Millenni di sale

In barca e a piedi nella laguna dello Stagnone, la più grande della Sicilia: una giornata a fior d'acqua tra i ruderi fenici di Mozia, il magico ambiente delle saline, i voli degli uccelli che abitano questa piccola riserva naturale, a poche centinaia di metri dalla costa di Marsala.

Indice dell'itinerario

Il mulino a vento delle Saline Ettore e Infersa torreggia nell’abbraccio della laguna tinta di verde. Le pale, mosse da un debole vento di scirocco, girano adagio sullo sfondo dell’isola di Mozia, il centro del minuscolo arcipelago dello Stagnone, che comprende altre tre isolette disabitate. Da un piccolo molo squadrato nel tufo, ai piedi di un macinatoio del ‘500 posato su una scacchiera di sale, prendiamo confidenza con la Riserva Naturale Orientata Saline di Trapani e Paceco. Un angolo di natura plasmato dalla mano dell’uomo, un incanto su cui planano cicogne, aironi e cavalieri d’Italia. A questo scenario si ispira la creatività di Daniela Neri, che proprio nelle saline ha il suo laboratorio. Dalle sue mani escono gioielli unici al mondo: li ha chiamati coralli di sale, e del corallo conservano la foggia e il colore. Una collezione affidata alla memoria dei monili che nel ‘700 e nell’800 resero famosi nel mondo gli artigiani trapanesi. Prima di imbarcarsi c’è ancora tempo per dare un’occhiata all’insolita vetrina della bottega di Peppe Genna, ultimo artista del tufo. Un tavolino, lo scalpello, un martello, una vecchia Ford Fiesta come deposito ed esposizione. Dai finestrini si scorgono bizzarri mascheroni, grifoni, centauri, stravaganti battelli: fantasticherie che costano pochi euro e permettono di riportare a casa un originale souvenir.

Pietre millenarie
La barca per Mozia sembra navigare lungo un filo annodato al passato, una carrucola tesa sul piatto orizzonte della laguna, che a stento arriva a un metro di profondità. All’approdo, una parete di aloe segna il passaggio in un altro mondo, un salto all’indietro di 2.500 anni. Questo scampolo di sabbia e argilla, circondato dalle acque del Canale di Sicilia a un tiro di schioppo da Marsala, riecheggia delle antiche storie del Mediterraneo: efferate battaglie, divinità crudeli, strabilianti civiltà, misteri irrisolti. I Fenici abitarono l’isola dall’VIII secolo a.C. fino alla distruzione della città avvenuta 400 anni più tardi, quando Dionisio, tiranno di Siracusa, la mise sotto assedio. L’occupazione durò solo un anno, ma la successiva dominazione cartaginese non fece rifiorire l’isola, che ebbe nuovo lustro solo dall’XI al XVI secolo quando vi si insediarono i monaci basiliani di Palermo. Già dal XVII secolo il geografo Philipp Clüver si rese conto che proprio qui ci doveva essere un’antica città, ma scavi e ricerche archeologiche diedero scarsi risultati persino a Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, arrivato in Sicilia nel 1875. Per trovare i resti di Mozia ci volle la tenacia di un ricco imprenditore inglese, un ornitologo con la passione dell’archeologia: Joseph Whitaker acquistò l’isola agli inizi del ‘900 e promosse nuovi scavi che portarono alla luce un santuario fenicio-punico, parte della necropoli arcaica e i resti di altre costruzioni. Dal 1955, infine, sono scese in campo università inglesi e italiane con metodi scientifici che hanno permesso numerosi ritrovamenti.
Ripercorrere oggi queste trame vuol dire avventurarsi in un piccolo viaggio nella memoria dell’umanità e, al tempo stesso, nella magia di un paesaggio sospeso fra acqua e terra. Perfino le piante hanno qualcosa da raccontare: i cespugli di lentisco con cui i marinai tingevano di rosa le reti da pesca, lo sparto steppico utilizzato per la fabbricazione delle funi, le foglie di acanto riprodotte nei capitelli corinzi, il sommacco per la tintura delle stoffe, il profumo del finocchio selvatico, i frutti generosi delle vigne e degli olivi.
La circonferenza dell’isola è di 2 chilometri e mezzo, una passeggiata di un paio d’ore, scarpe da tennis e bottiglia d’acqua obbligatorie. Lungo il periplo settentrionale danno spettacolo, a un passo dalla battigia, le mura arcaiche a scaglie sovrapposte a secco, prive di malta. Nei pressi del torrione orientale, all’improvviso emergono le tracce della distruzione di Mozia: le pietre precipitosamente ruzzolate dalle mura, i segni della disfatta impressi sui varchi aperti lungo la cinta, la scala bruciata dal fuoco. La porta a nord è spalancata sul mare: il bloccaportone ancora intatto, i segni delle ruote dei carri, al centro una sorta di rotonda spartitraffico.
Una strada lastricata a pelo d’acqua, che ancora sino a pochi anni fa veniva utilizzata dai contadini per trasportare il mosto su carri trainati dai muli, unisce l’isola alla terraferma, per l’esattezza alla necropoli di Birgi. Poco più in là un basamento a tre navate e un pozzo sono ciò che rimane di un tempio fenicio, al di sopra del quale i basiliani avrebbero eretto il loro monastero, primo insediamento dopo oltre mille anni di abbandono. Di fronte resiste la zona industriale, con due forni da cui furono tratti migliaia di vasi. Qui è stato trovato il Giovinetto, splendida statua ellenica del V secolo a.C., star del piccolo museo dell’isola. Superata la necropoli, il tofet è il misterioso luogo delle sepolture dei bambini: alcune fonti classiche riportano che i Fenici qui sacrificavano al dio Baal i loro primogeniti maschi al di sotto di un anno, ma alcune moderne ricerche, basate anche sull’analisi dei reperti ossei, sembrerebbero non confermare questa ipotesi.
Un viale ombreggiato da un’esplosione di fichidindia conduce verso il museo. Fra le teche della galleria, da non perdere le urne cinerarie, due preziosi vasi in vetro e il gruppo scultoreo delle leonesse che azzannano il toro, simbolo di Mozia. All’uscita si procede in direzione del versante meridionale dell’isola, dove il kothon si allarga a ventaglio su un piccola baia: un bacino di carenaggio, forse un porticciolo interno, più probabilmente una vasca dove si immergevano le sacerdotesse di un tempio da poco scoperto nei paraggi. Splendidi mosaici risaltano fra le rovine di una casa patrizia con un grande cortile ornato di ciottoli di fiume e circondato da un portico a colonne doriche. La famiglia Arini vive a Mozia da tre generazioni, e Vincenzo giura che se non fosse il custode dell’isola avrebbe voluto fare l’archeologo. Un amore che gli è costato più di un sacrificio, visto che l’acqua e l’elettricità sono conquiste recenti. Ma il suo sogno è nato nel posto giusto: Mozia, che fu forse una città di 20.000 abitanti ricca di industrie e botteghe, attende solo di essere svelata in tutta la sua magnificenza.

Intorno all’isola
Altre sono intanto le sorprese che ci riserva la laguna, grazie a una chiatta che conduce a spasso fra le isole. Santa Maria, poco a nord di Mozia (altrimenti chiamata San Pantaleo), è in gran parte occupata da una tenuta privata. La Schola, nome latino dovuto al fatto che qui si trovava una scuola di retorica forse frequentata anche da Cicerone, è invece un grumo di tufo che non raggiunge i 100 metri sul lato maggiore; vi si scorgono i ruderi di alcuni edifici e tra le rocce nidifica il gabbiano reale.
Chiude quasi completamente la laguna verso ovest la sagoma dell’Isola Grande o Isola Lunga, che si stende quasi parallela alla costa: per sbarcarvi è sufficiente aggiungere pochi euro al biglietto per Mozia. L’ormeggio a Frà Giovannello svela subito un rigoglioso bosco di pini, mentre una rete di sentieri di terra battuta si inoltra verso una distesa di vasche di sale vigilate da un mulino a vento da poco ricostruito. Da qualche anno i salinai sono tornati anche qui e raccolgono a mano il candido minerale da luglio a settembre con pale, piccoli e carriole. I magazzini che un tempo servivano a custodire il sale sono stati invece trasformati in un esclusivo resort.
Per ammirare il sottobosco selvaggio, le macchie di pineta, alcuni palazzotti del XIX secolo, i ruderi di piccoli villaggi abbandonati, gli ampi lembi di spiaggia sabbiosa, le scogliere orlate di salicornia non c’è bisogno di percorrere lunghe distanze, visto che da nord a sud l’isola misura in tutto 6 chilometri. Si cammina piacevolmente attraverso l’odorosa macchia mediterranea, le palme nane, i grovigli di lentisco, riparando lo sguardo dalla luce che si riflette sui cumuli di sale, alcuni ricoperti di tegole per proteggerli dalle piogge autunnali. Si giunge così alle porte delle grandi saline del Curto delimitate da un canale perfettamente navigabile in canoa ai piedi del rudere di un castelletto ottocentesco, una delle tante residenze estive dei padroni dell’isola in età moderna. Ma basta un po’ di immaginazione per risalire molto più indietro nel tempo, al 241 a.C., quando la flotta di Cartagine subì ad opera di Roma una pesantissima sconfitta che decise le sorti della prima guerra punica.
Sull’estrema punta settentrionale dell’isola ancora un palazzo nobiliare, con le bifore che guardano verso la costa trapanese. Da qui la terraferma dista appena 200 metri: una passeggiata con l’acqua che arriva alle ginocchia per chi vuole osare un ritorno inconsueto fino alla torre di San Teodoro, fortificazione seicentesca a guardia di una vecchia tonnara. Noi invece siamo attesi dal nostro traghettatore, Mario Ottoveggio, per goderci uno splendido tramonto a bordo della barca che ci riporterà alla base: un privilegio riservato solo a dodici persone per volta, quante ne può trasportare la sua Krivamar. Sorseggiato un aperitivo, ecco un buffet di specialità della cucina siciliana: come in un gioco di prestigio all’improvviso la barca si riempie di vassoi ricolmi di caponata, uova di tonno, involtini di sarde, formaggi, pomodori secchi, olive, accompagnati dai bianchi nettari del Trapanese. A lume di candela, ceniamo immersi in un’atmosfera da sogno con l’orizzonte che si tinge di porpora e le prime stelle che trapuntano il cielo dello Stagnone.

Testo di Giacomo Pilati
Foto di Leo Croce

PleinAir 442 – Maggio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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