giusto. Per tacere della burocrazia micidiale che si esterna in moduli, firme e controfirme per qualsiasi incombenza e nella richiesta di esibire il passaporto nelle situazioni più disparate, fosse anche lasciare i bagagli nel guardaroba della stazione. Un discorso a parte meritano le file, che in Russia sono un’opinione: ognuno ha la sua, chi passa avanti a destra, chi a sinistra, chi sta perdendo il treno, chi esibisce una fantomatica tessera che lo autorizzerebbe ad essere servito prima degli altri. Insomma, anche se siete finalmente arrivati davanti al vetro che vi separa dall’impiegato, può passare parecchio tempo prima di riuscire a chiedere il biglietto, e lì la questione si complica davvero. Ma con un po’ di ingegno, pazienza e soprattutto carta e penna per scrivere il nome della località che si intende raggiungere, si supera ogni ostacolo linguistico e, biglietto alla mano, si è pronti a partire.

Direzione nord
Il treno sferraglia sul groviglio di rotaie che avvolge la capitale, mentre una pioggia leggera impregna l’aria di malinconia. Se a Mosca si ha la netta impressione di una nazione ricca e ostentatamente consumistica, basta allontanarsene anche di poco per piombare in un paese povero e dai contrasti stridenti. Palazzoni decrepiti avviluppano la periferia, le strade appaiono vecchie e malmesse, le automobili sono perlopiù carretti arrugginiti fra cui rombano prepotenti auto di lusso. Ma non potrebbe non essere contraddittorio un paese che, come canta anche l’inno nazionale, si estende dall’Artico ai Mari del Sud, dall’Europa all’Asia, in un crogiolo di razze e di culture dove si incontrano la ricchezza più smodata e la miseria più nera.
Nel comfort ovattato del nostro scompartimento ammiriamo per ore scorrere via la tundra, densa di betulle, con rari villaggi fatiscenti in legno che paiono galleggiare nelle pianure intrise d’acqua. Nonostante l’ora tarda, fuori è pieno giorno; l’altoparlante del treno trasmette un improbabile pop russo e noi siamo lanciati verso il nord, in un paesaggio dove sono sempre più evidenti i segni del disagio e della povertà. Sparuti fazzoletti di terra circondano piccole baracche e alle stazioni le babushka, le nonne russe, assaltano il treno per cercare di ricavare qualche rublo dalla vendita di cipolle, carote, cetrioli, miele, bacche, aglio e anche fiori, il prodotto più genuino dello spirito di questo popolo.
Dopo ventuno ore di viaggio, in una piovosa mattina di agosto, siamo finalmente ad Arhangelsk, ovvero Arcangelo. Fondata da Ivan il Terribile nel 1571 e adagiata su un’ansa della Dvina, era una città affascinante che fu letteralmente distrutta negli anni del regime e ricostruita con orribili casermoni, ormai scrostati e con le armature arrugginite. Le strade sono ampie, percorse da rare automobili marcate Lada, Volga ma anche Audi e Volkswagen, e soprattutto da ammaccati e veloci filobus, relitto delle dismissioni di altri paesi, che con le loro linee arrotondate anni ’60 si aggirano con efficienza tra le numerose buche dell’asfalto, incuranti del rischio. Eppure l’atmosfera è gradevole, con il lungofiume popolato da venditori di birra e spiedini alla brace e gruppi di giovani che passeggiano sotto un sole ormai artico.
Sono sufficienti poche fermate di autobus per piombare letteralmente nella vecchia Russia di Malye Korely, un villaggio-museo dove è piacevole perdersi tra i vecchi edifici rurali e le chiese dalle cupole a cipolla, immersi in una foresta di betulle dall’evidente aspetto nordico.

Arcipelago gulag
Il lavoro è una questione d’onore, di gloria, di valore e di eroismo: queste parole campeggiavano beffarde all’ingresso dei gulag sovietici, richiamando con inquietante somiglianza l'”Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) dei lager nazisti. Il primo e più duro di tali campi di soggiorno forzato fu allestito nelle remote isole Solovetsky, in quell’Arcipelago Gulag mirabilmente descritto da Solzenicyn.
A poco meno di un’ora di volo da Arcangelo, questi 300 chilometri quadrati di terra circondati dal gelo del Mar Bianco appena al di sotto del Circolo Polare Artico sono di rara e struggente bellezza. Un lembo di Russia perso nel tempo, dove le strade sono tutte sterrate, il mezzo di trasporto tipico è il sidecar e l’unico villaggio, di cinquecento abitanti, è dominato da un imponente Cremlino in pietra del XVI secolo: vecchie dimore, orti, mistiche chiese, i pope nei neri caffettani. E tutto in continua e perenne ristrutturazione da parte di una miriade di volontari, soprattutto donne, con i fazzoletti a coprire i capelli, in un commovente ritratto della vecchia Russia.
E’ sufficiente una bici per esplorare le isole costeggiando laghetti e ruscelli cristallini immersi in foreste di betulle e conifere aperte su placide insenature, in un ambiente selvaggio e sereno al tempo stesso. Al termine della pedalata, verso nord, sorge Sekirnaya Gora, la montagna tagliente, sulla cui cima la piccola chiesa dell’Ascensione veniva usata per l’isolamento dei prigionieri, mentre da una ripida e interminabile scalinata venivano precipitati, dopo essere stati legati a una trave, i condannati a una morte sofferta. Sono trascorsi solo pochi decenni, eppure questi sembrano avvenimenti di altre epoche, dimenticati da un Occidente che considera l’emblema della falce e martello come un’elegante reliquia politica e sepolti dalla Russia postcomunista, che non ha voglia di ricordare, nemmeno con un museo, questo oscuro passato prossimo. Tant’è, solo una vecchia e marcita croce di legno è posta a memoria di tanta sofferenza.

La porta dell’Artico
Nel nostro scompartimento nello spalnyy vagon (la prima classe russa) sorseggiamo il tè fumante nei bicchieroni di argentone decorato, mentre una tenue musica locale risuona in sottofondo. Fuori scivola lenta la penisola di Kola, sotto un basso cielo di nubi; candide betulle, epilobi porporini, lanosi eriofori punteggiano questo paesaggio di laghi che sale, parallelo alla vicina Finlandia, oltre il Circolo Polare Artico.
E’ ancora una grigia giornata di pioggia quando, dopo undici ore e mezzo di treno, arriviamo a Murmansk, a metà strada fra Mosca e il Polo Nord: con i suoi 380.000 abitanti, è la più grande città del mondo a nord del sessantaseiesimo parallelo. L’abitato appare subito piacevole ancorché non bello, con edifici lindi e ordinati, negozi e locali pubblici, con una sensazione di maggior serenità nella gente. Ovunque le divise dei marinai, perché questa è una delle principali basi della Marina russa insieme alla vicina città di Severomorsk, chiusa agli stranieri. A dominare il tutto Alyosha, il mastodontico monumento in cemento dedicato alla grande guerra patriottica (così in Russia si chiama la Seconda Guerra Mondiale), mentre a ricordare la natura artica di questa città nel porto troneggia il Rossja, uno dei quattro enormi rompighiaccio nucleari della flotta russa.

Il paese dalle mille cupole
I russi sono un popolo dalla religiosità istintiva, permeata di misticismo, a volte superstiziosa, che neanche 73 anni di ateismo di stato sono riusciti a sradicare. Si narra che nel 1941, quando i tedeschi giunsero alle porte di Mosca, lo stesso Stalin fece celebrare in gran segreto una messa. Un viaggio in Russia, soprattutto quella europea, è dunque un viaggio anche in questo senso del divino. Già a Mosca basta entrare nel Cremlino, palazzo del potere da sempre ma anche fulcro della Chiesa ortodossa, e ammirare le sue cattedrali rivestite di antiche icone; oppure immergersi nella spirituale semioscurità di una chiesetta di campagna, fra gli odori dell’incenso e le voci salmodianti di pope e fedeli, o ancora fermarsi ad ammirare i quieti paesaggi rallegrati dalle numerose cupole, che trovano nella sontuosità di San Basilio solo uno dei tanti esempi.
Non può quindi mancare una visita all’isola di Kizhi, nel Lago Onega, un altro luogo fuori dal tempo dove si eleva la stupefacente chiesa della Trasfigurazione oggi tutelata dall’Unesco: una fiabesca costruzione del 1714, interamente in legno, con una corona di ben ventidue cupole. Raggiungibile con un’ora di aliscafo da Petrozavodsk, offre momenti piacevoli fra vecchie case in legno, campi di grano e altri antichi edifici di culto, come la chiesa dell’Intercessione e quella della Resurrezione di Lazzaro, che risale al ‘300 ed è il più antico edificio ligneo tuttora esistente in Russia.

Aria d’Europa
Il treno sferraglia lento nella notte mentre ci riporta verso sud. Petrozavodsk, capoluogo della Carelia, è una città assai gradevole dove la vicinanza con la Finlandia, che dista appena 300 chilometri, si evince dai tratti somatici della popolazione e dai cartelli bilingui (che però non aiutano di molto la comprensione). Non per nulla i finlandesi hanno eletto la Carelia a proprio territorio di caccia turistico, per la bellezza dei paesaggi e l’irrisorietà dei prezzi, ed è tutt’altro che raro incontrare da queste parti camper con targa finnica.
Da non mancare Vyborg, a lungo contesa fra russi e scandinavi: una splendida e antica cittadina (purtroppo in pessimo stato di conservazione) ad appena 30 chilometri dal confine, con un imponente castello medioevale costruito su una roccia nella baia e un centro storico ornato da vetusti palazzi affacciati su vie acciottolate.
E finalmente eccoci a San Pietroburgo, la perla del Baltico, fondata nel 1703 da Pietro il Grande e sorta sui territori appena strappati agli svedesi, là dove c’era solo palude. Per questo la Venezia del Nord, attraversata dal corso sinuoso della Neva, ha ben 539 ponti che collegano le 101 isole su cui è costruita. Città splendida, è vero, integralmente realizzata da architetti italiani e che è riuscita a evitare gli scempi dello stalinismo, ma forse per questo appare molto, persino troppo europea, con la Grande Madre Russia ormai alle spalle. Qui siamo ormai turisti, non più viaggiatori: il sontuoso Palazzo d’Inverno, lo sconfinato museo dell’Ermitage, la terribile fortezza di Pietro e Paolo (dove furono imprigionati Dostoevskij, Gorkij, Trockij e Alexander Lenin, fratello maggiore del più noto Vladimir). Ma anche il delizioso Bankovsky Most, con i suoi grifoni dorati a difesa del palazzo della Banca Nazionale, e il Gostiny Dvor, l’antico Cortile dei Mercanti trasformato in un enorme e carissimo centro per lo shopping; d’altronde a San Pietroburgo neanche i prezzi sono quelli del resto della Russia. E ancora l’incrociatore Aurora, dal quale il 25 ottobre 1917 partì il colpo di cannone che diede il via alla Rivoluzione d’Ottobre, e la commercialissima Nevskij Prospekt, 4 chilometri straripanti di gente, di negozi alla moda e di eleganti residenze dell’epoca zarista, dove vissero fra gli altri Gogol, Ciaikovskij, Turgenev, Nijinskij, Rimskij-Korsakov e Dostoevskij.
San Pietroburgo, a mezza giornata di volo dall’Italia, è solo l’ultima contraddizione di una nazione sconfinata che non si finisce mai di vedere e di capire. Un paese da viaggiare con grande spirito di adattamento, pronti a cambiare piani e itinerario per far fronte all’imprevedibilità, all’indolenza, alla disorganizzazione cronica di questo popolo comunque gioviale, ospitale e capace ancora di sorprenderci facendo arrivare un treno in perfetto orario dopo due giorni e 2.000 chilometri.

PleinAir 427 – febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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